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Guerre etniche e nazionalismo
di Giuseppe Anzera
1.Autodeterminazione e sovranità, fine di un duello (ipoteticamente)
infinito?
Durante il periodo della Guerra Fredda, seguendo la tradizione impostasi nei secoli a partire dal Trattato di Westfalia (1648), lo stato era considerato un’entità coerente e razionale. Secondo lo spirito della corrente realista, allora predominante nelle sue varie estrinsecazioni, lo stato poteva essere addirittura accostato ad un individuo e quindi dotato di ragione ed intelligenza. La base di qualsiasi ordine potesse assumere il sistema delle relazioni internazionali era costituita dallo stato. Per utilizzare un’altra metafora realista gli stati erano considerati come palle da biliardo libere di muoversi sul tavolo, ma che talvolta cozzavano tra di loro. Allo stesso modo erano configgenti due degli elementi fondamentali che governavano il sistema degli stati: la regola della sovranità statale (da cui derivava l’imperativo di non intervenire negli affari interni degli altri stati) e l’ideale liberale relativo all’autodeterminazione nazionale. Il braccio di ferro tra questi due fattori e il relativo prevalere dell’uno sull’altro ha influito notevolmente sulle dinamiche del sistema internazionale.
Nel diciannovesimo secolo e all’inizio del ventesimo, l’applicazione più o meno rigorosa dell’autodeterminazione ha portato a grandi rivolgimenti di ordine geopolitico. La secessione del Belgio dall’Olanda e della Grecia dall’Impero Ottomano, la riunificazione della Germania e dell’Italia, la ripartizione dei Balcani in stati distaccatisi dal potere turco, le ribellioni in Ungheria e in Polonia sono esempi fondamentali di questi processo. Allo stesso modo la formazione dei nuovi stati nell’Europa centrale dopo la Prima Guerra Mondiale e una parte dei processi di decolonizzazione successivi all’ultimo conflitto mondiale, costituiscono degli esempi nel XX secolo di dinamiche, peraltro molto differenti tra di loro, di autodeterminazione.
Nonostante questi rivolgimenti l’ordine del sistema internazionale, poggiato sugli stati, anche se periodicamente modificato, non veniva mai smantellato.
Nel periodo della Guerra Fredda, invece, il sistema si regolava in base ad un contrasto principalmente ideologico. Dal punto di vista delle relazioni internazionali, tuttavia, il vero elemento centrale, capace di far sentire la propria influenza su ogni passo intrapreso a livello interstatale, era la deterrenza e l’elevata dotazione delle due parti di armi nucleari. Il rischio di un conflitto atomico tra i due blocchi costituiva una spada di Damocle sempre presente che in qualche modo ha portato le superpotenze a limitare al massimo le frizioni tra di loro. I conflitti presenti in questo periodo si possono classificare secondo quattro categorie: conflitti tra stati divisi e appartenenti ai due campi (Corea e Vietnam); interventi da parte delle superpotenze negli affari interni di stati più deboli e appartenenti alla propria sfera per mutare le politiche governative da questi intraprese (gli Stati Uniti in Iran, Santo Domingo, Guatemala e Nicaragua, l’Unione Sovietica in Ungheria e in Cecoslovacchia); interventi delle superpotenze per sostenere governi ‘amici’ in difficoltà (gli Usa nel Salvador, l’Urss in Afghanistan); conflitti apparentemente slegati dal contrasto bipolare come quelli esplosi nel subcontinente indiano, in Medio Oriente o a Cipro tanto per fare degli esempi, ma che in realtà hanno subito pesantemente nell’andamento e negli sviluppi, l’influenza delle superpotenze.
Al contrario il sistema internazionale attuale evidenzia una situazione in cui, per continuare a usare la nostra metafora, alcune palle da biliardo si sono disintegrate o frammentate a causa di conflitti interni o per una strutturazione divenuta inaccettabile dalle varie componenti. Il sistema delle relazioni internazionali non è più limpido nella sua strutturazione ma è divenuto eterogeneo affiancando stati solidi con entità statuali nuove, spesso dalla scarsa stabilità interna, generate dal collasso dell’Unione Sovietica e dalla disintegrazione di altri stati generalmente multietnici. Il principio di autodeterminazione, che aveva avuto in passato una funzione aggregativa permettendo la costruzione di numerosi stati, sembra ora estrinsecare un potere generalmente frammentato ponendosi alla base della turbolenza che contraddistingue l’attuale sistema delle relazioni internazionali.
La spinta all’autodeterminazione ha finito per diventare una minaccia all’integrità dello stato e il motore primario per secessioni e divisioni reali, come nel caso degli stati centroasiatici, della Georgia, dell’Azerbaijan, dell’Eritrea o potenziali (si pensi al caso dello Sri Lanka o al Quebec). In molti casi, inoltre, il principio di autodeterminazione sembra entrare spesso in collisione con un’altra serie di norme del sistema legale internazionale, che gode in questi anni di un rispetto e di una legittimazione sinora mai visti: il rispetto e la protezione dei diritti umani sia in relazione a singoli individui sia, trattando di minoranze etniche, in rapporto a delle collettività. In tal senso la grave tragedia iugoslava ha fornito un numero fin troppo numeroso di esempi.
