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SAGGI

Dal "rischio della città" alla "città del rischio":
riflessioni su un'inedita dimensione urbana

di Mariella Nocenzi

1. Introduzione

Queste brevi e solo istantanee riflessioni sul tema della città vogliono prendere le mosse da una significativa affermazione di Zygmunt Bauman tratta da una delle sue ultime opere, La società dell’incertezza, dove egli afferma: "Non è possibile definire moderno tutto ciò che accade nella vita di città; ma tutto ciò che si definisce vita moderna accade in città" (1999, 65): la possibilità di scegliere fra più mete, la disponibilità in eccesso di segnali con cui orientarsi, la presenza nello stesso spazio di tanti altri individui con le stesse necessità, l’imprevedibilità se non il rischio che comporta questa complessità. E’ alquanto evidente l’eco dell’acuto giudizio di Sigmund Freud quando settant’anni fa ne Il disagio della civiltà descriveva il baratto operato dall’uomo moderno fra la sua libertà individuale e le restrittive regole della vita sociale per godere di un po’ più di sicurezza. Ma appare altrettanto chiaro come resti ancora insoluto il dibattito degli studiosi su quale data fissare per l’inizio della modernità, quando l’organizzazione razionale dello spazio sociale ha portato allo sviluppo di collettività urbane con quelle stesse opportunità e pericoli fino dalla mitica Gerico del Terzo millennio a. C.. Oggi, al contrario, l’assenza nella nostra cultura di qualcosa che aiuti a superare il limite, a restituire la sacralità della paura e degli intervalli, il gusto della lentezza, non devono essere considerati come residui premoderni davanti al "fondamentalismo del moderno", quanto elementi irrinunciabili di una ricchezza più matura (..) preziosi per costruire il proprio futuro (Cassano, 2001).Quanto queste considerazioni potranno aiutare gli individui contemporanei, in maggioranza urbaniti, all’indomani di un evento come quello del 11 settembre 2001 a New York forse ce lo potranno dire gli innumerevoli commenti di questi primi 100 giorni dall’accaduto, già meglio delle pagine dei futuri e-books storici.

 

2. Il rischio della città

Dalle prime forme di realtà cittadina della fiorente civiltà mesopotamica alle città-stato greche e all’urbs romana era comune il senso di miglioramento della qualità della vita in una società in cui ognuno si specializzava in un mestiere e in un ruolo perseguendo il bene della collettività, così come, però, si rimpiangeva la vita semplice ed indipendente nella propria terra quando le leggi del governo della città si imponevano sui diritti più inalienabili: quello della vita da rischiare nelle guerre o quello della libertà da sacrificare ai doveri di cittadinanza. Questi tratti, giunti fino a noi dai racconti di un Senofonte o di un Seneca, ci descrivono la vita di città già densamente popolate ed estese, come l’Atene del III sec. a. C., nella quale si calcola vivessero 250 mila persone, altrettanto quante quelle della Roma del I sec. d. C., che, quindi, già solo per le loro dimensioni, nulla avevano da invidiare alle più recenti metropoli: questo può almeno minimamente giustificare l’origine etimologica della parola città che i linguisti fanno risalire al termine latino civitatem.

E’ innegabile come le strutture e le esperienze di queste collettività urbane abbiano sospinto più tardi, verso l’anno 1000, quegli uomini nuovi, mercanti e contadini, a liberarsi dal giogo feudale per aggregarsi in nuove comunità che segneranno la "rinascita della vita cittadina", la più congeniale, secondo Henri Pirenne (1963), ai traffici economici e al bisogno di "associarsi fra pari" per difendersi dallo strapotere del signore, come dagli attacchi dei briganti. Proprio nel borgo medievale e nelle sue successive evoluzioni rinascimentali o protoindustriali, la città ha continuato a rappresentare il luogo eletto per l’affrancamento dell’uomo dalla limitatezza di una vita individuale - non a caso il motto di molti comuni medievali era l’aria della città rende liberi (Die Stadtluft macht frei). Lo stesso Max Weber, ispirandosi ad esse, formulerà la definizione di città parlando di "società locali strutturate che si danno da se stesse gli ordinamenti, senza dipendere da poteri politici superiori" (1904-05, 35). Insomma, già si formava quella che da sempre la filosofia disegna come la dimensione spaziale della politica, ossia la definizione della politica nella sue funzione specifica di conquista e organizzazione degli spazi Quelle stesse cittadinanze, però, vivevano anche con crescente tensione l’incertezza di una vita collettiva sempre più complessa: basti pensare alla toponomastica di molte città che ancora conservano i segni della ghettizzazione ebrea - la Giudecca a Venezia o le Judengassen in Germania - a testimonianza della volontà di emarginare il diverso, lo straniero, come elemento di disturbo della normalità.

