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Saggi
Narcisismo e gioco nel lavoro post-fordista
di Marco Cerri
1. Imprenditorializzazione del lavoro e narcisismo
La terziarizzazione del lavoro, connessa ai processi di outsourcing, all’espansione strategica delle funzioni di servizio incorporate nelle merci e alla mercificazione dei beni relazionali, ha sviluppato rappresentazioni del lavoro fortemente centrate sulla potenza costruttiva del soggetto al lavoro, svincolato da un contesto formale di subordinazione. Queste culture, cresciute all’interno dei processi di esodo delle soggettività dall’ideologia novecentesca del lavoro e sussunte dentro ai processi di trasformazione delle economie produttive, hanno prodotto la centralità della dimensione imprenditiva del lavoro: l’apologia individualistica del rischio e della sfida, della creatività e della capacità innovativa, sono l’espressione di questa rinnovata retorica della potenza autogenerativa del soggetto al lavoro.
Nell’imprenditorializzazione del lavoro, la prassi produttiva perde la sua ontologica contraddizione e vede un’assolutizzazione delle componenti costruttive, liberatorie e generative [1]. Le aporie vengono proiettate nei sistemi di relazione del lavoro con lo stato e la società, attraverso le domande di sottrazione ai vincoli e alle prescrizioni; il mercato e l’impresa diventano la condizione del libero sviluppo della soggettività, e la “libertà nel lavoro” il magico strumento fondativo dell’attività umana ricondotta a prassi imprenditoriale.
E’ questo l’esito di un tragitto di pratiche sociali; dal rifiuto del lavoro e della sua centralità nei processi di costruzione identitaria alla dimensione totalizzante e tendenzialmente esclusiva nell’esperienza sociale del soggetto, assunta dall’agire produttivo.
In questo contesto narcisismo e sacralizzazione dell’atto produttivo sono intimamente connessi; da una parte la dimensione onnipotente, manifestandosi come domanda di sottrazione ai vincoli, rimuove la costitutiva dipendenza del soggetto. Dall’altra, nel momento in cui si riconduce l’agire lavorativo a dimensione generativa, si riattualizza simbolicamente l’atto primordiale, manifestazione donativa e, al tempo stesso, piacere narcisistico del riconoscimento di sé nel proprio prodotto.
Nelle domande sociali di discrezionalità e di autonomia vi è pertanto un’auto-rappresentazione adulta del soggetto che, contraddittoriamente, passa spesso attraverso una regressione fantasmatica ad un’onnipotenza primigenia che non tollera il riconoscimento della propria dipendenza ontologica e il valore fondativo dell’istituzione.
Gli esiti maturi della modernità ci consegnano un codice paterno mutilato; sopravvive la coazione imperativa alla competizione e all’affermazione di sé stessi mentre risulta depotenziata la funzione costitutiva delle regole sociali.
In questo contesto la dimensione imprenditoriale si può configurare come rivincita edipica sia in senso generazionale, attraverso cioè processi di mobilità ascendente, sia in termini psichici, connettendosi qui ai sentimenti autogenerativi.
L’emergenza di tali rappresentazioni si coniuga con i mutamenti in atto nelle forme di disciplinamento sociale. L’imperativo a diventare sé stessi e la percezione magica dell’illimitatezza delle possibilità sostituiscono le norme impersonali quali forme di regolazione degli scambi simbolici nei processi societari; si produce così il mito dell’autenticità del soggetto, del ritorno alla sua natura intima e sostanziale, situata in un stato precedente all’incontro con l’altro. In questa sorta di mito della destorificazione dell’individuo vi è una negazione della centralità dei processi di socializzazione negli stessi percorsi di costruzione del soggetto. Nella dimensione narcisistica, a fronte del deperimento degli scambi sociali, si sviluppa un surplus di investimento emotivo nelle relazioni individuali, sotto il segno della riduzione dell’altro a strumento del desiderio di rispecchiamento della propria potenza originaria.
2. Prescrizione e discrezionalità nell’agire produttivo
Il processo lavorativo rimanda simbolicamente all’attività generativa, e quanto meno forte è la componente prescrittiva, tanto più vengono massicciamente mobilitati processi inconsci. Capacità di invenzione, immaginazione di nuovi scenari, sfida all’oggetto, mobilitano una quantità notevole di materiali simbolici che vanno trattati ed elaborati.
Nella specificità complessa di tali pratiche si esprime tutta la potenza e la fragilità delle rappresentazioni del lavoro imprenditorializzato; da una parte il piacere adulto della generatività. Dall’altra la costante esposizione al rischio del fallimento, all’ansia genetica di produrre un cattivo risultato.
