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SAGGI

 

Il rischio della globalizzazione, la globalizzazione del rischio

 di Mariella Nocenzi

 

 

  

1.    Rischio e globalizzazione: una contradictio in terminis?

 

Due concetti, due origini temporali ed epistemologiche lontane, un unico nesso per descrivere l’attuale condizione degli uomini di questi tempi. Quelli di rischio e globalizzazione sono termini che ormai occupano gran parte delle biografie, dei discorsi comuni e delle analisi scientifiche della società da poco entrata nel nuovo millennio; ma mai in precedenza il loro significato e le loro dinamiche si erano a tal punto incrociate da chiedersi se è valida la palese contradictio in terminis fra ciò che indica un pericolo proveniente da cose esterne all’uomo (absolute risk) o relativo ad una dimensione totalmente soggettiva psico-sociale (perceived risk), (Luhmann, 1990) e un processo nel quale paesi e imprese, movimenti sociali e gruppi professionali, etnie e religioni differenti sono in rapporto fra loro e cooperano per migliorare le condizioni singole e collettive (Cesareo, 2000). La risposta potrebbe risiedere nel nesso di due concetti che a livello epistemologico, al contrario, fu tracciato nel lontano passato dall’antica saggezza dei Cinesi: nella loro lingua la parola corrispondente a quella di rischio è “crisi” e si compone di due ideogrammi, l’uno equivalente al concetto di pericolo e l’altro di opportunità. Le opportunità della globalizzazione possono infatti indurre rischi, ma anche correndo rischi si possono ottenere benefici e non solo effetti perversi da questo processo. Dalla sua prima era con la politica mercantilista del XVI-XVII sec., si è giunti all’attuale terza fase della globalizzazione, dominata da una rete di interdipendenze, interconnessioni, omogeneità che unisce le società in una sorta di villaggio globale, in un “sistema internazionale” che produce un’emergente economia mondiale, una cultura transnazionale e movimenti internazionali. Ma é anche grazie alla crescente interconnessione dei paesi coinvolti in tale processo che le contraddizioni che esistono a livello di ogni società nazionale vengono diffuse su scala mondiale” (Ferrari Occhionero, 2001). Il confronto fra omogeneità e difformità non può che suscitare quel senso più comune del rischio che molti sociologi hanno individuato nell’innata propensione umana a sfidare l’ignoto, nonostante le possibili conseguenze negative, un tratto che attraversa la storia delle vicende umane dalle più antiche forme di civiltà a quelle evolute, greca e romana, fino a tutto il medioevo, prima di affacciarsi all’età moderna e alle sue attuali propaggini postmoderne (Nocenzi, 2002). Si deve a Zygmunt Bauman (1999) una recente esaustiva descrizione di questa condizione dell’uomo contemporaneo in quella dell’Unsichereit, un termine tedesco scelto opportunamente dal sociologo per il suo significato comprensivo delle esperienze dell’incertezza (uncertainty), dell’insicurezza esistenziale (unsecurity) e dell’assenza di sicurezza per la propria persona (unsafety) che attanagliano oggi gli individui inibendone la propensione ad assumere i rischi necessari per promuovere il mutamento e che fanno del rischio stesso l’elemento culturale dominante. Le conquiste ottenute con il progresso in gran parte del pianeta potrebbero apparentemente rendere paradossale un aumento dei limiti nelle possibilità di azione umana. Eppure, la crescente complessità indotta dall’evoluzione, non accompagnata da una chiave di lettura ideologica - essendosi mostrata insufficiente quella economico-razionalistica della modernità- prospettano ora i “lati oscuri” dello sviluppo moderno: il materializzarsi dei rischi che il capitalismo presumeva di aver calcolato, così come la difficoltà