Nell’attuale sistema delle relazioni internazionali sembra riproporsi una questione che ha già angosciato i pensatori del diciannovesimo secolo. Da cosa è costituita una nazione? Quali sono le componenti che permettono di identificarla? Difficilmente tale domanda può trovare risposte certe in un periodo in cui i revival etnico-nazionalistici convivono con le democrazie liberali troppo frettolosamente indicate come le entità capaci di sancire ‘fine della storia’. Tuttavia esiste un problema ancora più pressante nel panorama attuale. In un periodo di generale insicurezza, in cui lo stato difficilmente può proteggere i propri cittadini da un attacco nucleare (al livello macro della scala di pericolosità) o da un assalto terroristico (fino all’11 settembre da un attacco ritenuto micro, ma ormai plausibile anche al livello macro), in un periodo di interdipendenza economica in cui de facto nessuno stato è realmente autosufficiente e, in più, esiste un mercato globale retto da un network di individui e da grandi corporation private che operano secondo regole che sfuggono alle capacità e alle sovranità statali, lo stato è ancora un’organizzazione collettiva capace realmente di servire, difendere e proteggere gli individui che lo compongono?
In un sistema internazionale con queste caratteristiche va rilevato in primo luogo un innalzamento del tasso di violenza in situazioni in cui il genocidio o il conflitto violentissimo tra parti che lottano per il controllo di una ex entità statuale sono divenute pratiche che rischiano di divenire usuali. Un altro elemento connesso a questa situazione è l’aumento di anomia del sistema delle relazioni internazionali. L’assenza o il deperimento normativo tuttavia non è legato al classico problema dell’anarchia nelle relazioni internazionali riferito all’indipendenza di comportamento dei vari stati, bensì al sovrapporsi di attori con differenti set di norme e regole nello stesso campo. In altre parole, concetti quali il multicentrismo, che evidenziano la presenza attiva nel sistema delle relazioni internazionali di differenti classi di attori (stati, organizzazioni non governative, multinazionali, associazioni sovranazionali) e non più solo degli stati-nazione, mettono in risalto anche come ogni categoria, pur agendo, per così dire, nella stessa arena, si comporta seguendo norme e dinamiche spesso sconosciute o poco note agli altri attori.
Per quanto concerne il problema delle guerre etniche, è opinione comune che il mondo, con gran sorpresa di molti analisti, sia entrato in una fase contraddistinta dal revival etnico-nazionalistico che ha visto esplodere numerosi conflitti interni portando molti stati sull’orlo dell’estinzione o causandone la disintegrazione. E’ possibile affermare, anzi che i pericoli posti dalla ‘politica dell’identità’ (Kaldor, 1999) intrapresa da movimenti che, muovendo da identità etniche, religiose o razziali, finiscono per rivendicare il potere dello stato attuando una esclusione di chiunque non rientri nei loro ‘canoni identitari’, costituisce il principale avversario della legittimità, integrità e sovranità dello stato-nazione attuale. D’altronde i conflitti tra stati sono ormai ridottissimi per numero ed estensione compressi da ragioni di politica internazionale, ma soprattutto da motivazioni economiche. Come nota Gritti (1998), i conflitti attuali sono definibili come guerre sostenute dallo scopo di riaffermare una sovranità interna, più che una sovranità esterna; in altre parole lo stato, oggi combatte, più che contro i suoi simili, contro pezzi del proprio impianto sociale che mirano a distruggere la sua sovranità e la sua legittimità.
Mentre molti analisti, e praticamente tutte le cancellerie occidentali, furono colti di sorpresa dal diffondersi di questi conflitti, e dalla loro particolare virulenza, durante il periodo degli anni Novanta, oggi assistiamo ad una sorta di biforcazione nel modo di trattare le guerre etniche. Da un lato troviamo studiosi che hanno finito per ‘riassorbirle’ nella categoria delle Lic’s (Low Intensity Conflicts), definendole come scontri combattuti con armi a basso profilo distruttivo e assimilandole alla guerriglia; d’altro canto abbiamo una novelle vague di studiosi delle guerre etniche che tende a interpretare questo tipo di conflitti come elementi del tutto nuovi sul panorama delle relazioni internazionali, come una nuova forma di guerra con delle peculiarità e delle dinamiche decisamente originali, e non solo come delle guerre a bassa intensità dei giorni nostri.