La totalizzazione esperenziale che ha assunto il lavoro nella crisi del fordismo, assorbendo le spinte desideranti maturate nei contesti riproduttivi e più in generale sociali, sviluppa forti movimenti emotivi connessi alla messa in gioco personale nel lavoro. In questo senso pertanto l’esaltazione della discrezionalità creativa del lavoro rappresentato come attività imprenditiva, porta ad una sostanziale omologazione tra attività professionale e struttura della professionalità; la non riuscita nel lavoro viene equiparata al fallimento personale, dando luogo a stati ansiogeni e vissuti distruttivi e regressivi.
L’elogio della mutevolezza e dell’incostanza sviluppano nuove forme di marginalizzazione e disagio; nella società tradizionale il soggetto esprimeva attraverso forme patologiche di tipo nevrotico l’insopportabilità della coercizione sociale e del primato dell’adeguamento conformistico alla norma paterna. Ora, nella società dell’illimitatezza del desiderio e della prescrizione sociale del suo soddisfacimento immediato, il disagio si manifesta come abdicazione del soggetto alla comunicazione sociale. (Eheremberg, 1999)
La depressione diventa la malattia della responsabilità e del cambiamento; l’imperativo ad un individualismo aggressivo espone i soggetti ad una continua sollecitazione ad agire e a mettersi in gioco. I sentimenti depressivi, basati sulla percezione di inadeguatezza e insufficienza personale, producono inazione e sottrazione difensiva all’estrema tensione psichica determinata dai nuovi modelli di disciplinamento sociale.
Lo stress lavorativo, oggetto negli ultimi tempi di una forte attenzione sociale, non è solo riconducibile all’intensificazione dei ritmi lavorativi e alla crescente complessità e pluralità dei compiti lavorativi ma anche, e forse soprattutto, alla soggettivazione autonoma dei processi produttivi. L’ansia depressiva, ossia lo stato di disagio psichico determinato dalla percezione del soggetto di inadeguatezza di fronte ad un compito ritenuto troppo impegnativo per le proprie capacità (Jacques, 1990), diventa l’altra faccia della medaglia del narcisismo onnipotente e iper-attivistico.
Laddove l’aleatorietà e l’incertezza sviluppano nel soggetto un sentimento di insopportabilità dello sforzo emotivo di continuare a sostenere l’illusione autistica della propria onnipotenza, si sviluppano fantasie di reinfetazione in grado di sottrarre l’individuo alla faticosa incombenza del produrre sé stesso. La crisi del codice paterno ci consegna quindi il fantasma di un materno arcaico che non assume solo le forme minaccianti dell’inglobamento e della fagocitazione, ma anche quelle seduttive della fusionalità regressiva.
In questo contesto l’Ideale dell’io si rimodula su un oggetto di investimento che, attraverso l’esodo dall’imperativo della competizione e dalla coazione alla creatività, consente l’accesso a condizioni di dipendenza e di ritiro dai processi di produzione del sociale.[2]
Terziarizzazione, esternalizzazione, centralità del paradigma di servizio hanno prodotto la centralità del lavoro autonomo sia in termini quantitativi, sia in termini simbolici, nelle pratiche post-fordiste.
E' qui che hanno assunto dimensioni di massa l'enfasi sulle capacità individuali di protagonismo, autonomia e sulle virtù sociali della flessibilità e dell'iperlaboriosità.
L'autonomizzazione del lavoro esprime la ricerca nel soggetto di una sottrazione alle regole impersonali del comando eterodiretto, configurandosi come una richiesta adulta di confronto con il compito lavorativo e i suoi risultati; ma al tempo produce una forte idealizzazione del lavoro e delle proprie capacità onnipotenti e autogenerative, e una svalutazione del lavoro dipendente.
La forte diffusione di tali rappresentazioni, investe anche le soggettività del lavoro dipendente nella produzione di massa; la crescente centralità assunta dalla flessibilità cognitiva ed emotiva e la capacità di innovazione richiesta alla forza lavoro, evidenziano la diffusività della retorica del lavoro come discrezionalità e autonomia individuale.
Sulle macerie dei sentimenti di appartenenza alla classe, si afferma pertanto una imprenditorializzazione del lavoro che, attraverso le retoriche del lavoro autonomo e della singolarizzazione della prestazione lavorativa, sviluppa processi di decontrattualizzazione e de-salarizzazione.
Questi processi sono evidenti anche in un altro dei luoghi dove più consistentemente le retoriche post-fordiste hanno avuto modo di svilupparsi; mi riferisco qui agli ambiti produttivi del lavoro cooperativo, laddove l’ideologia imprenditiva ha trasformato il socio-lavoratore in socio-imprenditore.
Quanto le retoriche che accompagnano questi processi siano radicali enfatizzazioni di condizioni che frequentemente si connotano per debole contrattualità è evidente analizzando le condizioni di subordinazione indiretta e di autosfruttamento del lavoro autonomo e della micro-imprenditoria del decentramento produttivo.
