Home | La rivista | Ricerca | Autori | Approfondimenti | I nostri link | Iniziative | Forum | Servizi | Chi siamo
Comunicazione/globalizzazione.
Le architetture sociali del network space
di Mario Morcellini
1. Il lexicon della globalizzazione
Da sempre, la riflessione sulla globalizzazione è strettamente intrecciata a quella sulla qualità della moderna comunicazione, nonostante l’originaria ascendenza del fenomeno enfatizzi le trasformazioni della scena economica e finanziaria mondiale. La retorica sul primato della struttura economica si é accompagnata del resto ad analisi non sempre serene ed equilibrate della nuova triangolazione tra mercati, comunicazione e tecnologie nella società contemporanea.
Molti sono ormai i contributi che si sono cimentati - spesso con evidente imbarazzo e vena polemica – con il tema della globalizzazione, rivelando la comune difficoltà di delimitare storicamente e definire il lexicon di un fenomeno estremamente complesso e, soprattutto, in progress. Se le radici della globalizzazione vanno principalmente rintracciate nell’internazionalizzazione degli scambi economici parallela all’affermarsi del moderno capitalismo all’inizio del XVI secolo[1], per altri versi è evidente come l’ultimo secolo abbia assistito alla maturazione di un apparato mediale senza precedenti, tale da supportare il nuovo paradigma degli scambi attraverso un’inedita capacità di azzerare - attraverso le potenzialità della tecnologia - l’incidenza dei confini geopolitici. La nuova economia della rete rappresenta attualmente il più recente stadio evolutivo di una simile progressione: tuttavia, nonostante la cosiddetta new economy sia stata inizialmente presentata come un rivoluzionario modello degli scambi economici mondiali, sono ormai molteplici i segnali che invitano a riponderarne le effettive potenzialità e la stessa portata innovatrice rispetto alla tradizione della old economy[2]
I media hanno certamente giocato un ruolo centrale nel processo di globalizzazione, in termini sia causali che finali: se, infatti, l’innovazione delle tecnologie mediali ha contribuito in modo determinante a generare un regime d’interdipendenza e scambio planetari, d’altra parte, un tale assetto culturale ha favorito il sorgere d’imprese comunicative di formato mondiale[3]. In questo senso, Ien Ang colloca la globalizzazione in una fase precisa dello sviluppo della modernità, attribuendo ad essa uno statuto retorico e segnico, prima ancora che fenomenico: tra l’inizio degli anni Ottanta e gli anni Novanta, la storia della globalizzazione è scandita da importanti svolte d’ordine politico e tecnologico, quali la fine della Guerra fredda, le vicende di piazza Tienammen, la guerra del Golfo e, non ultima, l’affermazione di una dimensione globale ed istantanea della comunicazione, emblematizzata dalla copertura mondiale della CNN[4].
Innovazioni tecnologiche quali il cavo, il satellite e lo standard del digitale rappresentano oggi l’infrastruttura portante della globalizzazione mediale e culturale. Per avere un’idea della vertiginosa espansione quali/quantitativa della comunicazione, si consideri solo che, se nel 1965 esisteva un solo cavo telefonico transatlantico attraverso cui non potevano essere trasmesse più di 89 chiamate contemporaneamente, oggi la rete cablata ed il sistema satellitare permettono di gestire simultaneamente circa un milione di chiamate attraverso l’Atlantico. Tuttavia, le origini del processo di globalizzazione vanno ricercate nella nascita, nel corso del diciannovesimo secolo, delle prime reti di comunicazione organizzate sistematicamente su scala globale: in questo senso, il progressivo affrancamento della comunicazione dai limiti spazio-temporali ha storicamente inizio con l’invenzione dal telegrafo, per radicalizzarsi nell’odierna possibilità di accedere al mondo intero in real time[5]. In questo senso, se il carisma televisivo rappresenta un momento topico di straordinaria importanza nella progressione verso una dimensione comune e condivisa dell’interazione comunicativa, attualmente la rete Internet rappresenta la più espressiva metafora dell’interconnessione planetaria degli scambi economici e culturali, la materializzazione tecnologica di una potente spinta globalizzante che ha origini ben più lontane[6].
