Home | La rivista | Ricerca | Autori | Approfondimenti | I nostri link | Iniziative | Forum | Servizi | Chi siamo

 

Saggi

Alle radici di Forza Italia

 di Michele De Gregorio

 

 

 

   Forza Italia rappresenta l’elemento di maggiore novità nel quadro politico tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, per la presenza di fattori difficilmente assimilabili con la cultura e le capacità di comprensione di quegli anni. Da più parti è stata infatti sottolineata l’inadeguatezza della reazione degli altri partiti alla “discesa in campo” del Cavaliere, generalmente improntata a sottovalutazione o pesante ironia. C’è qualcosa di vero nelle parole di Gianni Baget Bozzo nell’introduzione al documento “Perché Forza Italia può vincere le elezioni e governare” (1999): “Dal ’94 in poi Forza Italia è apparsa alla cultura politica italiana , (quella dei giornali, dell’Università, dei politologi, degli uffici studi) una sfida alle regole della loro razionalità: qualcosa che non doveva esistere perché essi non la potevano pensare. La difficoltà maggiore che Forza Italia ha incontrato nell’opinione pubblica italiana fu dovuta al fatto che essa è incomprensibile alla cultura politica italiana”.

   Sta di fatto che mentre  un’altra nuova formazione, come la Lega, è stata studiata in tempi molto più brevi e più ampiamente, nei confronti di Forza Italia tra gli studiosi si è maggiormente diffusa la tendenza a considerare provvisorio lo stato attuale. Era considerata infatti dai più inevitabile per la nuova formazione politica la strutturazione in forme autosufficienti, più indipendenti dall’onnipresente leader, che sole potessero renderne stabili e sicure negli anni a venire le capacità di intervento.

    Soltanto dopo l’approvazione dello statuto da parte del congresso nazionale del 16-18 aprile ’98 e la vittoria nelle elezioni politiche del maggio 2001, i tentativi di capire Forza Italia hanno portato al centro dell’analisi ciò che essa è, più di ciò che dovrà essere.  

   Il presente lavoro nasce in definitiva dal bisogno, in un momento in cui molte iniziative legislative di Berlusconi e del suo partito sembrano scuotere il quadro politico e istituzionale, di cominciare a riandare in qualche modo alle origini di Forza Italia per contribuire a costruire di questa realtà un’immagine scevra da ogni sottovalutazione, e insieme da allarme nascente dall’emergenza del quotidiano.

   In questo nostro viaggio intorno alle “radici” di Forza Italia, parziale certamente e non esauriente, cercheremo di confrontarci non solo con gli aspetti organizzativi, ma inizialmente anche con le basi ideali del partito, cui peraltro esso non si può dire abbia dedicato, nel suo complesso, molte energie.   

   

1. Le basi ideali

1.1. Il liberalismo popolare

 

    “Potremmo definirlo un partito liberale e popolare nello stesso tempo, due categorie e due definizioni che nella storia politica italiana sono sempre state non soltanto divergenti, ma contraddittorie. Il liberalismo nella storia italiana è stato appannaggio di una minoranza, di una élite numericamente ristretta. Questa minoranza, che fu classe dirigente dall’unità nazionale fino all’avvento del fascismo, perse nel dopoguerra sempre più ruolo e prestigio…Lo iato che storicamente divise lo Stato liberale…dalle masse popolari non è mai stato colmato…Oggi per la prima volta in Italia i concetti liberali, lo Stato di diritto, l’economia di mercato, il garantismo sono principi ispiratori di un grande partito di popolo”. E’ Claudio Scajola che scrive nel documento “Radici antiche, partito nuovo” (da “FL”, Febbraio-marzo 2001).

   Lo stesso Berlusconi in numerosi interventi aveva espresso analoghi concetti. Nel discorso di apertura al Primo Congresso Nazionale di Milano il 16 aprile ’98 aveva definito Forza Italia “…un partito liberale ma non elitario, anzi un partito liberaldemocratico popolare”; e “La cultura politica di Forza Italia. Il liberalismo popolare” era intitolato un documento redatto, con il suo stile, da Gianni Baget Bozzo. (Struttura Formazione di Forza Italia. Roma).

   E d’altra parte la nuova formazione politica, negli interventi del leader o di altri esponenti a tutti i livelli, non perde occasione per esaltare le regole del mercato e dell’iniziativa privata, improntando a queste linee anche la propria iniziativa legislativa (in verità non senza grosse contraddizioni). Essa definisce dunque la propria politica col termine di liberalismo. Ma l’aggettivo “popolare” come e perché nasce? E qual è la sua coerenza con il sostantivo?