Bologna (1998) elabora le principali caratteristiche di quello che definisce il lavoro autonomo di seconda generazione; elevata discrezionalità dei contenuti del lavoro, superamento della distinzione tra tempo e luogo di lavoro e pratiche riproduttive, condizione di forte rischio esistenziale. Vi è nel lavoro autonomo l'interazione paradossale tra la solitudine nell'assunzione di rischio e la socialità produttiva nelle reti di scambio e produzione; è questa incertezza costitutiva del lavoro autonomo a determinare una pulsione acquisitiva in funzione difensiva; l'impossibilità di un progetto lavorativo di lungo periodo induce a forme di risparmio assicurativo, attraverso l'intensificazione del lavoro e pertanto dei guadagni. Si consideri inoltre come la struttura fiscale induca un aumento dei consumi e favorisca una mentalità acquisitiva che si coniuga con una domanda di distinzione sociale e di appartenenza alla classe media. Entrambi i movimenti, l'uno teso al depotenziamento del rischio esistenziale e l'altro al superamento simbolico di una condizione di vita senza agio, conducono ad un elevato livello di autosfruttamento e ad una sostanziale indistinzione tra lavoro e vita. [3]
L'elevata competizione, l'aleatorietà delle regole che governano il successo lavorativo ed esistenziale, costringono il lavoratore autonomo ad una costante presenza sul mercato alla ricerca di nuove commesse e opportunità di conoscenze; la dilatazione dello spazio/tempo di lavoro investe direttamente quello della socialità e convivialità. L'accesso e il mantenimento della possibilità di lavoro si alimenta infatti attraverso l'intensificazione delle reti di relazioni micro-sociali; amicizie superficiali e conoscenze occasionali, maturate all'interno di contesti informali e ricreativi, diventano risorsa produttiva.
L'essere sempre presente diventa una condizione per poter fruire delle potenziali occasioni che le reti amicali e informali offrono per lo sviluppo del proprio posizionamento sul mercato.
In questo senso le competenze che vengono richieste al lavoratore autonomo vanno ben oltre gli skills tecnico-professionali; il successo lavorativo, oltre che al possesso di competenze specifiche nell'esecuzione di una determinata prestazione, dipende anche, e forse soprattutto, dalla capacità di intessere relazioni con soggetti in posizione significativa nei circuiti produttivi, di attivare processi di collaborazione competitiva con colleghi, di costruire un'appetibilità di sé, attraverso l'utilizzo di tecniche comunicative e seduttive.
I meccanismi ottimali della messa sul mercato di sé stessi vengono desunti da quelli organizzativi ; in questo contesto di omologazione tra lavoro e impresa, assumono quindi rilevanza strategica le capacità individuali di riconoscere sé stessi come prodotto mercificato e le relazioni inter-individuali come mercato. In uno dei tanti manuali dell’arte di vendere sé stessi (Varvelli R.-M.L., 1999) vengono espressamente prescritte una serie di attenzioni all’offerta della propria persona come marchio acquistabile sul mercato, con tanto di cura nei confronti del proprio packaging.
Il modello proposto delle “cinque V” consiste nel ritenere strategicamente centrale la cura del soggetto al lavoro delle proprie “verbalità, vestibilità, visibilità, vivibilità e vitalità”; capacità comunicative, eleganza sobria ma accattivante, costruzione di una notorietà personale e professionale, rispetto e amore di sé e, infine, comportamento ottimista e positivo, diventano gli ingredienti necessari al successo personale nel lavoro.
E' evidente che in questo contesto non è più la forza lavoro, in quanto specifica e delimitata capacità produttiva, ad essere inserita nei processi di valorizzazione ma le qualità genericamente umane, pre-professionali, sviluppate nei processi di socializzazione; la specificità e la qualità delle offerte formative proliferate nell’ultimo decennio si inserisce all’interno di questo contesto.
4. Retoriche della formazione
Nella società del rischio e della provvisorietà il possesso del sapere diventa determinante per poter governare la propria trama biografica; nei processi produttivi e sociali assume rilevanza strategica il possesso di sapere e la conoscenza delle opportunità e delle possibilità.
L'insicurezza generalizzata, la crisi dei processi di trasmissione della memoria del saper fare e la pluralità di modelli di riferimento producono una proliferazione di offerte formative che, da una parte, sviluppano una dipendenza dalla figura dell'esperto e, dall'altra, segnalano un'avidità informativa e sperimentativa. E’ come se il traguardo dell’adultità fosse sempre costantemente rimandato attraverso cicli di regressione ad una condizione funzionale all’acquisizione di rinnovati saperi.
Negli ultimi tempi si sono sviluppati discorsi pubblici intorno all’esigenza fondamentale della formazione continua, dello sviluppo di capacità di “apprendere ad apprendere”, di una formazione a “pensare” ; in effetti vi è una profonda discrasia tra il dichiarato e ciò che prevalentemente si verifica nel quotidiano delle istituzioni e delle organizzazioni. Sembrano prevalere cioè domande e offerte formative basate sull’acquisizione di tecniche applicative di saperi preconfezionati oppure centrate sulla crescita delle capacità di adattamento ai processi di trasformazione in corso.