Per ciò stesso, l’intensione semantica di ciò che, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, si è usato definire globalizzazione risulta di gran lunga superiore a quella di concetti solo in parte sovrapponibili, quali “mondializzazione” ed “internazionalizzazione”: l’elemento distintivo della globalizzazione consiste, infatti, non tanto nell’esistenza di una base mondiale degli scambi, quanto – come invita a notare la preziosa analisi di Saskia Sassen - nella formazione di sistemi specializzati trans-nazionali a sostegno di un tale assetto delle relazioni economiche e culturali. Il rapporto tra la globalizzazione e la diffusione su scala globale della comunicazione va letto in questi stessi termini: la rete costituisce, anzitutto, un sistema specializzato che – al pari del nuovo ruolo politico esercitato dai principali organismi sovranazionali – produce ed istituzionalizza un’inedita dimensione della spazialità, in cui viene ad insediarsi un nuovo ordine di azioni ed interazioni capaci di travalicare i confini geografici locali e nazionali[7].
Ne deriva la progressiva riconfigurazione dello spazio in senso informazionale: la localizzazione statica si sgretola a vantaggio di una nuova matrice dinamica e policentrica, al cui interno si ricompongono i luoghi e le interazioni sociali. Da questo punto di vista, geografi e studiosi di comunicazione si trovano ad operare in campi d’analisi che condividono sempre più punti di tangenza: l’evoluzione delle tecnologie comunicative, che supporta la competitività internazionale delle industrie televisive, informatiche e delle telecomunicazioni, tende a sfumare il concetto di territorio in quello di rete, quale sede delocalizzata di nuove relazioni sociali. L’intensificarsi degli scambi comunicativi su scala planetaria sortisce l’effetto di operare una compressione spazio-temporale del mondo, rendendolo in qualche misura più “piccolo” e più accessibile all’esperienza dell’«hic et nunc»: la comunicazione sembra alimentare questo processo, anzitutto contribuendo massicciamente alla trasformazione della realtà in immagini ed alla frammentazione del tempo in una serie di perpetui presenti[8].
Tra le tante chiavi di lettura proposte, si ricordi una caratteristica formula di Castells[9], che ha definito come network space l’architettura sociale che si va disegnando, al fine di enfatizzare gli aspetti d’interconnessione su cui funzionano la maggioranza delle transizioni inter-individuali che animano le società contemporanee. Il prodotto è una sorta di gigantesca rete della socializzazione e dello scambio simbolico su scala mondiale, che si esprime e concretizza oggi principalmente attraverso la metafora post-moderna di Internet; tuttavia, non prima che il format televisivo, per primo, avesse operato un quotidiano avvicinamento tra gruppi e culture spazialmente distanziati.
E’ evidente quanto la radice del modello culturale di massa resti tutt’oggi soprattutto americana, a seguito di un tradizionale eccesso sul fronte dell’importazione di prodotti culturali statunitensi da parte degli altri paesi. Con questo primato si è oggi chiamati a confrontarsi anzitutto superando e problematizzando la logica ingenua della tesi di un imperialismo culturale degli Usa sul resto del mondo, che ha a lungo costituito il principale ed incontrastato paradigma interpretativo della globalizzazione comunicativa[10]. E’, infatti, assolutamente anacronistico immaginare che l’americanizzazione culturale e la dipendenza mediale delle altre industrie culturali del pianeta costituiscano le uniche tendenze planetarie in materia di comunicazione: al contrario, la globalizzazione della comunicazione sembra aver principalmente contribuito a rafforzare un nuovo asse simbolico nel mondo moderno, costruito intorno all’ossimoro locale-globale.
Sono state soprattutto le culture del passato a presentarsi con l’aspetto prescrittivo dell’inculturazione, mentre l’impatto delle nove tecnologie si colloca al di là delle prime ondate di uso premoderno e manipolatorio della comunicazione: se l’impatto individuale dei “vecchi media” si delineava come semplice addendo di un impatto collettivo e generalista, oggi si fa legittimamente strada la possibilità di un impatto anche individuale e, comunque, diverso da quello socialmente costruito. Nell’analisi delle culture della comunicazione nella società globale, maggior attenzione meriterebbero i meccanismi ermeneutici di appropriazione locale dei prodotti dei media, in una dinamica caratterizzata da complesse anticipazioni e retroazioni reciproche tra contesti di ricezione e circuiti distributivi globali dei grandi conglomerati transnazionali della cultura[11].