   Se il concetto di liberalismo (come qualunque altro) è modificato o integrato, si può presupporre  quanto meno una sua insufficienza che si sente il bisogno di evidenziare. La DC desumeva, ad esempio, non dall’economia o dalla politica ma dalla morale cristiana il concetto di solidarietà, proprio al fine di correggere lo strutturale egocentrismo da cui il mercato è governato, pur considerando quest’ultimo la migliore organizzazione auspicabile per i rapporti economici. Le politiche keynesiane, a loro volta, non sono certo mirate a sovvertire il mercato capitalistico, piuttosto a rafforzarlo correggendone intime contraddizioni.

    L’aggettivo popolare usato da F.I. non è certo pleonastico, ma vuol indicare a ceti sociali abbastanza identificabili linee politiche dalla direzione sufficientemente chiara. Le ipotesi sono comunque due: o si parte dal presupposto che il mercato è, in dati casi e circostanze, contrario agli interessi e alle aspettative popolari, e bisogna saper indicare come e quando ciò avvenga; o, se si trascura quest’analisi, non si sfugge al sospetto di voler condurre un’operazione culturale-politica abbastanza approssimata. Bisognerebbe avere, altrimenti, la capacità e la volontà di dire ai ceti popolari che  mercato e liberalismo (senza aggettivi)  sono sempre e comunque la cosa migliore per essi. Con notevoli pericoli, in verità, per il livello dei consensi. 

   Ciò premesso, per comprendere sufficientemente le posizioni di F. I. a riguardo non sono molto utili i discorsi di Berlusconi, generalmente rivolti ad altri obiettivi che non l’analisi teorica; né quelli citati di Scajola e Baget Bozzo, utili per cogliere i concetti nella loro essenza, ma troppo sintetici e con fini tra didascalici e propagandistici. Pare più opportuno forse rivolgersi a Giuliano Urbani che di F. I. è considerato, in qualche modo, l’ideologo.

 

1.2. Urbani e il “Buongoverno”

 

   Va dato atto, e volentieri, alla laicità del fondatore dell’ Associazione per il Buongoverno di avere sempre evitato ogni aprioristica ed ideologica difesa del liberismo. Immediatamente dopo aver ribadito, però, la sua formazione liberale in maniera coerente e chiara, egli sente il bisogno di fare qualche affermazione di diverso sapore che attenua il liberalismo stesso: “Attenzione: non si confonda questo auspicio di «restituzione dello stato ai cittadini» con la solita caricatura del ritorno al mercato, al liberismo e quant’altri fantocci polemici del caso…per almeno due distinti motivi. In primo luogo, perché la valorizzazione del mercato in un regime costituzionale fa molto di più che generare ricchezza. Coltiva anche precisi principi morali, proprio nel momento in cui il successo negli affari richiede e comporta precise condizioni di buona reputazione negli altri: fiducia, rispetto, capacità di mantenere le promesse, affidabilità…Hayek le ha chiamate, non a caso, le regole della buona condotta civile” (Urbani, 1996).

   Ma qui è opportuno fermarci per qualche riflessione: d’accordo con l’autore che nessun  ritorno ad alcun fantoccio possa interessare chi vive una cultura laica e con essa vuole interpretare il reale. E’ proprio in base ad essa, però, che il mondo degli affari, come quello del diritto, è dai più considerato il mondo in cui è bene partire dal presupposto della malafede dei soggetti. Così si faranno buoni affari e buone leggi. Le regole di Hayek si può dire che elevino a buona condotta civile la leale e costante coerenza a tale presupposto, con il quale in ogni caso non sono in contrasto. Altra cosa sarebbe invece, per il mercato, “coltivare precisi principi morali”! Chi entrasse nel mondo degli affari con un’ottica del genere o con tali attese sarebbe destinato a leggere ben presto il suo nome nell’albo dei falliti…

   Ma a questo argomento attenuatore dell’impostazione liberale nemmeno Urbani sembra poi dare molta importanza. Di più sembra darne invece ad un altro, se è vero che prosegue affermando: “Ma poi, in secondo e fondamentalissimo luogo, questa restituzione dello stato ai cittadini poggia sulla valorizzazione di quello spirito comunitario, di quella assunzione di responsabilità verso i diritti degli altri, dai quali dipende qualsiasi forma di autentica «libertà politica». Che, non dimentichiamolo, non si può mai esaurire nelle richieste di maggiori opportunità di scelte per i singoli individui, se non nell’ambito e nei limiti della correlativa compatibilità con le analoghe libertà di scelta degli altri cittadini” (ibidem). Sono parole chiarissime, che esprimono però con precisione e sinteticità proprio i compiti dello Stato nella concezione smithiana, le regole del rapporto tra pubblico e privato secondo il padre del liberismo…

   E non è qui assolutamente il caso di rispolverare fantocci polemici di alcun genere. E’ ovviamente e del tutto lecito (e mai come oggi tale convinzione è stata tanto diffusa) avere piena fiducia nella concorrenza, nel mercato, nell’iniziativa privata; insomma: nel liberismo. Bisogna dirlo, però, con sufficiente chiarezza, senza provare a negarlo dopo averlo affermato, magari sulla base di poco coerenti ma accattivanti aggettivi. Anche per non dare l’impressione di un certo pudore delle proprie idee.