Il notevole sviluppo delle tecnologie dell’informazione ha veicolato una retorica dell’illimitatezza del sapere e delle sue possibilità; si tratta peraltro frequentemente di una banalizzazione del sapere, di una sua riduzione ad uno schema binario (vero/falso), basata su un’illusione di apprendimento cumulativo. L'elogio apologetico della mutevolezza, dello sradicamento, della capacità opportunistica di stare dentro ai flussi delle occasioni offerti da un mercato instabile e in continuo mutamento, producono la centralità strategica della formazione, intesa come acquisizione di capacità cognitive ed emotive di adattamento e flessibilità. Le competenze e le conoscenze vengono ricondotte alla capacità camaleontica di stare al mondo, di conoscenze strumentali ed impressionistiche, di bricolage aperto, il cui modello è rappresentato dalla navigazione in Internet; episodicità, frammentarietà, piacere ludico determinato dalle infinite possibilità di ricombinazione delle informazioni.
Si tratta frequentemente di un sapere raccattato [4], parassitario, predatorio e senza relazione con l'altro, ottenuto spigolando nelle infinite potenzialità degli iper-testi.
Simmetricamente esistono altri percorsi centrati sull'esplorazione di sé, esito dei processi di psicologizzazione dell'individuo sociale; in questi contesti, culto dell'autenticità e fantasie di un ritorno ad una realtà primigenia anteriore ai processi di socializzazione, si connettono all'acquisizione di competenze performative in grado di sostenere la ricerca di auto-realizzazione e distinzione. Penso qui alla proliferazione di corsi new age per superare l'infelicità, vincere l'insicurezza e l'inibizione emotiva, per apprendere tecniche di autoguarigione e di de-identificazione in grado di liberare i poteri magici e sconosciuti del sé; oppure a quelli che offrono l'apprendimento rapido e indolore di tecniche di sviluppo della creatività, delle capacità di fare marketing di sé stessi, di aumentare le proprie competenze seduttive e carismatiche. Misticismo orientale e materialismo spiritualista , terapeutizzazione del quotidiano e funzionalismo ludico accompagnano le retoriche e gli imperativi formativi alla crescita dell’auto-imprenditorialità, della creatività, della flessibilità, dell’empowerment, ed esprimono frequentemente la ricerca affannata di un sapere totalizzante su di sé, filtrato dalla dipendenza estatica nei confronti di un maestro assoluto che tuteli dalla fatica del pensiero. Banali scatole degli attrezzi psicologici di auto-conoscenza convivono quindi con l'assunzione di un modello seducente che porta in un altrove puro e incontaminato.
Questi modelli formativi, espressione di un ottimismo superficiale ed estemporaneo, si basano su un'operazione di rimozione dell’inevitabile lentezza, della necessità di stasi riflessiva, della sosta negli spazi di senso della fatica, dell'attesa e della mancanza, del passaggio attraverso la confusione e la dipendenza, caratteristiche queste proprie di ogni percorso di apprendimento.
Il processo di autonomizzazione atomistico dei soggetti porta il depotenziamento della funzione magistrale; da un lato, la fatica dell’allievo nel transito in situazioni di dipendenza e gratitudine come condizione per accedere alla crescita e all’autonomia. Dall’altro, le difficoltà magistrali all’assunzione di un’adultità in grado di esercitare il duplice e temporaneo ruolo di prescrizione e cura, nella prospettiva del superamento dell’asimmetria e pertanto della propria indispensabilità.
E’ dentro questo contesto quindi che nelle relazioni di apprendimento prevalgono frequentemente profezia e opportunismo, inazione e comportamenti adesivi; la crisi dei processi di trasmissione delle conoscenze produce sette e supermercati del sapere.
5. Oltre l’imprenditore weberiano
Nelle retoriche imprenditoriali cresciute dentro alla crisi del fordismo vengono enfaticamente valorizzate qualità individuali quali la produzione di visioni intuitive e l'esplorazione solitaria di nuovi scenari produttivi, l'investimento libidico e corsaro e la capacità creativa di innovazione, la tenacia nel perseguimento degli obiettivi e la risolutezza nell'assunzione delle decisioni.
Funzioni manageriali e imprenditoriali tornano a coniugarsi; la profezia schumpeteriana di un progressivo venir meno dell'imprenditore, sulla scorta della progressiva routinizzazione dell'innovazione e della spersonalizzazione del ruolo manageriale, non ha trovato conferma nei caotici processi che accompagnano la crisi del fordismo.
Nel pathos post-fordista l'agire imprenditoriale, attraverso la valorizzazione ideologica delle qualità dell'imprenditore pre-capitalista, ritorna ad essere intrapresa. Intraprenditore rimanda a entrepreneurship, agli aspetti più dinamici dell'agire imprenditoriale, al suo continuo movimento di superamento dell'esistente e creazione del nuovo, al gusto per l'avventura e al piacere ludico per la sperimentazione, alla tensione corsara e trasgressiva nella ricerca di nuovi spazi di scoperta, alla rottura della routine e del quotidiano.