2. Retorica della globalizzazione ed emergenza no-global
Negli anni Novanta, il termine globalizzazione ha registrato un’enorme popolarità, fino a diventare una delle formule maggiormente evocative ed abusate per descrivere la condizione contemporanea. Del resto, lo sforzo di metabolizzare ed intellettualizzare i grandi cambiamenti attraverso la loro “messa in discorso” si ancora, in modo quasi naturale, alla rapida diffusione di neologismi, che ricorrono ridondantemente nell’interpretazione del nuovo. Da parte sua, la parola globalizzazione deve la propria fortuna al fatto di rinviare, da una parte, ad una semantica positiva (anche se ideologicamente viziata e tutt’altro che ingenua) e, dall’altra, ad una costellazione sufficientemente indefinita e trasversale di fenomeni contemporanei, con evidenti “interferenze” rispetto alle contigue metafore del post-moderno e del post-industriale (rispettivamente, con riferimento alle logiche culturali ed economiche delle società avanzate).
Per altri versi, il discorso sulla globalizzazione è stato sempre associato ad un tema opposto: l’esplosione dei conflitti locali e la radicalizzazione degli integralismi. Mentre il mondo diviene globale, implodendo verso un’ideale centro, alcune delle sue appendici geograficamente e socialmente più remote si trasformano in luoghi di tensione e resistenza: la dimensione globale si sostanzia nella complementarietà rispetto a quella locale, al punto che un fortunato neologismo – il concetto di glocal – accorpa, anche nel linguaggio, il senso di questa forte e complessa dinamica socioculturale.
L’ideologia della globalizzazione e, più in generale, l’assuefazione alla retorica della cultura di massa, hanno certamente alimentato e fatto prevalere visioni ottimistiche - se non addirittura compiaciute - della società moderna. Tuttavia, soprattutto i fatti dell’11 settembre e la guerra in Afghanistan hanno dimostrato l’infondatezza di molti dei luoghi comuni dietro cui si sono a lungo trincerati i discorsi sulla globalizzazione, primi fra tutti la prospettiva di un maggior benessere generalizzato nel globo e la corsa all’omogeneità culturale da parte dei diversi popoli, nella leadership assoluta del modello di sviluppo americano[12]. Il pericolo è, da una parte, quello di intendere la globalizzazione nei termini riduttivi ed ipostatizzanti di una sorta di cinico neoliberalismo, in cui gli attori sociali trovano posto principalmente come consumatori e, dall’altra, quello di appiattire la complessità dei fenomeni in atto su una serie di false certezze relative al ruolo della politica, dell’economia e dei media nella società globale.
Tra quanti hanno messo in discussione, già in epoca “non sospetta”, l’ottimismo tecnologico del “villaggio globale” di mcluhaniana memoria, spicca l’approccio critico di Armand Mattelart, volto a mettere in guardia circa i rischi di un’ideologizzazione mitizzante dei principi guida della nuova società dell’informazione. Anche dal punto di vista della ricostruzione scientifica dei processi di internazionalizzazione, il concetto di comunicazione-mondo risulta allora preferibile - in virtù della sua multidimensionalità - a quello di “globale”, etichetta che rischia di scadere in una sorta di superficiale prêt-a-porter ideologico, tale da adombrare l’esistenza di conflitti e fratture nel mondo interconnesso[13].
Se la necessità di una profonda revisione critica interessa anche il campo dell’economia (soprattutto alla luce della già menzionata tendenza a mistificare i contenuti e la forza della cosiddetta new economy), sul piano politologico la nota metafora della “fine della storia” costituisce certamente la formulazione più controversa e discussa di un modello relativamente armonioso delle relazioni internazionali post-guerra fredda: in seguito alla caduta del muro di Berlino, l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale sembra accompagnarsi all’arresto dell’evoluzione ideologica dell’umanità e, dunque, alla fine delle grandi conflittualità su scala globale[14]. Proprio negli ultimi tempi, la tesi enunciata da Fukuyama ha conosciuto una rinnovata popolarità: l’11 settembre, infatti, è diventato tragica realtà il rischio di una reazione all’ideologia della globalizzazione, per la perdita d’identità da parte delle culture “altre”. Oggi più mai, è dunque necessario rimettere in discussione le categorie apodittiche di un globalismo a buon mercato, senza residui e senza conflitto, universalmente pacificante ed armoniosamente coesistente con le identità nazionali ed i diversi sistemi politici: almeno finora, la globalizzazione non è stata questo.