Guardando all’urbanizzazione indotta dalla Rivoluzione industriale, Richard Sennett ha sottolineato efficacemente come "la pianificazione urbanistica geometrica e rettangolare, ispirata al castrum romano, costituisce l’espressione più precisa ed adeguata della visione della città come ambiente di vita uniforme, ordinato ed impersonale" (Sennett, 1993). Così, desiderio di libertà e senso di incertezza suscitati dalla vita di città hanno trovato un compendio nella cultura moderna - quella sociologicamente intesa - nella creazione di un ordine che fosse architettonico come politico: la città diveniva luogo deputato all’attività di governo, soggetto ed oggetto del governo urbano.

Se sociologi come Ferdinand Toennies hanno evidenziato con nostalgia la superficialità e strumentalità delle relazioni sociali del grande agglomerato (Gesellschaft) rispetto alle forme spontanee e primarie della comunità premoderna (Gemeinschaft), con pari convincimento gli studiosi positivisti con a capo Emile Durkheim vedevano nel corpo sociale e nei rapporti organici fra gli individui la piena realizzazione di tutte le funzioni della vita collettiva, interpretandola con strumenti scientifici. Quegli stessi che hanno condotto negli anni ’20 del XX secolo sociologi come Robert Park e la Scuola di Chicago ad inaugurare quel filone di studi noto come ecologia umana, teso all’analisi delle relazioni umane e di tutte le influenze selettive ed adattative che, come in un ambiente naturale, così agiscono nell’ordine sociale e negli spazi della città.

Questi studi sociologici, fra gli altri, pur nella diversità delle proprie interpretazioni, mostrano il grande interesse che un fenomeno sociale crescente come quello dell’inurbamento riscuotesse a cavallo fra Otto e Novecento, acquisendo una centralità che andava oltre la constatazione che lo "spazio è la condizione necessaria dell’essere insieme". Si stava assistendo, infatti, ad una profonda trasformazione in senso culturale della città che diveniva il tòpos per eccellenza di un nuovo processo di modernizzazione fondato sulla razionalità per promuovere il mutamento sociale e la moltiplicazione delle risorse.

Nel suo noto saggio sulla metropoli Georg Simmel (1903) descrive una cultura capitalistica che offre un sovraccarico di stimoli e possibilità all’individuo, ma anche lo strumento razionale più adeguato, il denaro, per semplificare una realtà quotidiana complessa e rapporti interpersonali difficili se non regolati da atteggiamenti misurati fra l’indifferenza e la disattenzione: solo la città può consentire quella "intimità pubblica" e favorire le forme di socievolezza che David Riesman (1953) analizzerà nel suo La folla solitaria. Quell’insediamento a grande dimensione, densità ed eterogeneità, omologato e ordinato da una "cultura del comun denominatore" secondo Louis Wirth (1938), ha visto mutare, specie dopo il secondo conflitto mondiale, anche le sue dimensioni spaziali e temporali in senso razionale ed economicistico: "L’industrializzazione e l’urbanesimo - ha notato Luciano Gallino - portano con se l’agenda e l’orologio" (1984, 102) in questa che può definirsi una "cultura del tempo" dove si cerca di regolare e distribuire le molteplici attività di un contesto urbano.

 

3. La "città del rischio"

L’individuo della città, metaforicamente rappresentato da Bauman, si è così gradualmente trasformato dal pellegrino votato al raggiungimento della meta, al vagabondo che gira senza destinazione perdendosi per la città, al turista che guarda intorno a se con un senso solo estetico, fermandosi a quelle superfici tanto curate nelle metropoli contemporanee, dietro le quali scompare la complessità; ma con essa anche l’etica, le emozioni e la tolleranza di un ordine razionale che ha assicurato maggiore libertà, ma anche maggior incertezza. Pur di salvarsi dalla "gabbia d’acciaio" della razionalità, in questa seconda modernità l’individuo è pronto a barattare questa volta un po’ di sicurezza per una maggiore felicità individuale, trasformando la città in un luogo di piacere e pericolo, opportunità e minaccia, di riappropriazione di spazio e tempo sociali. E’ questa la reazione a quel disembedding descritto da Anthony Giddens (1990) per il quale i rapporti sociali si proiettano al di fuori della società, tanto da poter essere mutati per decisioni prese da persone e in tempi lontani: dal rischio della vita in città si passa ora a vivere nella "città del rischio".