Nelle piccole imprese del decentramento produttivo, nei circuiti della new economy e del lavoro autonomo vi è una rivalorizzazione degli spiriti animali pre-capitalistici, quando l’impresa mercantile (Origgi, 1997) era assunta a modello di attività che coniugava dinamismo e redditività, depense vitalistica e comportamenti predatori, rapidità e finitezza, episodicità frammentaria e capacità opportunistica di cogliere l’occasione propizia. Nulla a che vedere con l’etica del sacrificio dell’imprenditore weberiano; diligenza e parsimonia, frugalità ed ascetismo. E’ una diversa concezione della prassi e del tempo che si afferma. Da una parte lungimiranza, sobrietà, prudenza, accumulazione lenta, consapevolezza storica dell’irreversibilità delle proprie scelte; dall’altra espressività, eccesso, rapidità, aleatorietà.
In questo contesto la stessa rappresentazione della autonomia e della libertà dell’agire produttivo, declinata nella modernità come autocoscienza riflessiva del fare e dello stare nel mondo, si tramuta nell’apologia dell’illimitatezza del possibile; le pratiche di innovazione si configurano quindi come una dimensione che esclude la prefigurazione progettuale di un’altra realtà e si declinano in opportunistica occasione di affermazione di sé; un carpe diem che valorizza il presente e che esclude la possibilità di un pensiero che renda praticabile mentalmente una connessione tra ciò che è stato e ciò che sarà. L’atteggiamento vitalistico non sopporta pertanto né la memoria storica , elaborata in termini di massificazione ed espropriazione della propria individualità, né tantomeno la memoria individuale, vissuta in senso depressivo come riconoscimento della propria costitutiva dipendenza. La forte centratura sul presente non consente nemmeno al soggetto un pensiero intorno al futuro, che nella società del rischio può evocare il cambiamento distruttivo; l’iper-attivismo onnipotente, con la rimozione del progetto e del futuro, tende a esprimersi come manifestazione compulsiva di un passaggio all’atto produttivo che rimuove la finitezza e il limite.
6. Il lavoro come gioco
Il soggetto destorificato, per il quale gli esiti del proprio agire sono sempre e comunque reversibili [5], non può che connettere nelle proprie rappresentazioni il lavoro al gioco.
Nel pensiero borghese l’attività ludica viene rappresentata come pratica inutile e dispendiosa; per contro del lavoro vengono enfatizzati gli aspetti connessi alla capacità di differimento del desiderio, alle virtù della perseveranza e della moderazione. Nel momento in cui il lavoro imprenditivo si rappresenta come retoricamente segnato da una pulsione libidica e corsara, l'imprenditore diventa gamesman e la capacità di godere ludicamente assume una funzione direttamente produttiva.
Si consideri inoltre come i processi di terziarizzazione e le conseguenti centralità assunte dalle pratiche cognitive di produzione, manipolazione e innovazione di simboli, informazioni e linguaggi tendano a dare un'immagine della soddisfazione lavorativa svincolata dal perseguimento di un risultato utile e remunerativo e si esprimano invece, nelle retoriche post-fordiste, nel piacere dell’ inventare e del creare. Le stesse pratiche innovative si esprimono come capacità del soggetto, non solo e non tanto di eseguire un compito con sufficiente cura e professionalità, quanto piuttosto di mettere in atto qualità creative di produzione del compito stesso; in questo senso le pulsioni autogenerative e anali di creazione da sé del prodotto lavorativo esaltano la caratterizzazione dell'atto produttivo come divertimento e trasgressione.
Anche in un altro senso il lavoro come imprenditività si avvicina allo statuto del gioco; la contingenza, l'imprevedibilità, l'inevitabile provvisorietà della propria condizione producono un depotenziamento dell'esperienza e della sua funzione nei processi di crescita e socializzazione dell'individuo, costringendo ad un pensiero centrato sul presente, sul qui ed ora, alieno a qualsiasi ipotesi di progetto e di sedimentazione dell'esperienza come condizione di accesso al reale e alla maturità psichica.
Benjamin (1997), analizzando le caratteristiche dell’operaio massificato, ne sottolineava la contiguità con la figura simbolica del giocatore; il ritorno costante alle premesse del proprio agire, la ripetitività vuota dei gesti e l’impossibilità di fare tesoro dell’esperienza acquisita. In questo contesto la rappresentazione temporale che si esprime è ciclica, un eterno ritorno ma desacralizzato, routinario; antitetico quindi alla progressiva e cumulativa temporalità dell’ethos borghese e socialista. In questo senso il lavoro, come il gioco, è costretto costantemente a “ricominciare di nuovo” (pag. 115).