Proprio l’attuale vivacità dei movimenti e delle culture no global costituisce, all’interno dello stesso mondo “globalizzatore”, la più evidente testimonianza della reattività sociale ai paradossi ed alle sperequazioni del modello globalizzante, troppo a lungo formulato nei termini contraddittori dell’economicismo e dell’autoreferenzialità di quest’ultimo come modello unico al quale conformarsi: le mistificazioni di cui la retorica della globalizzazione è colpevole sembrano produrre dialetticamente il proprio superamento, incarnandosi nelle issues e nella straripante corporeità dei movimenti anti-global. Del resto, la stessa Rete sembra giocare, in questo senso, un ruolo assolutamente cruciale nella formazione di nuovi gruppi d’interesse e comunità elettive, con una potente ricaduta in termini di conflittualità emergenti e creazione di culture eversive, capaci di effetti destabilizzanti sulle rendite di potere e sulle tradizionali figure della mediazione culturale.
La resistenza al globalismo sembra, anzitutto, una forma di difesa ed autoconservazione messa in atto dagli stessi attori ed autori della globalizzazione, per proteggere se stessi dai rischi che essa ha finora generato nell’offrirsi come un modello monolitico di sviluppo economico, incapace di declinarsi altrettanto efficacemente anche sul piano politico e culturale. A questo proposito, la tesi di Samuel Huntington sullo “scontro delle civiltà” ha il merito di gettar luce sull’odierno primato delle identità culturali nel generare processi di coesione, disintegrazione e conflittualità su scala globale, secondo il nuovo modello multipolare delle relazioni internazionali instauratosi dopo la disintegrazione del blocco comunista[15].
La pretesa che la modernizzazione favorisca automaticamente la nascita di una nuova forma di cultura universale (che, nel peggiore dei casi, si identifica tout court con l’occidentalizzazione) non si è tradotta in realtà: l’influenza dell’Occidente è infatti in calo, erosa dalla crescita demografica del mondo islamico e da quella economica e politica delle nazioni asiatiche. Il paradosso del glocalism si fa, in quest’ottica, particolarmente stridente: l’internazionalizzazione dei mercati e, in parte, degli stili di vita individuali, sembra da una parte liberare forze tendenti all’omologazione culturale e, dall’altra, favorire reazioni di segno opposto, quali la radicalizzazione dei conflitti ed il rafforzamento delle identità nazionali, etniche e religiose.
Che il mondo vada verso un’intensificazione degli scambi sia economici che comunicativi, è un fatto inoppugnabile, ma è necessario riflettere sul fatto che è mancata finora la capacità di concepire in modo più mite questa maggior mobilità di idee, merci, persone. Soprattutto gli eventi dell’11 settembre lanciano, in tal senso, una sfida inequivocabile: sono necessarie una teoria ed una pragmatica per l’elaborazione di un nuovo modello di convivenza, volto a mitigare una cultura di massa troppo pervasiva e falsamente universalizzante. Più che mai, la crescente internazionalizzazione degli scambi esige una rinnovata capacità di governo e progettazione dello sviluppo economico e culturale, nello sforzo attivo di favorire la convivenza tra le diversità culturali. Da questo punto di vista, il contributo della riflessione sui media, intesi come motori e sensori del cambiamento, si rivela assolutamente centrale.
Gli attacchi terroristici sferrati al cuore degli USA l’11 settembre scorso hanno rappresentato un fenomeno comunicativo assolutamente non ordinario, destinato a ridisegnare repentinamente l’ordine dato dei rapporti politici e sociali tra nazioni e soggetti. L’irrompere della breaking news dell’11 settembre, infatti, ha messo la collettività di fronte ad un nuovo e minaccioso “caleidoscopio della realtà” che - contrariamente all’opinione di quanti hanno profetizzato la fine dei grandi eventi collettivi[16] - sembra aver repentinamente rimesso in moto la storia: una violenta mobilitazione dell’opinione pubblica mondiale ed un vero e proprio “fuoco d’artificio” mediatico su scala globale hanno accompagnato processi epidemici di acquisizione, verifica, scambio ed approfondimento della notizia, all’interno di un tam-tam multimediale senza precedenti.