Proprio lo spazio della città, l’ambiente nel suo senso etimologico di "ciò che sta attorno" all’individuo, è l’indicatore più attendibile degli incerti scenari naturali e culturali in cui agiranno le politiche per lo sviluppo e il governo della città nei prossimi anni. Con cittadini sempre più stressati e consapevoli del rischio ed istituzioni "lentocratiche", la città del Terzo Millennio assomiglia molto a quella pasoliniana immaginata come una "ricotta rafferma e maleodorante". Sono sufficienti i martellanti dati di rapporti e statistiche a quantificare fenomeni come l’inquinamento atmosferico e acustico nelle città. L’Italia, riferendoci al nostro caso specifico, ha il triste primato europeo di un sistema di trasporti di alto impatto ambientale, di un numero di auto pro capite - per l’esattezza 66 ogni abitante a Milano - mentre il tasso di inquinamento da biossido di azoto e benzene è costantemente superiore al "livello di protezione" se non al "livello d’informazione". Ancora, ben oltre l’80% della popolazione delle aree urbane è esposta ad un inquinamento acustico superiore alla soglia stabilita per le aree ad elevata concentrazione e la produzione di rifiuti è in costante crescita, mentre i procedimenti di trattamento e smaltimento stentano ad affermarsi - la raccolta differenziata, ad esempio, è limitata ancora al 9,4% del totale! (Fig. 1)

Nella città non si intravede un miglioramento dell’efficienza ambientale e per molti aspetti il tasso di crescita dei fattori di pressione è superiore anche all’aumento dei livelli di reddito: non solo la Sicilia con un minore apporto di reddito, ma le stesse metropoli del Centro-Nord presentano incuria e malgoverno che, forse, più delle calamità naturali sono dietro i disastri ambientali italiani. (Fig. 2 e Tab. 1)

Nonostante l’attuazione di provvedimenti specifici come la "carbon tax" e l’adesione di circa 50 fra amministrazioni cittadine e regionali agli indirizzi stabiliti alla Convenzione di Rio del 1992 con l’Agenda 21, l’Italia in ritardo sta ancora attuando una politica ambientale di prima generazione (creazione di infrastrutture difensive come i depuratori) e solo pianificando la seconda fase (prevenzione e integrazione dell’ambiente nelle politiche economiche), quando in molti Paesi europei si è alle prese con la terza generazione di politiche ambientali, ossia con la "ricostruzione della qualità dell’ambiente" partendo da una nuova valorizzazione delle aree urbane. Il tardivo ravvedimento delle autorità comunitarie di una scarsa attuabilità della politica ambientale, se condotta in modo autonomo rispetto alle altre politiche sociali, ha consentito solo negli anni ’80 l’intensificarsi di ricerche e studi che hanno prodotto, fra gli altri, il Rapporto della Commissione Brundtland del 1987 e il Libro Verde sull’ambiente urbano del 1990. Solo con questi documenti quello che era il fenomeno visibile del rischio ambientale nelle città è riuscito ad entrare nelle agende dei decisori politici, oltre che nei messaggi dei mass media e in un più attivo interesse dell’opinione pubblica. Lo dimostrano il principio di sussidiarietà stabilito dal Trattato di Maastricht - che favorisce le legittime pretese dei governi locali ad amministrare problematiche dimenticate dal governo centrale - la prolificazione di one-issue movements ambientalisti e il dibattito fra interessi e conoscenze contrapposti. Ciò oggi fa affermare a studiosi come Rodolfo Lewanski che la politica ambientale è costituita dall’insieme di "interventi posti in essere da autorità pubbliche, ma anche da soggetti privati, al fine di disciplinare quelle attività umane che riducono la disponibilità di risorse naturali o ne peggiorano la qualità e la fruibilità. In concreto oggetto della politica sono quei comportamenti che producono il degrado dell’ambiente rispetto allo stato attuale" (1997, 7).

Fig. 1 Autovetture per Kmq nelle principali città italiane

_______________________________________

1997

Fonte: ISTAT, Rapporto Italia in cifre 1999/2000

 

Tab. 1 Indicatori ambientali nei comuni centro delle aree metropolitane

_______________________________________________________

anno 1997

città

Rifiuti solidi urbani

Raccolta differenziata

Raccolta diff./RSU %

Densità di verde

Autovetture per 100 ab.