Anche nel lavoro imprenditoriale post-fordista, in un contesto di aleatorietà e contingenza, la memoria delle pratiche viene depotenziata nella sua dimensione funzionale alla accumulazione dell’esperienza; ma i tragitti dei soggetti al lavoro, se non presentano la linearità deterministica della freccia di una temporalità progressiva, non hanno nemmeno nessuna contiguità con la perfezione insensata dell’eterno ritorno; i percorsi evocano piuttosto un’indeterminata sequenza zigzagante delle tracce della passione farfallante [6], instabile, metamorfica, ludica del soggetto che mette al lavoro la propria onnipotenza.
Si consuma qui la rivincita del puer contro il senex; contro il titanismo sacrificale di Prometeo emerge la duttilità, astuta e cinica, di Hermes (Formenti, 1986).
Callois (1981) classifica i giochi situandoli lungo un continuum che va dalla gratuità, improvvisazione e aleatorietà della paideia alle caratteristiche di calcolo, combinazione e regolamentazione, tipiche del ludus.
All’interno di questo contesto generale, egli individua quattro tipologie di giochi; in primo luogo viene rilevata la presenza di attività agonistiche (agon) connesse alla ricerca del primato sull'altro, sostenute da pulsioni di volontà di potenza e da comportamenti improntati all'astuzia, alla forza e all'inganno, e riconducibili agli sport agonistici. Una seconda tipologia viene rinvenuta nell'alea, antico nome latino del gioco dei dadi e alla quale vanno ricondotte le attività caratterizzate dalla fortuna e dal caso e sostenute da atteggiamenti superstiziosi.
Un ulteriore area di classificazione è quella alla quale viene dato il nome di mimicry, ossia le attività nelle quali è prevalente il mimetismo, l'assunzione ludica di ruoli, il travestimento , rintracciabili, ad esempio, nella recitazione e nelle pratiche carnevalesche.
Infine, l'ultima area tipologica del gioco ha come oggetto la ricerca dello smarrimento, della distruzione fine a sé stessa, dell'ebbrezza determinata dal dominio della vertigine (ilinx). A questa tipologia afferiscono gli sport estremi, le pratiche acrobatiche, le esperienze delle giostre al luna-park; e ad essa vanno ricondotti, nella fase degenerativa della pulsione ludica, gli atteggiamenti compulsivi e dipendenti dell'assunzione di droghe.
Mi sembra interessante rintracciare nelle rappresentazioni del lavoro post-fordista caratteri che ricorrono nella definizione di agon e mimicry; il primato del lavoro autonomo e imprenditoriale è riconducibile, nelle retoriche diffuse, da una parte, all'esasperazione della competizione e della lotta per l'affermazione di sé; dall'altra, al "marketing di sé stesso", alla necessità cioè di costante presenza nei nodi strategici della rete dove passano le più consistenti possibilità e occasioni e dall'imprescindibile competenza di simulazione e seduzione.
7. Apologia del rischio e crisi della presenza
Negli anni ottanta, l’elevata redditività ha convogliato il risparmio nei titoli del debito pubblico, favorendo processi di crescita della rendita e trasformando la composizione sociale; la proprietà azionaria diffusa è diventata un luogo simbolico di ricomposizione degli interessi e di produzione di un’ideologia proprietaria. Nell’ultimo decennio, in un contesto di crisi economica e di politiche volte alla riduzione del deficit statale, l’apologia del rischio e della scommessa ha accompagnato la crescita di massa del gioco borsistico e della partecipazione a lotterie e concorsi.
Si tratta indubbiamente di esperienze sociali che mettono in campo competenze, aspettative e rappresentazioni differenti; in borsa vi è la presenza di un calcolo razionale e di un progetto di investimento, attraverso, per esempio, la diversificazione del portafoglio azionario o l’affidamento ad un broker, che riconducono tendenzialmente tale pratica sociale ad una dimensione di agire razionale orientato allo scopo. Per contro, il consistente aumento degli investimenti in giochi e lotterie (triplicatosi nel periodo tra il 1994 e il 1999) non può che essere riconducibile all’emergenza e alla diffusione di pratiche sostenute da un pensiero magico e basate sulla sollecitazione del fato e della contingenza. Vi è peraltro da rilevare come la crescita e l’andamento del mercato borsistico abbiano prodotto una significativa emergenza di comportamenti collettivi profondamente segnati da una declinazione ludica e speculativa dell’investimento borsistico. A ciò si aggiungano la velocificazione dei flussi e l’estemporaneità dell’investimento riconducibili alle nuove forme on-line delle pratiche azionarie e ai fenomeni di day-trader.
Da questo punto di vista pertanto, la consistente diffusione del gioco borsistico da una parte e del gioco d’azzardo dall’altro ( video-poker, slot machine, lotterie, concorsi, scommesse più o meno legali, ecc.), rinviano ad elementi comuni della psicologia collettiva, riconducibili alle caratteristiche della soggettività contemporanea già individuate esplorando le retoriche dell’imprenditorializzazione del lavoro; narcisismo onnipotente, piacere ludico della trasgressione, rottura del limite e della routine, apologia del rischio, della sfida e dell’incertezza, destorificazione.