dell’individuo e della società a scegliere fra le innumerevoli possibilità che gli presentano, specie su scala globale, mai finora così varie quanto indecifrabili rispetto al futuro. Ha detto recentemente la giornalista Tehmina Durrani “Il fatto che, nonostante il formidabile sforzo compiuto dal mondo industrializzato per acquisire ricchezze, potenza militare, crescita scientifica e libertà civile tutto si stia dimostrando vulnerabile e insicuro, rappresenta un duro risveglio … se il mondo industrializzato non si preoccuperà di tutta la razza umana, commetterà un errore colossale che distruggerà l’intero pianeta” (2002). Richard Sennett (1998) ha preferito ad una sistematica individuazione del rischio, osservare la condizione vissuta nelle esperienze quotidiane delle società avanzate e supertecnologiche che paradossalmente - ma poi non molto - è simile a quella delle società primitive: una condizione di paura. Se nelle società premoderne il rischio instillava paura dell’ignoto, oggi, come direbbe Duclos, vi è un’angoisse de l’incontrôlable data dalla paura di fallire nella scelta delle soluzioni che rendono meno incerto l’ignoto. L’osservazione dei fenomeni sociali porta prevalentemente a riconsiderare il rischio come elemento di disturbo dell’agire umano, dominato dalla paura, collegata a quell’accezione di probabilità di un evento negativo che Le Breton (1985) legge in una società ossessionata dalla sicurezza e preoccupata di garantire la prevenzione delle avversità e sventure che attengono alla condizione umana. A ragione, la prima teorizzazione tardomoderna sul rischio lasciataci da Niklas Luhmann (1986), gli attribuisce un ruolo centrale proprio in una società che mostra una dipendenza crescente dal futuro e, per pianificarlo, dalle scelte decisionali che opera nel presente. Rispetto alla configurazione del pericolo (gefahr) come possibilità di conseguenze negative di un evento esterno all’individuo, ad es. le calamità naturali, tipica delle società premoderne, nelle società avanzate il rischio (risiko) ha assunto la sua attuale importanza perché riferibile ad eventuali danni futuri imputabili alla decisione umana. Il passo successivo dell’individuazione pratica della decisione proprio alla luce del numero crescente delle scelte indotte dalle scoperte tecnologiche e dalla globalizzazione, ha fatto concludere al sociologo tedesco che oggi il rischio prevale sul pericolo, anche quando, rispetto alle obiezioni dei suoi critici, sembra incombente una catastrofe ecologica, seppur non causata direttamente da decisioni umane, ma effetto di lungo termine di comportamenti individuali e sociali deliberatamente assunti (Luhmann, 1990). Luhmann, anzi, ritiene sempre più numerosi i latent side effects, (effetti collaterali latenti) indotti dal progresso delle scienze che “quanto più calcolano razionalmente, tanto più rendono complessa la costruzione del calcolo e incerto il futuro” (ibid., p. 39). Una realistica teorizzazione, ma che non tiene conto - al pari dei saggi cinesi - quanto dagli stessi elementi ne deduce l’altro sociologo teorico della risk society, Ulrich Beck (1992) quando sottolinea come il rischio è un modo sistematico di far fronte ai pericoli e alle insicurezze indotte dalla modernizzazione ed è una razionalizzazione della paura che l’uomo contemporaneo sceglie deliberatamente di assumere nella posta in gioco per il progresso, rispetto al rischio premoderno dell’ineluttabile fato. Beck ed altri studiosi ricorrono a strumenti affatto analitici, quanto quelli di Luhmann, per proporre una lettura funzionale del rischio nei processi sociali contemporanei in cui, nota anche Giddens (2000) ci si trova a fronteggiare situazioni di rischio che nessuno nella storia precedente ha dovuto maiaffrontare. Ancora di più Beck, e sulla sua scia