2. I conflitti etnici
Da quanto premesso, possiamo già definire il problema dei conflitti etnici in base alle seguenti considerazioni. In primo luogo va chiarito che i conflitti esplosi nel periodo successivo alla fine della Guerra Fredda, siano essi tra stati, o interni ad uno stato, non sono tutti legati allo scontro etnico: a parte il caso più eclatante, quello della Somalia, gli eventi di Liberia, Albania, Cambogia, Corea o Angola, rappresentano degli esempi emblematici di conflitti attuali innescati da gruppi politici, da organizzazioni terroristiche o militari impostate ideologicamente, da rivalità tribali o da ambizioni personali. Il conflitto algerino è legato anche alla repressione politica, mentre la componente religiosa è fondamentale negli scontri nel Kashmir, in Sudan o in Iraq.
In secondo luogo bisogna ammettere che è tutt’altro che chiaro da cosa sia caratterizzata e definita un’etnia. Non si riteneva che gli iugoslavi fossero tutti ‘slavi del sud’? Che i cechi e gli slovacchi fossero tutti slavi? Dove si colloca la differenza tra tribù ed etnia in Ruanda come in Burundi come in Nigeria?
A ben vedere ciò che conta, in definitiva, è la percezione di sé che ogni gruppo sociale possiede, senza dimenticare che tale percezione è spesso forgiata dai leader politici a fini strumentali.
Infine è corretto riflettere sul fatto che i fenomeni etnonazionalistici difficilmente possono essere affrontati in termini puramente razionali. Anche se in apparenza le strategie nazionaliste sembrano un’opzione razionale per delle élite o dei leader politici ambiziosi, alla radice della questione troviamo un bisogno umano di acquisizione di una identità sociale, in una fase storica in cui le gerarchie tradizionali (sul piano identitario) sembrano venire meno.
I conflitti etnici, nell’ultimo decennio, hanno rappresentato la principale fonte di disgregazione per lo stato, oltre ad essere causa di gravi problemi sul piano delle relazioni internazionali. L’attacco allo status quo, derivante dal tradizionale potere statuale, ha creato dilemmi sul piano della sicurezza in molte maniere diverse. Sinteticamente possiamo definire le problematiche in base a questo elenco:
i confini esistenti: le guerre etniche hanno toccato confini stabiliti da tempo;
il riconoscimento politico: i conflitti etnici, hanno obbligato gli altri stati a prendere difficili decisioni in merito al riconoscimento o meno delle nuove entità politiche; basta pensare ai problemi dell’OAS nel riconoscimento dell’Eritrea o ai gravi dubbi in seno all’Europa sul riconoscimento di Slovenia e Croazia;
i rifugiati; una conseguenza quasi certa delle guerre etniche riguarda la produzione di masse di rifugiati in fuga dalle aree contese, che talvolta ha portato gli stati confinanti a reazioni di chiusura o che ha messo a dura prova le capacità degli enti internazionali preposti come l’Alto Commissariato dell’Onu;
la destabilizzazione internazionale; i conflitti etnici, talora, riaccendono o allargano le guerre in aree in cui gli equilibri tra le parti sono particolarmente delicati; un caso su tutti è rappresentato dai recenti avvenimenti nella regione africana dei grandi laghi dove la crisi ruandese ha messo praticamente in crisi ogni stato della regione;
la crisi della non ingerenza; si può affermare che il disfacimento di un concetto a lungo onorato, come quello del rispetto della sovranità e della non ingerenza nelle questioni interne di uno stato, sia dovuto principalmente ai conflitti etnonazionalistici: le operazioni in Iraq a sostegno delle minoranze curda e sciita o la questione del Kossovo sono solo due esempi emblematici;
la gestione delle crisi; i conflitti etnici hanno messo gli stati colpiti nella posizione di dover affrontare dei dilemmi gravissimi: consentire una secessione o meno? In caso affermativo, con quali modalità operare? Riformando le istituzioni in senso federativo? O creare un sistema consociativo? O, ancora, conferire particolari autonomie alle minoranze etniche?
3. Il problema previsionale.
Uno dei principali problemi dei conflitti etnici, connesso alla difficile previsione e analisi del conflitto riguarda le differenti situazioni in cui esse possono emergere. La causa può essere imputata al crollo di una grande federazione, come nel caso dell’URSS e dei conflitti (Cecenia, Nagorno-Karabach) tra le parti emerse dalla disintegrazione (o interni ad esse); una debole struttura statuale può rappresentare un altro elemento in grado di provocare scontri etnici, come nel caso della Iugoslavia dopo la morte di Tito o del Sudan o del Ruanda; lo scontro etnico può essere ravvivato dalle conseguenze di una guerra (si pensi all’Iraq o all’Afganistan) o dalla resistenza a una dura repressione (come nel caso dei curdi in Turchia), o, ancora quando una minoranza riceve un appoggio da una fonte esterna allo stato in crisi, ma appartenente alla stessa etnia, ricordando quanto è accaduto ai turco-ciprioti, agli albanesi del Kossovo ai russi in Moldavia o ai Tamil nello Sri Lanka. Proprio in coda a questo discorso preme ricordare che, invece, l’elemento maggiormente in grado di consentire una ricomposizione pacifica dei contrasti etnici, quindi senza sfociare in una guerra aperta, è un alto tasso di democraticità della società in crisi. Quelli che Kellas (1999) ha definito i ‘nazionalismi del primo mondo’, riferendosi alle crisi etniche nei paesi democratici, raramente hanno soluzioni violente. Più spesso i contrasti vengono ricomposti o affrontati in maniera pacifica, come nel caso del Quebec, della Cecoslovacchia post-comunista, del rapporto tra Italia e altoatesini o tra fiamminghi e valloni in Belgio.