E’ evidente per esempio come il piacere dell’azzardo non sia connesso solo alla possibilità magica e onnipotente (“il denaro che produce denaro”) di moltiplicare i propri guadagni e ad evadere, attraverso l'esperienza ludica, dalla fatica del lavoro [7], ma anche al gusto della sfida e dell'assunzione di rischio di per sé.
La ricerca di sensazioni predatorie e l’emozione di trovarsi sul confine tra la vita e la morte, tra l’agio risolutore e la distruzione di sé, è riconducibile alla condotta ordalica (Le Breton, 1995), laddove la costruzione dell’identità personale e della propria onnipotenza passa attraverso reiterate prove della propria capacità di giocare con il limite e l’estremo; il piacere dell’uscire indenne dalla sfida con il rischio estremo, rinvia, in questo senso, al godimento connesso all’intensa esperienza del sopravvivere.
Nella scommessa impossibile di prevedere un futuro e di governare il caso, nell’illusione di controllare l’incontrollabile, vi è una commistione di ciò che Callois definisce alea e ilinx, tra il padroneggiare il fato che diventa superstizione e il piacere estremo che si tramuta in compulsione estatica. Ed è a questo livello che l'esperienza viene costantemente azzerata dalla reiterazione dell'attività ludica e il rischio diventa gioco simbolico con il limite; Freud (1927), nella sua celebre analisi della vita e dell’opera di Dostoevski, associa simbolicamente la passione per il gioco d'azzardo e l'onanismo, connettendoli alla pulsione parricida. Quando l'investimento libidico ed emozionale non trova limiti all'interno dei quali essere elaborato e dotato di senso, il principio di piacere si contamina con suggestioni mortifere. In questo contesto l'incertezza diventa valore in sé, svincolata da ogni altra possibilità di significazione; la fantasia di una casualità liberamente scelta si tramuta in fato subito e alla libertà dal lavoro si sostituisce la dipendenza estatica. Al ciclo magico e acquisitivo di denaro/gioco/denaro subentra quello additivo di gioco/denaro/gioco. Nel primo caso è evidente che non si tratta di pure pratiche del capitale che frutta interesse, un ciclo accorciato che non richiede mediazioni, D-D1. Nella società del rischio, la magia moltiplicativa passa attraverso l’esperienza ludica. Per contro, il ciclo additivo si presenta come circolazione semplice, manifesta improduttività del processo che alimenta la riproduzione della dimensione compulsiva.
In questo contesto l’esperienza ludica si svincola quindi dalla sua funzione strumentale di rendere praticabile la fuoriuscita dal lavoro oppure da quella pedagogica e progressiva di essere esperienza di accesso al reale, attraverso una crescita della conoscenza di sé e della conseguente capacità di autonomia nel mondo. E’ questa infatti la posta in gioco dei processi di autocomprensione del soggetto, di cura di sé, di costruzione della propria identità, che possono passare anche attraverso rituali di presentificazione simbolica di un’assenza. Mi riferisco alla funzione che assume il rocchetto nel bambino, citato da Freud (1920), laddove la reiterazione dell’atto ludico diventa accesso al linguaggio e al simbolico.
Vista dal vertice della dimensione patologica e compulsiva del rischio e del piacere ludico, la cura di sé si spoglia della sua intrinseca valenza pedagogica e diventa espressione dell’imperativo all’individualismo, della coazione al narcisismo e alla sua declinazione in termini produttivi.
E ciò consente di mettere in evidenza le componenti regressive dell'ideologia del lavoro come gioco. La negazione delle componenti costrittive e limitanti del lavoro, la sua riduzione a divertimento e piacere, la "riattivazione dell'erotismo polimorfo pre-genitale" (Marcuse, 1968, pag. 230) diventano manifestazione compiuta delle fantasie autogenerative e onnipotenti del soggetto nella crisi del fordismo.
Ed è in questo contesto che l’additività dell’esperienza ludica diventa tout court crisi della presenza del soggetto (De Martino, 1975) , crescita esponenziale della sua solitudine nel mondo ed accelerazione del processo di de-storificazione dell’individuo, dando così luogo a comportamenti sociali basati sul cinismo perverso del “non c'è più nulla da fare”, sulle stereotipie comunicative, sul ritiro autistico dall’azione.
8. Il ritorno di Prometeo
In questo senso si evidenzia il sottile e reversibile limite che distingue la condizione onnipotente da quella dipendente; la coppia opposizionale padrone/servo esce dalla rigorosa dimensione dialettica all’interno della quale è stata confinata nella modernità, si sottrae al do ut es delle condizioni ascritte e diventa contraddittoria possibilità nell’esperienza sociale del soggetto.