Km di piste ciclabili

Torino

485, 3

61,5

12,7

10,1

55,9

25,4

Milano

699,5

180,0

25,7

6,7

58,7

18,6

Venezia

669,9

141,3

21,1

0,8

38,0

6,6

Genova

474,5

29,9

6,3

5,9

43,4

-

Bologna

539,3

48,1

8,9

8,0

52,1

14,9

Firenze

577,0

70,3

12,2

4,5

52,5

14,1

Roma

511,0

23,1

4,5

2,7

60,1

1,4

Napoli

655,7

13,4

2,0

1,8

60,0

-

Bari

513,6

7,9

1,5

0,8

47,8

-

Palermo

590,1

6,2

1,1

6,7

51,2

-

Catania

578,7

4,0

0,7

0,5

55,9

-

Cagliari

550,9

4,2

0,8

4,8

61,5

-

Fonte: ISTAT, Rapporto Italia in cifre 1999/2000

Fig. 2 Verde urbano nelle principali città italiane

__________________________________

Anno 1997, metri quadrati per abitante

Fonte: Istat, Rapporto Italia in cifre 1999-2000

Non a torto Tom Burns ha recentemente sottolineato come la sovranità popolare e democratica abbia ormai una validità de iure rispetto a quella de facto di una "democrazia organica postparlamentare" in cui lobbies ed interessi più o meno organizzati sono i principali attori di governo. Sono, infatti, andati a sostituirsi a quei decisori istituzionali che sono stati privati anche del ruolo di fissazione delle high policies, ossia di dichiarazioni strategiche di principio. Oggi la politica ambientale è demandata soprattutto a low policies, quindi a mere definizioni di standards tecnici e normative sempre più specialistiche e quindi lasciate alla concertazione di esperti e attori economici, "by-passando" la lentezza della fase decisionale (Cfr. Pirzio, 1996).

Con istituzioni che si barcamenano fra difficili provvedimenti anticipatori di un problema ambientale - spesso imprevedibile - e politiche reattive, quanto mai costose e criticate perché non risolutive di disastri spesso onerosi, l’unica prospettiva evidenziata dagli studiosi dei temi ambientali e dei processi sociali è quella rappresentata da una duplice integrazione. Quella sottolineata in recenti studi europei come l’ULYSSES (Urban Lifestyles, Sustainability and Integrated Environmental Assessment) o dall’analisi di Bruna De Marchi (1997), ossia l’integrazione partecipativa: visto il nesso crescente fra qualità dell’ambiente e qualità della vita, ogni decisione presa su temi ambientali riguarda tutti i componenti della società e non solo quegli stakeholders che siedono ai tavoli delle trattative in nome degli interessi scientifici ed economici che rappresentano. Una maggior democratizzazione della conoscenza e delle decisioni, accanto alla circolazione di informazione accessibile sono, non a caso, gli ultimi obiettivi prefissati dai decisori europei, ma anche da quello nazionale, come dimostra il senso della legge n. 127/90, meglio nota come "Legge Bassanini 2". Eppure, proprio quella centralità dei problemi ambientali nelle agende politiche - che rende la città come "il crocevia di una realtà e cultura al contempo globale e locale" (Cahill 2001) - ne evidenzia oggi l’incommensurabilità, nota a Belohradsky già nel 1990, per la diversità estrema e palese degli interessi e dei punti di vista con cui vengono vissuti e interpretati. Essa è a tal punto palese che Pellizzoni (22019 ha rivisitato con grande interesse recentemente il termine di dissimiglianza con cui Belohradsky si riferisce ad un’incommensurabilità ormai divenuta non più tacitabile e il tradizionale criterio decisionale del top down forse risolvibile solo in una dinamica di bottom up. È certo che un inquadramento ristretto e un approccio frammentario sono oggi inadeguati a far fronte all’incertezza radicale: l’apertura, la flessibilità, l’inclusività sono richieste dalla natura stessa di molte controversie intrattabili vagheggiando un’idea di bene comuneche possa sorgere dall’incontro fra varie politiche settoriali.

Certamente l’integrazione della politica ambientale, ad esempio, con le altre politiche e, nel caso quelle urbane, induce un processo di cooperazione fra più soggetti sociali ed istituzionali per definire comuni obiettivi di sostegno locale e strumenti normativi e finanziari che permettono la riqualificazione di centro e periferie, la riduzione delle varie forme di inquinamento, la creazione di distretti industriali verdi, maggior attenzione per la sostenibilità e l’eventuale vulnerabilità ambientale, sociale ed economica delle aree urbane, che sono beni comuni ormai irreversibili, quanto irrinunciabili.