E’ chiaro che c’è differenza tra il conflitto del Golfo, che aveva un’esplicita matrice economico-finanziaria, rispetto a quello attualmente in corso, connotato almeno in superficie da una matrice prevalentemente simbolica in cui, secondo alcuni, la religione diventa pretesto per ben altre rivendicazioni. Tuttavia, il dato più epocale è che, in questa seconda occasione, è stata messa in discussione la nostra inconsapevole assuefazione alla cultura di massa, che ha preso la forma del disconoscimento generalizzato: la stessa riflessione scientifica non è stata capace di realizzare fino a che punto l’espansione fisiologica e per contatto della cultura occidentale e dei suoi valori politici (e, quindi, lo stesso modello democratico) potesse provocare condizioni di penuria, frustrazione collettiva e, comunque, bacini imponenti di rivolta ed antagonismo presso le periferie del mondo. Discipline come l’antropologia culturale e l’etnologia avrebbero ben più concretamente potuto offrire un apporto in questa direzione se, invece di concentrarsi sulle tradizioni di un lontano passato, avessero studiato i dislivelli culturali della modernità.
Offuscati dalla retorica della globalizzazione (cui si aggiunge, oggi, la nuova retorica del no global) siamo, dunque, rimasti ciechi ed inermi di fronte alle crepe della modernità ed al conflitto della cultura, forse inibiti anche dall’imponente e teatrale dominanza del modello culturale di massa. Non abbiamo minimamente preso atto che questo tipo di “massaggio culturale” - con tutte le premesse culturali e politiche che esso disponeva al centro o al margine - poteva favorire, anche e soprattutto presso le avanguardie colte, una situazione così pericolosa e destabilizzante: nella sua esaltazione della teatralità della vita e dell’autosufficienza di quest’ultima come centro dell’esistenza individuale e della convivenza civile, la cultura occidentale non possiede gli strumenti per capire la fisiologia con cui si è organizzata nel tempo una risposta così estrema come quella terroristica contro l’America. L’insegnamento che si deve trarre per il futuro è di riflettere su quanto i processi di modernizzazione nascondano dissonanze e giacimenti di aspettative insoddisfatte; in questo senso ed al di là di ogni retorica, pare che quanto è accaduto l’11 settembre offra ottimi spunti di riflessione a studiosi ed operatori della comunicazione.
Si rifletta anche su quanto le nuove generazioni non condividano molto delle premesse e delle mete culturali che consideriamo plausibili ed assolute. Si rifletta, soprattutto, su quello che è successo sulla scena del mondo per il mancato riconoscimento dei sistemi valoriali di ingenti masse di uomini che vivono accanto a noi, in un mondo che le nuove tecnologie rendono, giorno dopo giorno, più interconnesso: rispetto ad essi, non basta più limitarsi a credere che la pensano diversamente.
4. Globalizzazione e tecnologia: la metafora post-moderna di Internet
L’insieme di numerosi fattori socioculturali è all’origine - come si è visto - di un nuovo territorio fortemente interconnesso, in cui la rete si rivela non solo una metafora alla moda, ma il volano di numerose e cruciali interazioni sociali, economiche e culturali. Del resto, il segno con cui ormai Internet si presenta alla ribalta della scena sociale è quello della rete globale di interazioni, segnando un mutamento assolutamente epocale. Partendo dalle aree geografiche di più intenso sviluppo tecnologico, le infrazioni che la Rete genera sono percepibili in tutte le dimensioni della vita sociale e in tutte le aree del globo, radicalizzando - in termini di accesso e disponibilità delle infrastrutture tecnologiche - l’opportunità di una maggior partecipazione sociale e, al tempo stesso, il rischio di un'ulteriore distanziazione delle società e dei gruppi più deboli.
La Rete rappresenta, probabilmente, l’icona stessa dell’innovazione tecnologica dei nostri anni: ce n'è quanto basta per ammettere che vale la pena di lavorare ad una nuova produzione di conoscenza, che, soprattutto, sappia cogliere la portata socio-antropologica d’Internet in termini di potente contributo alla costruzione di una cultura condivisa ed una nuova tradizione globale. Non solo si è di fronte ad una stupefacente accelerazione della storia (e già questo è bastato in passato a mettere in stress la capacità interpretativa delle teorie e della ricerca), ma addirittura ci si confronta con una tecnologia comunicativa estrema, che efficacemente riassume ed emblematizza la velocità e la portata globale dei processi di mutamento socioculturale nelle società contemporanee[17].