Nel momento in cui il lavoro si terziarizza e le componenti immateriali assumono dimensioni strategiche nella forma merce, si afferma una caratterizzazione di servizio nell’agire imprenditoriale. Il produttore si pone al servizio del cliente, diventato la figura centrale delle nuove ideologie produttive; quanto questa dimensione sia fortemente retorica è indirettamente desumibile dal ribaltamento semantico che il cliens assume nel post-fordismo. Nell’antica Roma infatti designava colui che si era posto sotto la protezione di un patrono in cambio di servizi quali attestazioni di rispetto, devozione, gratitudine e appoggio politico.
Ciò non toglie che la retorica della centralità del cliente sia diventata una nuova frontiera nei processi identitari del soggetto imprenditoriale, e apra un nuovo ordine di discorso nell’analisi della sua autocoscienza; la componente ludica , espressione di un’onnipotenza vitalistica e tendenzialmente regressiva, si contamina con quella donativa.
Hacker, nel linguaggio dei media, è il neo-luddista informatico; questo termine designava peraltro originariamente i precursori dei linguaggi informatici, cresciuti dentro ai campus universitari americani negli anni sessanta e settanta. Ed è in questo senso che Himanen (2001) lo utilizza, sottolineandone le caratteristiche di spontaneità , informalità e leggerezza che configurano la sua esperienza come critica alla distruttività dell'onnipotente titanismo dell'homo faber e dell’etica protestante e come ricerca di una prassi lavorativa che assuma le caratteristiche di paideia.
Ma al tempo stesso viene messo in evidenza come, nelle pratiche di costante innovazione delle nuove tecnologie di rete, si sperimentino esperienze di cooperazione volontaria e disinteressata, fenomeni di reciprocità e gratuità che si manifestano nella libera circolazione delle informazioni; dentro a questi processi vengono rintracciate le possibilità della costruzione di comunità produttive, liberate dal principio mercantile di equivalenza e fondate su economie di dono.
L’imprenditore diventa sociale, capace di coniugare pulsione ludica e responsabilità, individualismo e socialità, iper-laboriosità ed etica libertaria.
Sono evidenti le contiguità di queste rappresentazioni con quelle maturate in altri ambiti produttivi, oggetto di una crescente attenzione della ricerca sociale, tesa alla messa a tema dei percorsi di innovazione dei processi e delle pratiche sociali; mi riferisco qui alle esperienze riconducibili a quel vasto ed eterogeneo territorio, provvisoriamente denominato terzo settore.
Qui le retoriche dell’essere a servizio, la concezione donativa e ludica delle pratiche, la torsione imprenditoriale che assumono le prassi lavorative, trovano modo di manifestarsi all’interno di un altro paradigma del lavoro post-fordista: il lavoro di cura.
Ma è in questo contesto che è possibile rintracciare l’esistenza sotto traccia di un ritorno nelle rappresentazioni del lavoro; laddove si ideologizza l’atto donativo, svincolato dalle prassi di reciprocità in quanto pratica nei confronti del totalmente altro da sé (Cerri, 2001), è una concezione sacrificale del lavoro che si afferma. Prometeo ritorna a sfidare gli dei e, inevitabilmente, ad essere incatenato alla rupe caucasica; in attesa della sua liberazione.
Bibliografia
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[1] Ciò che viene rimosso in queste retoriche del lavoro è l’ineliminabile compresenza nel suo statuto di costrizione e libertà, pena e generatività, dipendenza e autonomia, distruzione e riparazione, servitù e creatività. Le retoriche dell’ opus rimuovono la tragica presenza del labos.
[2] La crescita di forme di lavoro servile, oltre alle variabili sociali ed economiche, può essere ricondotta a queste dinamiche intra-psichiche; l’ideologia dell’asservimento all’altro diventa un luogo all’interno del quale ricostruire uno stato di beatitudine originaria dove siano bandite la complessità e l’incertezza.
[3] La coazione all’iperlaboriosità (workaholism) si configura come avida ricerca di senso e costruzione di identità, tendenziale saldatura tra personalità e orientamento professionale; ma anche come manifestazione reattiva ad un contesto ansiogeno di profonda insicurezza e incertezza.
[4] Meltzer e Harris (1986) definiscono così un processo di apprendimento basato sul furto del sapere e connesso ad un contesto di isolamento sociale
[5] E’ interessante a questo riguardo, notare come il tema della responsabilità sociale, nodo strategico delle politiche di rilegittimazione dell’impresa nel post-fordismo, conduca, in uno dei suoi numerosi approcci, ad un’ipotesi, minimalista e debole, di un ritorno alle virtù dell’onestà, lealtà ed equità dell’imprenditore weberiano.
[6] Come è noto, è questa una delle passioni che Fourier cerca di valorizzare nella sua ipotesi falansteriana; è altrettanto nota la stroncatura marxiana, laddove evidenzia che “un lavoro realmente libero … è la cosa maledettamente più seria di questo mondo” (Marx, 1976, pag. 278)
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