Giddens, è arrivato a concludere che nelle attuali dimensioni globalizzate del rischio, esso è meno identificabile, più importante nei suoi effetti e meno gestibile, un fenomeno tipico della tarda modernità globalizzata e non, come la scuola opposta di sociologi afferma, solo un retaggio della cultura moderna, “inventatasi” una nuova dimensione di incertezza per eliminare la genuina indeterminazione delle cose umane. Lo spazio comune condiviso nella globalità ha perso così il significato di “sistema uomo-ambiente” a favore di uno più prettamente politico, quando sono divenute più percepibili le conseguenze sulla vita individuale e collettiva delle trasformazioni umane dell’ambiente. Il mito moderno del controllo dell’uomo sulla natura attraverso il progresso scientifico e tecnologico, pur realizzandosi, ha indotto processi irreversibili che hanno persino resa incerta la stessa sopravvivenza della specie umana e del pianeta e hanno svegliato nella sensibilità pubblica un nuovo bisogno-valore, quello di invertire il processo per preservare quell’elemento indispensabile che è il patrimonio naturale del sistema in cui tutti gli individui vivono. Innalzamento della temperatura di almeno 2-3 gradi dovuto all’inquinamento atmosferico, calo della disponibilità idrica, deforestazione, aumento delle precipitazioni, innalzamento del livello del mare e probabili inondazioni, impoverimento della biodiversità: questo il quadro che per i prossimi decenni è stato prospettato dai rapporti di scienziati e organizzazioni internazionali (UNEP, World Watch Institute, FAO) nel tracciare la condizione dello sviluppo umano all’inizio del Terzo Millennio, accanto a problematiche come la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza - il 20% della popolazione del pianeta dispone dell’80% del reddito mondiale - o la disoccupazione dei Paesi sviluppati e la sottoccupazione in quelli in via di sviluppo. Una situazione complessiva che mostra tutti i limiti dell’incidenza antropica sui processi naturali e sociali e che rende quello dell’incertezza un elemento ancor più intrinseco nella conoscenza dell’uomo contemporaneo. Il rischio si associa così alla globalizzazione leggendo nel ridimensionamento delle potenzialità tecniche e scientifiche, “fatti incerti, valori in discussione, poste in gioco alte e decisioni urgenti” (De Marchi, 1996) da assumere. Si potrebbe concordare con Wieviorka (1989), secondo il quale, superate molte barriere e incertezze ataviche, l’individuo è oggi alla ricerca di nuovi scenari di rischio che costruisce anche laddove non sono tali, invocando un utopico “rischio zero”. Ma non si può negare e condividere l’osservazione di Giddens (1990) sulla condizione di incertezza globale che oggi pervade ambiente e società poiché causata dallo squilibrio fra un rischio che può essere accettabile e la fiducia riposta nei centri decisionali e nei sistemi esperti per mantenerlo sotto controllo, di difficile individuazione in dimensioni che guardano ormai su scala mondiale. Una salomonica ricomposizione fra opposte teorie potrebbe risiede nel riconoscere l’importanza contemporanea assunta dal rischio per l’attuale fase di crisi - nel senso etimologico di transizione verso il nuovo - che è da sempre connaturata all’individuo, indipendentemente dalle risultanze della modernità. Ciò che rende il nesso fra rischio e globalizzazione così inedito e caratterizzante i nostri tempi è che di norma l’ansia associata alle innovazioni segue inevitabilmente l’affermarsi di queste ultime e non, come osserva acutamente Paul Virilio (1995) costituisce come oggi una condizione normale, come accaduto per l’inquinamento e il degrado ambientale rispetto all’attività umana che ha rivoluzionato tempi, spazi, equilibri fisici naturali nella costituzione di un mondo globale.