Se in passato si poteva sostanzialmente riconoscere una formazione sociale della comunicazione (come se quest'ultima incorporasse determinati e specifici livelli maturati dai rapporti sociali), oggi le matrici che confusamente scorgiamo nel rinnovamento della comunicazione spingono a rintracciare nuove dimensioni interpretative, volte ad afferrare la qualità dello slittamento tardo-moderno dalle strutture della società in quelle dell’interazione mediatica[18]. Si va dalla partecipazione attiva all'apporto soggettivo, dalla frustrazione alla formazione di una nuova responsabilità, fino alla gratificazione di una serie di bisogni di realizzazione individuale nell'interazione comunicativa che non erano letteralmente immaginabili ed esperibili al bancone dei media generalisti. La realtà “sommersa” e, per ciò stesso, tanto più totalizzante di Internet emblematizza anzitutto l’instaurarsi di una nuova, evanescente gestalt sulle relazioni sociali, la qualità post-moderna di inedite architetture comunicative capaci di assorbire silenziosamente in sé i preesistenti livelli dell’interazione umana. In questo senso, l’«insostenibile leggerezza» della Rete per la stessa riflessione sociologica può essere colta soprattutto se confrontata con la ben più brutale - e, dunque, intelligibile - aggressione linguistica praticata sulla società dall’autoreferenzialità televisiva, almeno nel più recente stadio evolutivo del mezzo.
Le nuove tecnologie inducono il sistema istituzionale ad un ripensamento generale del ruolo delle infrastrutture e, più in generale, dello sviluppo economico e sociale di un sistema-paese. L’avanzamento tecnologico ha, infatti, la capacità di spostare l’intero sistema socioculturale sia in direzione di una società più democraticamente reticolare, in cui aumentano i tempi e gli spazi di partecipazione politica e sociale, sia verso un regime di maggior controllo ed anomia: se abbandonate a se stesse ed al mercato, le architetture multipolari e potenzialmente democratizzanti di Internet minacciano, paradossalmente, una riproposizione di nuovi scarti e disuguaglianze sul piano del capitale cognitivo e della mobilità culturale degli individui, una nuova divaricazione partecipatoria tra nicchie di information rich e poor[19]. Nella società della conoscenza, il baricentro della partecipazione sociale viene a coincidere sempre più con la competenza degli individui nel costruire autonome condizioni di accesso agli eventi e mutamenti del mondo globalizzato: è così che la crescente individualizzazione sociale impone non solo una solida base di patrimonio cognitivo in termini d’istruzione e scolarizzazione, ma anche e soprattutto una nuovo e massiccio investimento quotidiano dei soggetti in una sorta di autoformazione permanente attraverso la comunicazione.
Vanno, più che mai, evitate visioni eccessivamente autoreferenziali e deterministiche dell’innovazione, disancorate dal riconoscimento di un uso sociale delle tecnologie; il cammino da compiere in questa direzione è reso ancor più faticoso dalla storica assenza, almeno nel nostro paese, di un tavolo permanente di riflessione pubblica sul ruolo ed il significato delle tecnologie comunicative. Ancor oggi ci si trova di fronte ad una generale carenza di policies, ma anche di studi “preventivi” sull’innovazione tecnologica e sulla sua gestione, soprattutto per l’assenza di istituzioni pubbliche dedicate; ciò, proprio nel momento in cui diventa assolutamente cruciale - ai fini di uno sviluppo sociale equo e democratico - provvedere alla ricomposizione delle dissonanze esistenti tra la razionalità scientifica e quella sociale nella metabolizzazione collettiva dell’avanzamento tecnologico.
Promuovere l’elaborazione culturale della multimedialità significa adottare strategie finalizzate al sostegno della diffusione tecnologica e della sperimentazione di prodotto non solo in un’ottica competitiva di mercato; anzitutto, c’è bisogno di politiche per l’innovazione volte ad agevolare la comune costruzione di un ambiente culturale quanto più possibile ricettivo all’innovazione tecnologica. In questo senso, va certamente fatta valere una visione antropocentrica della tecnologia, attraverso la promozione di una concreta opera di ecologia ed alfabetizzazione multimediale rivolta, ad ampio raggio, alla sfera dei cittadini, del mercato, del sistema scolastico e formativo.