Sempre con riguardo alla gestione e alla previsione dei conflitti etnici, i problemi nascono anche dalla loro peculiare caratteristica. Il conflitto etnico, si pensi al caso bosniaco, gravita attorno a signorotti locali, capibanda che vanno e vengono, unità paramilitari che scompaiono, si mischiano e si ricostruiscono, rari scontri tra forze militari e frequenti massacri sui civili, difficile identificazione dei nemici. Il tutto contribuisce a generare un alone di incertezza che si ripercuote inevitabilmente sugli interventi internazionali di peacekeeping e sulla loro efficacia. L’etnonazionalismo è capace di riemergere anche dopo essere stato congelato per lungo tempo, non importa se da un credo politico e cosmopolita come il comunismo o se da una forza transnazionale come il fondamentalismo islamico o il panarabismo.
4. Prevenzione e risoluzione dei conflitti etnici.
La comunità internazionale si è ormai abituata a prendere seriamente in considerazione i conflitti etnici e ciò non solo per ragioni umanitarie ed etiche, ma anche perché la proliferazione delle armi di distruzioni di massa e l’escalation delle capacità letali del terrorismo, due elementi che potrebbero scaturire da un conflitto etnico particolarmente virulento, mettono a repentaglio la sicurezza collettiva. A ciò si devono aggiungere considerazioni economiche, se è vero che gli effetti della globalizzazione possono intaccare i sistemi economici in presenza di scontri etnici in aree del pianeta significative sul piano industriale o delle risorse primarie.
Non è certo questa la sede per suggerire una ricetta definitiva per la prevenzione dei conflitti etnici. La mutevole forma che essi hanno assunto, peraltro rende estremamente complicata l’applicazione di una sola formula valida per tutti i casi. Tuttavia è possibile analizzare ciò che è stato fatto finora per anticipare questi fenomeni.
In generale la prevenzione dei conflitti etnici può avere due derivazioni. La prima sgorga dallo stesso stato in cui si svolgono i conflitti e riguarda la possibilità che le parti giungano ad un accordo; in genere ciò si realizza quando vengono promulgate leggi di tutela di una minoranza. Come già detto le possibilità che uno stato si indirizzi verso una tale direzione dipendono in primo luogo dal tipo di sistema politico (un sistema democratico è più propenso ad una tale soluzione, mentre un regime autoritario, difficilmente vi si presterà) o dalla paura di contagio (quanto uno stato teme di dover scendere a patti con più minoranze). Nella maggior parte dei casi, purtroppo, tali opzioni sono scarsamente considerate o, semplicemente, difficilmente perseguibili, sicché la situazione scade nel conflitto aperto tra le opposte fazioni o, se possibile, nella secessione, come è avvenuto tra Pakistan e Bangladesh. La seconda derivazione, nella prevenzione dei conflitti etnici può provenire dall’opera della comunità internazionale, meglio ancora se da organizzazioni a carattere regionale che, generalmente conoscono bene luoghi, dinamiche e modalità di intervento. Tuttavia le capacità di movimento delle organizzazioni internazionali, teoricamente le meglio accreditate per prevenire i conflitti etnici, sono limitate da una serie di fattori ben identificabili. Il primo fattore di limitazione è dato dalla paura della destabilizzazione. Un esempio tristemente concreto, in tal senso, è dato dall’OAU (Organization of African Unity) che, pur essendo conscia dei problemi reali e potenziali, specie dell’Africa occidentale, è spesso paralizzata dalla paura di toccare confini e di innescare un processo a catena di destabilizzazione su base continentale. Se arriviamo a discutere dell’ONU, spesso giudicata come l’entità che più dovrebbe occuparsi della prevenzione dei conflitti etnici, il discorso è ancora più complesso. Se, come avviene nella gran parte dei casi, il conflitto etnico sta per avvenire internamente ad uno stato, l’ONU difficilmente ha la sensibilità per valutare una situazione di potenziale conflitto (i tempi di reazione sono già lenti per le crisi esplose, figurarsi per le probabili); inoltre l’ONU si sente spesso in dovere di avere l’assenso dei governi in crisi (altro elemento che può rallentare un intervento) e, storicamente, risente della riluttanza dei governi a cedere il controllo delle proprie forze armate per operazioni di peacekeeping. Inoltre va tenuto conto che un intervento di natura preventiva (e non, si badi bene a crisi scoppiata) da parte dell’Onu o di un’organizzazione regionale, può apparire fortemente intrusivo. Il rischio è di intaccare i delicati equilibri interni dell’area in crisi peggiorando e non migliorando la situazione, o di spedire delle forze armate che finiscono per determinare la vittoria dell’una o dell’altra fazione preferendo una vittoria decisiva ad uno stallo potenzialmente lungo e oneroso (come a Cipro in cui la forza di interposizione tra turchi e greci di fatto tiene il paese diviso in un conflitto irrisolto).