 

2.    Rischio e globalizzazione: una composizione semantica?

 

 “Il rischio del terrorismo deve e può soltanto essere sconfitto da un mondo che agisca unitariamente” suole affermare molto spesso il Segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, quando è sollecitato in interviste a trovare una soluzione ad uno dei rischi del processo di globalizzazione indotta facendo leva sugli effetti positivi della globalizzazione del rischio, ossia una rafforzata unità nella società globale. Nelle riflessioni di pensatori come Touraine, Giddens e Beck, al contrario, la globalizzazione appare come una fase sequenziale di quel processo della modernità ancora in fieri verso la sua piena realizzazione, con tutte le conseguenze della sua indefinita condizione. Una modernità limitata secondo il sociologo francese, il cui compimento può portare ad una nuova forma di società o, come la definisce Giddens, una modernità radicale che ne decreta la fase di completamento con l’esperire tutte quelle imprevedibili possibilità trascurate dalla prima modernità illuminista, illusa dei suoi “non limiti” e dalla seconda modernità del “politeismo disincantato” di Weber. Secondo il sociologo inglese molti sono i segnali della permanenza della modernità e in primis proprio quello addotto da chi la ritiene ormai superata, ossia la diffusa, intrinseca “comune” consapevolezza che nulla possa essere conosciuto con certezza. Giddens, infatti, ritiene il senso dell’indeterminatezza una condizione specifica della conoscenza che già la prima modernità aveva sottolineato riconsiderando sé stessa e i suoi limiti pian piano che cadevano le spoglie della tradizione, vivendo una sorta di ciclicità vichiana fra fasi di dis-embedding (disaggregazione) e re-embedding (riaggregazione). I momenti disgregativi, come quelli che dominano nella modernità radicale, vedono la complessità sociale indurre all’astrazione processi e relazioni rispetto ai loro specifici contesti, in dimensioni spazio-temporali e con simboli e sistemi esperti che contribuiscono ad una forte insicurezza e alla frammentazione dell’esperienza; salvo poi riequilibrarsi con le fasi di re-embedding, presenti in questa appendice di modernità, in cui tende a ricostruirsi un’unità di azione e identità collettive, quella auspicata come panacea proprio da Kofi Annan. Anche per Ulrich Beck il percorso di analisi evoluzionista, seguito ad esempio da Balandier che parla di surmodernité, non può perfettamente riprodurre la nuova condizione della modernità riflessiva, così come egli la definisce, caratterizzata da un processo critico al quale la società sottopone sé stessa per individuare tutti quegli scenari di rischio e incertezza, sociali, politici o ecologici, indotti dall’innovazione, che progressivamente eludono il controllo delle istituzioni (1996). Questa seconda fase della modernizzazione assume sempre più i caratteri della risk society (risikogesellschaft, la società del rischio per il sociologo tedesco) in cui i limiti della modernità, prima non distintamente percepiti e temuti dall’opinione pubblica e nel dibattito politico (fase del rischio residuale), condizionano i processi sociali e le stesse istituzioni che, nate dalla modernità industriale, sono oggi incapaci di fronteggiare le nuove dinamiche dell’incertezza (ibid.). Beck, come Giddens e Touraine, quindi, connota “positivamente” le sorti della modernità, realizzando un rovesciamento di prospettiva rispetto a quegli studiosi che, nell’acuirsi dei rischi sociali, hanno letto “la fine delle grandi metanarrazioni del passato, dispensatrici delle certezze caratteristiche dell’epoca moderna” (Pellizzoni et al., 2001). Di certo quello attuale è uno scenario sociale complesso, una multiforme reticolarità sociale che, pur ereditando le principali dimensioni spazio-temporali moderne, presenta nuovi fermenti relazionali fondati sulla solidarietà, la sussidiarietà e la responsabilità: la “risk society” di Beck viene a costituirsi come momento di passaggio obbligato per uscire dal welfare state moderno, facendo convergere la sorte degli insiders e degli outsiders del modello capitalistico-assistenziale moderno nella nuova dimensione dopomoderna (ibidem). Se, come sentenziava il Goya “il sonno della ragione crea mostri”, non si può oggi parlare di una crisi della razionalità moderna che sta lasciando il ruolo al suo opposto, generando solo angosciosi fantasmi del rischio, ma, più correttamente del graduale delinearsi di un sistema valoriale alternativo a quello dominante rilevante soprattutto per il recupero di alcune componenti culturali subordinate dalla centralità della scienza. Questo può essere il caso della weltanschauung ecologista, fondata sul ripristino dell’equilibrio fra uomo e natura che già fra gli anni Sessanta e Settanta ha assunto prevalentemente le caratteristiche di un sentimento ambientalista, distinguendolo dall’ecologismo per la mancanza in questa fase preliminare di una vera e propria progettualità, tesa al cambiamento dei valori del vivere sociale. Gli effetti di catastrofi di dimensioni ed effetti planetari come Bhopal (1984) o Chernobyl (1986), hanno consolidato la transizione valoriale in atto, accentuandone, però, la pars destruens del rischio nel processo dell’innovazione globale. L’affermarsi di questa world risk society cominciava a mettere in discussione la tesi di chi, come l’economista Milton Friedman, riteneva il rischio come oggetto della ricerca dell’individuo per quell’effetto di compensazione che si era prodotto nella società razionale, assistenzialistica e dalle imponenti misure di sicurezza, costituito proprio dalle potenziali perdite di ricompense che si potevano ottenere in seguito ad un comportamento troppo sicuro. In realtà, più volte è emerso come le istituzioni della modernità, da quelle statuali ai sistemi esperti, si siano rivelati quanto meno deficitari nella gestione dei rischi sociali e ciò perché:

Il declino del modello statuale del welfare moderno, o peggio dello “Stato provvidenza”, è il segno più evidente della profonda trasformazione culturale delle dimensioni spazio-temporali in atto nei processi sociali che, anche per le caratteristiche del rischio, è ormai “un solo luogo” (Robertson, 1992): la globalizzazione segna la crescente interdipendenza fra luoghi che tradizionalmente regolavano in modo autonomo i fattori caratterizzanti delle proprie strutture economiche, sociali e culturali, fondandosi su un senso di comune dipendenza da un sistema globale, prima ancora che in una rete di relazioni politiche ed affaristiche effettivamente avvolgente il pianeta (ibidem).

Ancor più a fondo si può osservare che l’interdipendenza economica, che costituisce l’anima della globalizzazione - e giustificherebbe la connessione semantica con il concetto di rischio, di origine propriamente economica - ha posto le basi di quella politica, sociale, ambientale. Così, l’elevazione della economia ad ideologia, la riduzione di rapporti interpersonali alla dimensione quantitativa e atemporale, l’anomia etica delle relazioni internazionali, come dimostrano i nascenti weltmarkets (mercati mondiali) delle biotecnologie e delle reti telematiche, hanno fatto parlare i critici di “dittatura del capitalismo” (Luttwak, 1999) e hanno fatto chiedere a Ferrarotti «come è possibile che un potere economico planetario che è privato ed è privatamente gestito possa avere effetti politici e sociali pubblici (…) senza avere interessi e valori comuni come quello per l’ambiente?»  (2000). La risposta di Manuel Castells (1989) con la sua raffigurazione di una net society in cui vi è una maggiore circolazione delle idee e delle informazioni e la più facile realizzazione di pianificazioni globali rispetto a minacce all’ecosistema planetario parrebbe smentire l’incompatibilità fra rischio e globalizzazione. Vertici mondiali e conferenze promosse da attori governativi e non, su scala globale, e la memoria non ha bisogno di ricorrere fino al Vertice sulla terra di Rio del 1992, vista la sua verifica a dieci anni di distanza con il Summit di Johannesburg, hanno dato vita in questi ultimi anni a programmi politici per l’abbattimento dei gas ad effetto serra in un medio lungo termine o per il controllo della biodiversità biologica del Pianeta con le uniche misure possibili per affrontare i pericoli di questa world risk society. Se la globalizzazione del rischio, oggi, all’indomani di Johannesburg, è vista come un pericolo è perché:

1) i residui della modernità condizionano ancora i processi decisionali, risultando inadeguati per i rischi che si profilano nell’immediato e più lontano futuro;

2) posizioni come quelle dei potenti Stati Uniti d’America di dissociarsi dal rispetto degli accordi per lo spirito isolazionista del “voi fate pure, noi andiamo avanti per la nostra strada”.