E’ così che, nell’epoca di Internet e della società dell’informazione, la prospettiva utopica di un’intellettualizzazione diffusa ed universale, di un’«intelligenza collettiva»[20], prende forma tangibile nel principio della formazione come cinghia di trasmissione culturale e quasi naturale infrastruttura per l’esercizio allargato della cittadinanza. Il rinnovato vigore dell’istituzione formativa assume un valore tanto più pregnante se si considera che, di fronte allo scintillio ed alla grande espressività della comunicazione, tutte le altre istituzioni sociali sembrano versare in una fase critica di decadenza strutturale o, almeno, di caduta d’appeal, rivelandosi sempre più incapaci di orientare e soddisfare le mete culturali del soggetto moderno.
Se il capitalismo ha promesso la ricchezza e la democrazia ha avuto il compito di distribuirla, solo la rivoluzione tecnologica può oggi assicurare l’uguaglianza. Tuttavia, a condizione che la scuola e la formazione sappiano fare la loro parte.
5. Globalizzazione e comunicazione: per un nuovo universalismo della cultura di massa
L’exploit tecnologico sembra riproporre bruscamente la questione politica dell’uguaglianza, nei termini di libertà di tutti di avere accesso alla disponibilità ed alla competenza della comunicazione: la disuguale distribuzione delle risorse economiche, culturali e comunicative tra gli individui ed i popoli costituisce il paradosso stesso della globalizzazione, nell’epoca in cui - di fronte al già citato tramonto delle tradizionali forme di mediazione sociale - la cultura e la comunicazione si affermano come la forma più universale di partecipazione alla società.
Con riferimento al caso italiano, soprattutto gli anni Novanta presentano un impressionante affollamento di elementi positivi di mutamento culturale, in termini di accesso allargato alla risorsa comunicazione e - soprattutto nei cinque anni conclusivi – di un processo di più decisa europeizzazione degli standard qualitativi di consumo culturale. La disinfiammazione televisiva della vita culturale rappresenta, probabilmente, il principale indicatore del processo di apertura alla multimedialità e miglioramento generalizzato di quel benessere comunicazionale di cui, a lungo, la televisione generalista ha costituito la principale fonte di alimentazione, in termini di integrazione e coesione socioculturale.
Tuttavia, lo spostamento crescente di soggetti al centro della scena sociale ad opera dei media rischia di risultare pura mistificazione in assenza di misure volte a combattere il drammatico mediaevo di quanti sono tutt’oggi brutalmente distanziati e gettati ai margini dal vortice del cambiamento. Soprattutto l’ideologismo a lungo insito nella riflessione sui media sembra aver ostacolato una lucida comprensione della nuova qualità di rischi ed opportunità associati all’innovazione comunicativa, dato il presupposto che la società delle opportunità e dell’abbondanza comunicative si configuri inevitabilmente anche come società del rischio crescente, in termini di de-tradizionalizzazione, individualizzazione e nuova conflittualità[21].
Le nuove dinamiche di spiazzamento, frustrazione ed emarginazione connesse all’attuale rapidità del mutamento culturale (non solo nelle periferie della scena mondiale, ma all’interno degli stessi Paesi “titolari” della modernità) meritano certamente l’attenzione dei governi e degli intellettuali; le risposte ed i correttivi che questi ultimi sono chiamati ad immaginare ai fini una distribuzione più equa e democratica del capitale cognitivo si rivelano tanto più urgenti e necessari via via che si rafforza la meta di un mercato comune della comunicazione e della cultura.
L’efficienza del sistema formativo, il ripristino di figure credibili d'intellettuali in qualità di mediatori e, infine, l’attivazione di politiche pubbliche di riduzione del digital divide, appaiono oggi mete irrinunciabili all’interno di un disegno responsabile e moderno di filtraggio e socializzazione al “nuovo”, nel momento in cui l’esperienza del mondo viene sempre più massicciamente a passare attraverso la mediazione delle tecnologie comunicative. In particolare, la garanzia delle condizioni di base per una maggior democratizzazione culturale nell’era di Internet non può prescindere da una rinnovata assunzione di responsabilità da parte del sistema educativo: alla scuola ed alla formazione è affidata la costruzione di una nuova e più salda mediazione culturale che, parallela a quella dei mezzi di comunicazione, sia tale da integrare quest’ultima azzerando asimmetrie e sperequazioni sul piano della capacità partecipatoria degli individui.