Quanto messo in luce sinora evidenzia le difficoltà esistenti nell’opera di prevenzione dei conflitti etnici. Quali tecniche, allora, possono essere impiegate per ridurre o sedare contrapposizioni divenute violente? In generale, sappiamo che la comunità internazionale è fortemente propensa ad intervenire nei casi di belligeranza tra gli stati fin dalle fasi iniziali, per evitare pericolose escalation. Sotto questo aspetto gli interventi delle Nazioni Unite hanno talvolta prodotto dei risultati, portando gli stati belligeranti a cessare le attività militari: gli scontri indo–pakistani, la guerra dei sei giorni, la guerra del Kippur e il conflitto siro–israeliano costituiscono degli esempi importanti. Va anche aggiunto che spesso questi interventi non hanno portato a delle pacificazioni durature, ma solo a soluzioni parziali e insoddisfacenti delle crisi (il già citato caso di Cipro o la situazione del sud del Libano sono ben rappresentativi in tal senso). Inoltre, elemento di non trascurabile importanza, sia durante che dopo la Guerra Fredda, va sottolineata la tendenza dell’ONU ad astrarsi da qualsivoglia iniziativa sul campo nel caso fossero coinvolte nella crisi delle potenze di prim’ordine come nei casi del Vietnam, dell’Afganistan o delle Falkland.
Tuttavia i conflitti etnici, per la grandissima parte si svolgono all’interno degli stati, il che rende veramente complicato un intervento internazionale. Rispetto alle guerre tra stati, il numero di accordi che delle organizzazioni internazionali o regionali sono riuscite ad imporre a contendenti in conflitti intra-stato, è decisamente basso. In Cambogia o in Angola, ad esempio, in conflitti su base ideologica più che etnica, sono stati raggiunti dall’ONU alcuni risultati importanti, ma costituiscono delle eccezioni; una gestione dei conflitti etnici intra-stato, è decisamente ardua. Per essere realmente efficaci questi interventi devono passare per un’opera di disarmo dei belligeranti o attraverso il tentativo di imporre un accordo ai contendenti (fondamentalmente nella condivisione dei poteri). Altrimenti conflitti del genere possono trovare una conclusione solo con la vittoria finale di una delle due parti. D’altro canto, quanto sia complesso un lavoro di disarmo delle parti è testimoniato dai fallimenti italo-americani nel contenere gli scontri in Somalia e dal fatto che solo un’organizzazione militare di ampia e provata efficacia come la Nato è stata in grado di gestire e controllare, almeno sinora, il calderone bosniaco. Certamente gli interventi collettivi, legittimati dalla comunità internazionale, si rivelano più efficaci dei tentativi unilaterali esteri, portati da singoli attori statali. Non è difficile dimostrare, del resto, che raramente l’intervento di una fonte esterna facilita o rende possibili degli accordi.