Al contrario, il riconoscimento di una pluralità di comunità nazionali che condivide un unico destino ecologico non può che rafforzare quella “fine delle univocità” che Bauman e Robertson attribuiscono ancora alla dimensione locale e al suo rafforzamento dell’identità dell’umanità: «oggi tutti sono sotto minaccia e tutti sono oggettivamente inclini a unire le proprie forze per difendersi» (Bauman, 1993). Ne consegue la formazione di un nuovo pubblico mondiale, per Beck una “cittadinanza tecnologica globale” che collegandosi ad Internet, ad esempio, può realizzare un inedito meccanismo di democrazia riflessiva: la società “riflette” e mette in discussione le stesse basi della democrazia, chiama alla partecipazione tutti i cittadini anche non esperti e mobilita la discussione pubblica, in una sorta di “illuminismo ecologico” (1994). Gran parte dei fenomeni sociali hanno oggi dimensioni globali, in realtà, ma vengono vissuti dagli individui nella loro vita “locale”, nella quale secondo una considerazione di Giddens opinabile «lo stato-nazione è ancora l’attore principale rispetto all’ordine politico globale perché possiede il controllo sulla superficie terrestre e la gestione delle risorse ambientali» (1998). Ne risulta paradossalmente un giudizio piuttosto aspro del sociologo inglese sulla modernità e le condizioni gestite dalle istituzioni se le trasformazioni intrinseche nei concetti di fiducia e rischio inducono a scenari allarmanti dal punto di vista politico (crescita del potere totalitario), militare (conflitto nucleare mondiale), economico (collasso della crescita), ambientale (degrado e disastro ecologico) che all’uscita dalla modernità, Giddens ne è sicuro, si risolveranno rispettivamente in una democrazia pluralista, nella demilitarizzazione, in un sistema economico di post-scarsità e nella umanizzazione della tecnologia. Si instaura una vera e propria cultura del rischio (Lash, 1990), di giudizi sociali soggettivi, di valori emergenti, orizzontali, destrutturati e comunemente condivisi che formano la riflessione e messa in discussione della società in sé stessa, in un’accezione lontana da quella di Giddens e ben più permeata dalle teorie sulla costruzione culturale del rischio elaborata da Mary Douglas (1990). La trasformazione culturale in oggetto, che dovrebbe consacrare la priorità della globalizzazione del rischio, più che del suo opposto, avviene, secondo Ronald Inglehart (1977) come una silenziosa affermazione rivoluzionaria di un paradigma postmaterialista. I valori della modernità, le bussole che secondo Durkheim diceva orientavano l’azione dell’individuo, le rappresentazioni sociali che Moscovici definisce un sistema di nozioni atte ad organizzare la realtà e stabilire un ordine sono analizzate da Inglehart nella loro crisi. Erosione dell’autorità tradizionale, crescita della soggettività, declino della fiducia verso le istituzioni, maggior benessere sociale, ma anche disagio e rifiuto dell’eterodirezione disegnano un nuovo scenario complesso in cui gli individui si trovano innanzi una più ampia possibilità di scelta (overchoising), ma anche all’opportunità di una costruttiva, maggiore partecipazione politica. Per Inglehart si può parlare di una new political culture (nuova cultura politica) orientata alla ricerca individuale dell’autorealizzazione, al godimento estetico della felicità e dell’ambiente che sempre più spesso si traduce in mobilitazioni di tipo one issue molto poco burocratizzate. A questa forma di “impegno del cittadino”, lasciato da solo a scegliere e “giocare” con la propria esistenza, corrispondono istituzioni tradizionali, la cui dissoluzione ha permesso alle biotecnoscienze di cancellare alcuni pericoli, ma i nuovi assetti socio-politici hanno procurato nuovi rischi - per ora solo intuiti e inesplorati - che la nostra ignoranza circa la loro natura rende ancor più spaventosi.

  3.    Rischio e globalizzazione fra legature e opzioni

 In una sua opera del 1977, ossia di ben venticinque anni fa, il sociologo contemporaneo Ralf Dahrendorf sembra aver trovato con molta preveggenza l’indissolubile legame che fra rischio e globalizzazione di lì a poco avrebbe caratterizzato quella che lui definisce la “fine della modernità”, i nostri giorni, interpretando proprio in questo binomio la chiave di lettura del mutamento in atto. A lui, infatti, si deve il completamento della teoria lasciata insoluta da Weber per le quali le azioni degli individui si articolano nella ricerca di chances di vita, a loro volta funzioni di legature e opzioni. Cioè di condizionamenti e di scelte strutturali che esprimono la situazione di ogni individuo nella società. Le legature, così, sono i legami, le appartenenze e i campi dell’agire umano che si relazionano con le opzioni, ossia le possibilità strutturali di scelta. Solo l’equilibrio fra gli uni e le altre consente di avere chances di vita e gli ideogrammi cinesi ci consentono di confermare come al rischio siano connessi pericoli e opportunità, quanto rinvenibile all’interno del processo della globalizzazione.