In realtà, il processo di modernizzazione si sta troppo spesso traducendo per le nostre città in politiche di "facciatismo" (ad esempio le tinteggiature dei palazzi o la creazione di spazi verdi) di preferenzialità per le grandi opere e per le zone più centrali con realizzazioni sbandierate e raramente completate, di recupero delle periferie con l’immancabile ipermercato e l’area pedonale, senza ripensare al loro effettivo valore. Strategie che sanno spesso di finalità elettorali per recuperare un consenso che non sia più solo conformità e che sta svanendo con il valore della rappresentanza; politiche che lasciano disattese le istanze di una società che vede amplificato nello spazio urbano quotidiano le incertezze di un futuro che la razionalità da sola non può progettare - senza valori-guida e attori pronti a seguirli. Dalla politica ambientale in primis può venire la sfida di un "paradigma non centrale" rispetto all’ideologia economicistica dominante, in grado di perseguire un bene collettivo e non individuale, una progettualità a lungo termine e non solo di immediata e frammentaria realizzazione, un’impostazione etica e non solo utilitaristica, un senso di responsabilità democratico e partecipativo e non quella decisionalità settoriale che ha fatto dell’ambiente urbano una "città del rischio".

 

4. Conclusioni

Non è un caso che la politica ambientale abbia fatto da volano nell’interpretazione di un’inedita dimensione urbana, rapidamente confrontata in senso diacronico e sincronico per l’attuale sua funzione di trovare a favore dell’urbanita disperato soluzioni biografiche in sistemi così complessi e contraddittori (Bauman, 2001).

Il nesso sempre più inscindibile fra rischio e cittadinanza, su cui purtroppo langue l’attenzione di politici e intellettuali del Bel Paese, nasce e si diffonde con la densità spaziale di problematiche ambientali che l’evento dell’11 settembre ha definitivamente precisato – se ancora ce ne fosse stato bisogno – essere di matrice umana, nella città drammaticamente evidenti per la dimensione globale che vi si riflette e per l’inadeguatezza di formule finora sperimentate e mai impostesi di soluzione dei problemi a partecipazione eminentemente locale.

Se poi la dissimiglianza culturale, prima ancora che politica ed economica, frammenta il bene comune, la città diventa lo scenario emblematico del progresso e della sua fine: ambiente mediale perfetto per veicolare messaggi occidentali e islamici pro e contro la globalizzazione che la città rappresenta con i suoi grattacieli – la sfida alle forze di Dio e della natura a partire dalla Torre di Babele – con le sue catene commerciali, le sue periferie e le sue manifestazioni di piazza.

Non si può non sperare con Dahrendorf (Polito 2001)che l’estremo male dell’assenza di un bene comune moltiplichi nelle città anche la "paura costruttiva", ossia la voglia di riscoprire i valori fondamentali: la solidarietà verso le sue vittime, la prevenzione dei mali e disagi che graveranno sui figli dei nostri figli, quella disattenzione partecipata che non ci fa guardare l’altro negli occhi sottointendendo la sua stessa invulnerabilità e parità.

In fondo da sempre la storia è stato un cimitero di città. In uno degli ultimi numeri della rivista Diario si raccontava la storia di città che ieri, oggi o tanti secoli fa sono state ferite o distrutte dalla violenza di nemici umani: Gerico, New York, Kabul, Genova, Troia, Atene, Pompei, Tenochtitlán, Cordova, Oklahoma City, Sarajevo, Grozny, Palermo, Beirut, Dresda, Berlino, Stalingrado, Hiroshima … Il perché della distruzione per mano di città ed eserciti nemici? In prevalenza la risposta è nell’invidia, nella rivalità economica e politica, ma soprattutto nella diversità culturale: è il concetto di città a dare scandalo perché la città è sempre troppo nuova, troppo moderna, troppo licenziosa, all’avant-guarde, ma eterna.

Chi scrive, con la parzialità di chi è nato e cresciuto in un ambiente urbano, non può come urbanita e cittadina far propria la provocazione del comico americano David Letterman che descrivendo qualche tempo fa al suo pubblico la figura del maggior imputato per il terribile attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle di New York, ha detto: "Stano tipo quell’Osama bin Laden: vive in una caverna, ha un patrimonio di 300 milioni di dollari, 26 figli avuti da 5 diverse mogli. E sapete cosa detesta di più? Gli eccessi della società americana (…) Nel World Trade Center sono morti circa 5 mila lavoratori sul loro posto di lavoro per decisione di un miliardario … Forse è proprio il caso di costruire un sindacato delle città!"

Ubi maior minor cessat dicevano i latini. Dove più uomini convivono mediando fra bisogni, valori, interessi, lì minore sia la dissimiglianza in primis culturale e maggiore il sincretismo che ormai solo il rischio riesce a rendere costruttivo.

 

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