Gli interventi nei conflitti etnici da parte della comunità internazionale, comunque, presentano un grado di efficacia solo di poco superiore a quello delle iniziative unilaterali. In primo luogo è già complesso costruire un ampio fronte internazionale favorevole a tali interventi. Generalmente l’intervento della comunità internazionale gode di appoggio e legittimazione in conflitti etnici che possono costituire delle minacce alla sicurezza e alla stabilità internazionale, come nel caso dei curdi iracheni, oppure che stanno causando gravi problemi di natura umanitaria. Il carattere più frustrante delle operazioni dell’Onu, è che appaiono sempre troppo deboli per costituire uno strumento su cui improntare un dialogo tra le parti, nonostante si mettano spesso in piedi operazioni fin troppo costose per le magre risorse delle Nazioni Unite. Come testimoniato da un numero di operazioni fin troppo lungo, i caschi blu sono generalmente incapaci, per vincoli nelle regole di ingaggio nonché per i limiti nell’efficacia e nell’organizzazione, di imporre tregue o pacificazioni ai contendenti nel caso di conflitti etnici particolarmente virulenti. Volendo citare due esempi possiamo soffermarci su quanto è avvenuto durante la crisi bosniaca o nel conflitto in Ruanda; in entrambi i casi le forze dell’ONU furono fortemente osteggiate da bande di irregolari appartenenti a quasi tutte le fazioni in campo, le quali spesso sono state in grado di depredare i convogli umanitari o di minacciare e mettere in fuga i caschi blu assaltando le popolazioni civili che questi avrebbero dovuto proteggere. D’altro canto le operazioni di peacekeeping efficaci, ed esistono degli studi interessanti e convincenti in materia, sono quelle in cui esiste un’elevata legittimazione per le forze di interposizione e, contemporaneamente, in cui tali forze hanno un potere di deterrenza efficace sia nei confronti di eventuali aggressori, sia contro i violatori di accordi eventualmente stabiliti. Raggiungere entrambe le condizioni, per delle forze multinazionali controllate da organizzazioni a carattere politico, è generalmente impossibile. Organizzazioni a carattere militare, d’altronde, possono invece soddisfare i requisiti necessari, ma solo in presenza di una legittimazione politica. La congiuntura ideale, almeno sinora, si è verificata nel caso della crisi bosniaca, ove, seppur tardivamente, un’organizzazione militare altamente efficiente come la Nato, è intervenuta, ma, si badi bene, su mandato dell’Onu, fino a produrre le condizioni per un accordo (Dayton) e soprattutto dimostrandosi in grado di controllare efficacemente il rispetto degli accordi. Resta il fatto che una coincidenza di fattori di questo tipo è decisamente rara.
5. La spartizione territoriali come soluzione ai conflitti etnici. Un dibattito aperto.
D’altronde i problemi non mancano neanche a proposito della risoluzione di questi conflitti. Il dibattito è aperto tra chi propone, come soluzione dei conflitti etnici, l’idea di trovare un modus vivendi, una possibilità di coesistenza tra le parti in lotta senza arrivare a secessioni e a smembramenti, e chi propugna una ripartizione territoriale tra i contendenti come soluzione per evitare la ripresa e l’inasprimento dei conflitti. Per quanto la prima impostazione possa apparire complessa, l’idea del ‘dividi e pacifica’ è, oggi, particolarmente tenuta in considerazione ed è percepita come la soluzione migliore nei casi di conflitto violento. In realtà la realizzazione effettiva di una ripartizione territoriale sembra tutt’altro che facile quando si scende da un piano teorico ad uno pratico. Quali elementi sono portati a sostegno e quali a contrasto di una tale impostazione? Andiamo con ordine. E’ certamente difficile contrastare le affermazioni di Horowitz (1995) il quale sostiene che cercare a tutti i costi una pace tra le parti può essere un errore e che talvolta sarebbe meglio, se per dei gruppi è impossibile vivere insieme, che vi fosse una separazione piuttosto che l’obbligo di convivenza in uno stato disomogeneo (anche a costo di trasferire le popolazioni). Apparentemente l’appeal che possono esercitare certe considerazioni ‘di buonsenso’, può sembrare convincente, ma sul terreno l’operatività e la chiarezza di certe procedure scompaiono. Eppure anche eminenti studiosi come Kauffman (1996) si dicono convinti che le soluzioni delle guerre etniche basate sul mantenimento di realtà multietniche (ed evitando il trasferimento di popolazioni) sono inefficaci poiché non soddisfano il dilemma della sicurezza. Il cosiddetto dilemma della sicurezza è alla base dalla teoria sulle spartizioni territoriali. Nella sua forma ideale il dilemma sorge quando una comunità x nutre sfiducia e sospetto nei confronti di una comunità y e viceversa: tutti i tentativi di una delle due parti di migliorare la propria sicurezza, saranno percepiti dall’altra come minacce e daranno luogo a ulteriori tentativi di protezione, innescando una spirale negativa senza fine. Il problema è ancora più forte nei casi dei confronti delle guerre etniche, che propongono, secondo i teorici della divisione territoriale, identità fisse e molto forti, scarsi impianti ideologici e potenti richiami religiosi, disseminazione dei racconti delle atrocità per favorire la mobilitazione, scopi individuali limitati; una volta che inizia la guerra, tutti i membri di un gruppo devono essere mobilitati poiché i componenti degli altri gruppi inevitabilmente li vedranno come nemici. Questo destino ineluttabile incendia ancora di più lo scontro e rende inevitabile la divisione poiché una volta che il conflitto comincia, la guerra non può terminare sinché le popolazioni non sono separate in regioni omogenee e difendibili. Per quanto appaiano intuitive, queste considerazioni difficilmente possono essere applicate a più di un minuscolo numero di casi. La realtà dei fatti indica molto chiaramente che la sofferenza imposta da una simile soluzione alle popolazioni civili può essere peggiore, talvolta, della guerra stessa. In particolare, le critiche rivolte alle teorie sulla divisione possono essere così riassunte:
a) Le divisioni territoriali su basi etniche non incoraggiano analoghe (e pacifiche) divisioni in altre aree di scontro. Al contrario di quanto ipotizzato dai teorici della divisione territoriale è difficile che poche suddivisioni imposte, quale soluzione ad alcune crisi, possano creare moti spontanei di suddivisione territoriale in altre aree evitando potenziali conflitti, anche perché, come dimostrano Lake e Rothchild (1998) le capacità dei conflitti etnici di avere una certa influenza su dinamiche internazionali (avviando quindi processi di imitazione), sono decisamente scarse.