Nelle molteplici interpretazioni - fin qui brevemente accennate - dei processi per la costruzione di senso del rischio per la sua assunzione a valore, per la sua percezione e gestione, rilevandone il carattere di volta in volta culturale, economico, sociale o politico intrinseco all’appendice della modernità o alla sua fase successiva, è, invece, apparsa ancora implicita l’ipotesi di leggere il rischio nella diversa accezione di uno status connaturato alle vicende individuali e collettive, che, in un periodo di crisi ideologica come l’attuale, può misurare le attitudini al definitivo superamento dell’empasse moderna.

Perché il mutamento abbia luogo è necessario testare le propensioni di tutti gli attori sociali e solo opinabili criteri di sintesi individuano nella politica, la scienza, l’economia, i media e la società - intesa nel suo significato non proprio sociologico di tutto ciò che non è considerato negli altri quattro sistemi, se fosse possibile una simile separazione - veri e propri sistemi funzionali del rischio. Il recupero della caratteristica “funzionale” di parsonsiana memoria coglie da questa accezione e dalla più recente interpretazione di Luhmann lo spunto per considerare le varie espressioni sociali nella loro complessità, influenza e reciproca interferenza e per consentire un’analisi integrata del rischio che si affianchi a quelle specialistiche espresse sistema per sistema. Più che uno sforzo razionale di determinismo biologico, è questo un tentativo di analizzare la nuova world risk society mettendo un po’ di ordine a quelle ibridazioni scientifiche, tecnologiche, politiche o mediali recentemente indicate da Beck come distorsive nella interpretazione del rischio (Beck, 2000). L’ottica scelta dal sociologo tedesco è quella di un confronto fra attori sociali del rischio, ognuno dotato di una propria prospettiva, che lottano per imporre su quella dell’altro, cercando di gestire il rischio secondo propri paradigmi e per un proprio maggiore senso di certezza.

Il rischio, in realtà, quale insieme di domande in crescita esponenziale, altera la normalità con un’intensità che è tanto più alta quanto più carenti sono le risposte del sistema, misurandone la vulnerabilità complessiva fra le “onde” costituite da inputs e outputs dell’emergenza. Come in un diagramma (fig. 9) in cui due onde rappresentano l’andamento indotto da un’emergenza nei processi sociali, le quali, seppur si ricombinano coincidendo nello stato di normalità, non possono però ricondursi al punto di partenza, testimoniando delle profonde trasformazioni sistemiche che uno stato di rischio comporta, così la globalizzazione di questa terza fase simultaneamente allontana e ravvicina i bisogni e i valori degli attori sociali: democrazia, fiducia, solidarietà, tolleranza, dialogo fra i popolo, responsabilità sembrano fra toccare queste due onde delimitando il rischio della globalizzazione, mentre interessi economici, competitività, progresso razionale, ordine mondiale, scontro fra civiltà per una presunta supremazia globale le allontanano amplificando la globalizzazione del rischio.

Come condivisibilmente nota Rifkin (2000), tutte le grandi trasformazioni che alterano in modo radicale i processi sociali si manifestano in modo impercettibile e, solo quando si sono affermate, tutto ciò che fino ad allora era normale diventa obsoleto davanti al nuovo paradigma culturale: ciò è quanto sta accadendo con l’attuale emergenza ambientale e le sue implicazioni culturali osservate da una prospettiva sociologica.

Queste brevi riflessioni sono state scritte nel primo anniversario dell’attacco terroristico alle Twin Towers di New York, un evento epocale che ha tradotto il rapporto fra rischio e globalizzazione nel più nefasto dei suoi risultati: la strage del “nine eleven”, come la chiamano gli Americani, può però sviluppare anche quelle opzioni su cui si regge il flebile ottimismo con cui guardiamo tutti al nostro futuro.

 

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