Se adeguatamente ancorata alla diffusione della cultura di base e soprattutto della partecipazione scolastica, la comunicazione dimostra infatti di avere il potere positivo di cambiare le persone, conducendo i soggetti verso assetti di vita straordinariamente più appaganti e ricchi di “anima” perché, in qualche misura, nuovamente spiritualizzati dalla partecipazione profonda alla modernità.
Note
[1] I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna. L’agricoltura capitalistica e le origini
dell’economia-mondo europea nel XVI secolo, Il Mulino, Bologna, 1982 (1974).
[2] Sulla tendenza a sovradimensionare il carattere rivoluzionario della net-economy, cfr. A. Mattiacci, “La net-
economy italiana: un quadro imperfetto”, in R. Fontana, B. Mazza (a cura di), E-job. Guida al lavoro nella net-
economy, Guerini e Associati, Milano, 2001.
[4] I. Ang, Globalization and culture, in “Continuum”, VIII, 2, 1994.
[5] Cfr. J. B. Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Il Mulino, Bologna,
1998 (1995).
[6] J. B. Thompson, op. cit.
[7] Cfr. S. Sassen, Fuori controllo. Mercati finanziari contro stati nazionali: come cambia la geografia del
potere, Il Saggiatore, Milano, 1998 (1996).
[8] Ciò, in piena coerenza con i principi dell’estetica post-moderna: cfr. F. Jameson, Il postmoderno, o la logica
culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano, 1989 (1988).
[9] M. Castells, La nascita della società in rete, Egea, Milano, 2002 (1996).
[10] Cfr. H. I. Schiller, Mass communication and American empire, New York, Augustus M. Kelley, 1969.
[11] Queste nuove consapevolezze nascono, anzitutto, nell’ambito del filone di ricerca sulla comparazione
transculturale delle audience. Per un’analisi approfondita del tema, cfr. J. B. Thompson, op. cit., pp. 245-251.
[12] R. Di Leo, Breve la vita felice della globalizzazione, in “Next”, n. 14, 2002, pp. 86-92.
[13] A. Mattelart, op. cit..
[14] Cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992 (1992).
[15] S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997 (1996).
[16] Cfr. J. Baudrillard, L’illusione della fine o Lo sciopero degli eventi, Anabasi, Milano, 1993 (1992).
[17] Al riguardo, si ricordi la definizione di tecnologia caratterizzante sviluppata da Jay D. Bolter (tuttavia, con
specifico riferimento alla pregnanza simbolica del computer nella nostra cultura), nel senso di tecnologia che
sviluppa legami simbolici - di natura non solo metaforica - con la scienza, la filosofia o la letteratura di una
cultura. Cfr. J. D. Bolter, L'uomo di Turing. La cultura occidentale nell'età del computer, Pratiche Editrice,
Parma, 1984 (1984), p. 19.
[18] A. Abruzzese, A. Dal Lago (a cura di), Dall’argilla alle reti. Introduzione alle scienze della comunicazione,
Costa & Nolan, Ancona-Milano, 1999, p. 13. Per una stimolante proposta di riformulazione del pensiero
sociologico nei termini di “scienza mediologica”, si veda, in particolare, l’introduzione programmatica di
Alberto Abruzzese (pp. 5-32).
[19] Si consideri, al proposito, la straordinaria attualità della teoria degli scarti di conoscenza (knowledge
gap): cfr. P. J. Tichenor, G. A. Donohue, C. N. Olien, Mass media flow and differential growth in knowledge,
“Public Opinion Quarterly”, n. 34, 1970, pp. 159-170.
[20] Cfr. P. Lévy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996 (1994).
[21] Per una suggestiva rilettura della società moderna come società del rischio, cfr. U. Beck, La società del
rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma, 2000 (1986).
Home | La rivista | Ricerca | Autori | Approfondimenti | I nostri link | Iniziative | Forum | Servizi | Chi siamo