b) Gli stati derivati dalla spartizione territoriale possono essere nuove fonti di conflitti etnici. Secondo i teorici della divisione territoriale, il successo della spartizione dipende dalla riorganizzazione demografica dei nuovi territori e dall’assenza di minoranze significative nei nuovi stati. Ma realizzare una tale condizione, ovvero degli stati ‘puri’ etnicamente senza la minima presenza di una minoranza, è utopico, nella maggioranza dei casi, a meno di attuare inumane politiche di trasferimento capillare di masse di popolazione.
c) La cooperazione etnica è possibile senza che sia necessaria una netta divisione. E’ impossibile non tenere conto del fatto che le negoziazioni nella politica internazionale, sono ormai diventate parte di una tecnica sofisticata di gestione delle crisi e che le parti in causa sono generalmente propense ad affidare ad autorità neutrali il compito di mediazione. Il problema principale è quello di riuscire ad avviare dei negoziati, o, in altre parole di portare od obbligare le parti a cominciare un negoziato anche se indiretto. Una volta che cominciano le negoziazioni è possibile tentare di cogliere le cause evidenti o striscianti del conflitto. Il problema, poi, diventa quello del rispetto dei negoziati, che sarà mantenuto solo in presenza di forti garanzie di sicurezza provenienti dall’esterno (Walter, 1997).
Queste argomentazioni appaiono convincenti e sembrano dimostrare che solo un progetto politico, teso a immaginare una possibile convivenza attraverso il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni in lotta, può aprire la via ad una pace duratura; il problema, in questo caso, è un altro: mettere a punto un simile progetto è complicato. Occorrono degli accordi tra le parti, occorre una forza di deterrenza che, almeno inizialmente li faccia rispettare e, infine, occorre una grande conoscenza della situazione sociale, politica e culturale dell’area di crisi per poter tutelare in maniera valida gli interessi di tutte le parti federate. Tutti e tre questi elementi sono, chiaramente, difficili da ottenere, ma non per questo sono meno efficaci.
6. L’importanza di una coscienza collettiva.
Il problema del sostegno politico ad operazioni internazionali resta il problema principale, affiancato dalla riluttanza con cui le forze armate degli stati (e quindi gli stati stessi coinvolti negli interventi), accettano di mutare il proprio ruolo dalla canonica protezione dell’integrità nazionale alle operazioni di polizia in ambiti internazionali. Inoltre resta complicatissimo il raggiungimento e il rispetto di accordi tra le fazioni in lotta e spesso i conflitti percepiti dalla comunità internazionale come meno ‘pericolosi’ non sono soggetti ad interventi di peacekeeping. Quest’ultimo punto è particolarmente problematico. Se si è convinti che i conflitti etnici rappresentano una minaccia alla pace, alla sicurezza, al rispetto dei diritti umani allora appare lecito attendersi una maggiore organizzazione, da parte della comunità internazionale, nell’opera di prevenzione dei conflitti ad un primo livello, nella capacità di portare i contendenti a stipulare accordi ad un secondo livello e nella possibilità di esercitare una deterrenza convincente per mantenere la pace ad un terzo livello. La sfida, in questo contesto, è particolarmente delicata, poiché implica la necessità di superare definitivamente la distinzione fra guerre tra stati e guerre intrastato, riconoscendo entrambe come gravi violazioni per la pace ed i diritti umani. Il problema è acuito dal fatto che ciò causerebbe un ulteriore distacco dalle regole di non ingerenza nelle questioni interne degli stati da parte della comunità internazionale; tali regole, d’altronde, hanno sempre meno peso di fronte alle crisi etniche.
Esiste poi la questione del bilanciamento del rapporto tra sovranità e autodeterminazione. Se spinti all’eccesso, tutti e due questi concetti pongono una minaccia intollerabile all’ordine internazionale e ai diritti individuali e, proprio come la sovranità dovrebbe limitarsi ad affermare la difesa dell’integrità territoriale e della sicurezza interna, è sbagliato lasciar crescere e riconoscere nuove entità statuali prive di regole di tutela delle minoranze, di un apparato democratico e di un impianto politico capace di supportare la nuova realtà statale.
In realtà, è necessario mettere in discussione lo stesso concetto di etnicità, o meglio il suo valore sul piano delle relazioni internazionali. Il patriottismo, l’attaccamento alla bandiera, la preservazione dei costumi, sono tutti elementi importanti, ma che devono risultare compatibili con la lealtà ad uno stato anche se composto da più etnie o ad istituzioni sovrastatali che hanno lo scopo di erogare i servizi (incluse la pace e la sicurezza) che singoli stati non sono più capaci di soddisfare appieno. La speranza che una costruzione importante come l’Unione Europea possa configurarsi come un esempio emblematico in tal senso, è pari alla consapevolezza che si tratta di iniziative difficilmente replicabili.
Note
Peraltro giova ricordare anche che spesso l’emancipazione dal potere coloniale non coincise con una piena autodeterminazione in chiave nazionalistica dei popoli decolonizzati, limitandosi a ricalcare i confini imposti dagli imperi europei piuttosto che creare nuove sovranità. Il risultato finale è stato di comporre stati multietnici spesso ingovernabili o stimolare processi di colonizzazione interna.
Fukuyama (1992).
Una breve, ma chiara spiegazione del ruolo dell’anarchia nelle relazioni internazionali si può rinvenire in Nicholson (1998).
J. N. Rosenau (1990) evidenzia i principali tratti del mondo multicentrico.
Per una spiegazione dello scarso appeal della guerra interstatale nell’attuale panorama internazionale vedi Thompson (1997).
Saurin (1995) nota che circa un terzo degli stati del pianeta è alle prese con problemi nuovi o cronici di affermazione della legittimità interna.
Vedi ad esempio Gray (1997); la sua classificazione delle guerre, d’altro canto, si basa sulle capacità di istruzione degli eventi bellici. In quest’ottica le guerre etniche, ben diverse dai conflitti convenzionali tra stati, possono essere accomunate alle Lic’s.
Mary Kaldor (1999) assieme ad autori come Keen (1995) o Ignatieff (1998) ben rappresenta questa corrente.
Certamente appare poco affidabile l’idea che il conflitto serbo-croato-bosniaco fosse dovuto ad uno scontro tra le civiltà ortodossa, cattolica e musulmana, come ipotizza Huntington nel suo controverso e noto ‘Clash of civilization’. E’ difficile leggere in quest’ottica uno scontro tutt’altro che legato a problemi di scontri secolari tra civiltà, quanto a ragioni economiche e a separatismi sostenuti da leader ex comunisti riciclatisi in chiave nazionalista seguendo un processo classico di ufficial-nazionalismo (vedi Anderson, 1996).
E’ questa la miglior argomentazione, a mio parere, in difesa di sistemi di intervento flessibili come il ‘pacifismo debole’ proposto da Zolo (1995).
Ad esempio l’India, per tale ragione non svolge alcuna politica di riconoscimento dei diritti delle numerose minoranze che la compongono.
La guerra può anche diventare ‘permanente’ come nel caso dello Sri Lanka.
Nonostante gli scontri avvenuti di recente, ad esempio, la situazione della Macedonia è stata largamente salvaguardata dal tempismo dell’intervento internazionale.
Lasciare che una delle parti prevalga sull’altra, d’altronde, è la discutibile tesi propugnata da Luttwak (1999) sulla tecnica ‘migliore’ per gestire le crisi etniche.
All’uopo è sufficiente pensare alla situazione bosniaca.
E’ difficile dimenticare la tragedia di Srebrenica, e la fuga dei caschi blu di fronte agli irregolari serbo-bosniaci, attuata passando letteralmente sugli abitanti che li supplicavano di rimanere.
Una delle migliori analisi sul tema è di Segal e Waldman (1998)
Anche se il caso bosniaco dovrebbe far pensare il contrario.
Sull’argomento, vedi in particolare Posen (1993).
In proposito si veda l’acuta analisi di Sisk (1996).
A tale proposito va detto che certi reparti delle forze armate di alcuni paesi, tra cui l’Italia, hanno partecipato, negli ultimi lustri, ad un numero tale di operazioni di peacekeeping da essere ormai quasi ‘specializzate’ nel ruolo.
Un esempio in materia ci viene dalla guerra in Afganistan, attualmente in corso; se alla fine del conflitto non si tenterà di realizzare uno stato multietnico, capace di rispettare le necessità dei sunniti pashtun come degli sciiti Hazan, dei turkmeni come degli uzbeki come dei tagiki, non si farà altro che ricreare le premesse ad un contesto pre-talebano, ovvero propenso alla massima turbolenza
Riferimenti bibliografici
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F. Fukuyama, 1992, The end of history and the last man, Free press, New York.
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M. Kaldor, 1999, Le nuove guerre, Carocci, Roma.
C Kaufmann, 1996, Possible and impossible solutions to ethnic civil wars, in "International Security" n. 20.
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J.G. Kellas, 1999, Nazionalismi ed etnie, Il Mulino, Bologna.
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B. F. Walter, 1997, The critical barrier to civil war settlement, in "International Organization, n.51.
D. Zolo, 1995, Cosmopolis, Feltrinelli, Milano.
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