   Si può comunque prendere atto con compiacimento che  mai, almeno nel testo  esaminato, è stata usata da Urbani l’espressione “liberalismo popolare”.

 La stessa espressione nemmeno appare usata nel documento “Alla ricerca del Buongoverno-Appello per la costruzione di un’Italia vincente”, firmato dallo stesso Urbani nel ’93, insieme a dodici altri nomi in prevalenza appartenenti al mondo della grande imprenditoria.

   L’autore, anche qui, pone con coraggio un tema normalmente considerato in controtendenza rispetto alle ispirazioni liberiste dell’Associazione stessa: la solidarietà. “La solidarietà è un valore essenziale della società italiana. Esso deve quindi venire adeguatamente recepito e protetto dalle istituzioni pubbliche…Uno degli obiettivi primari della politica sociale deve essere quello di conciliare mercato ed assistenza…Invece di fornire direttamente i servizi assistenziali…è perfettamente concepibile che lo Stato garantisca ai cittadini più deboli delle «dotazioni» (buoni d’acquisto) che essi possono poi spendere in un mercato concorrenziale”.

   Urbani e Forza Italia, a quanto pare, non riescono proprio ad accettare alcun elemento che, come il welfare, comporti il rischio di porsi come correttore di una qualche distorsione del mercato. Essi preferiscono invece il ricorso ad un intervento che nasca come all’ esterno di esso: rispunta in tal modo proprio l’ assistenza, tanto praticata e deprecata nella prima repubblica, senza peraltro che si riesca a far chiarezza sul vero perché dell’intervento assistenziale stesso, sui suoi fini reali, in mancanza di individuate e chiare carenze del mercato.

   Vediamo comunque più da vicino come dovrebbe funzionare la nuova solidarietà, che si concretizza nei “buoni d’acquisto”: “E’ evidente che della fine del monopolio dello Stato in campo assistenziale beneficerebbero non soltanto i più deboli, ma anche i ceti medi ed alti. Avendo pagato la loro «quota di solidarietà» attraverso le imposte, giustizia ed efficienza richiedono che a costoro sia lasciata la libertà di scegliersi il tipo di assistenza e di previdenza che preferiscono” (ibidem).

    C’è da rilevare intanto una contraddizione con quanto affermato nel brano precedentemente citato, nel quale i “buoni d’acquisto” erano previsti per i cittadini “più deboli”. Questa assistenza per tutti, in ogni caso, anche per i ceti benestanti già perfettamente in grado di effettuare le scelte che vogliono, dovrebbe pur trovare una sua accettabile giustificazione per gli oneri non indifferenti che accolla al bilancio dello Stato (pensiamo solo ai “buoni d’acquisto” per la scuola, la sanità…). E’ prassi abbastanza normale del welfare offrire a tutti i cittadini servizi organizzati dallo Stato; ma assistenza!…Saremmo di fronte ad uno spreco bello e buono! Per non dire che è inoltre almeno problematico usare in tale maniera il termine di solidarietà che, socialmente, non può essere concepita che come passaggio di risorse da ceti più forti a ceti più deboli.

   Il liberalismo corretto di Forza Italia si rivela, a quanto pare, una creatura dai lineamenti abbastanza contorti e scarsamente convincenti. Urbani comunque si definisce sempre, ed è convinto di essere, un vero liberale. Magari assistenziale, o anche solidarista, ma un vero liberale.

   Forza Italia ha ottenuto facilmente consensi tra piccoli imprenditori, commercianti, professionisti e ceti medi comunque orfani di DC e PSI. Ha conseguito, dopo qualche difficoltà, abbastanza stabilmente l’appoggio di larghissima parte della grande imprenditoria e della stessa Confindustria. Ha subito individuato però anche in casalinghe, disoccupati del Mezzogiorno, lavoratori del nord disamorati delle organizzazioni tradizionali di riferimento, un bacino di utenza di non facile penetrazione ma essenziale ed a cui dedicare ogni sforzo politico e propagandistico. L’ esaltazione del liberismo e del mercato da una parte; le sue attenuazioni, le promesse come “il milione di posti di lavoro” e lo stesso linguaggio politico usato  dall’altro, delimitano gli ampi confini dei punti di riferimento sociali del partito.

   Le basi ideali elaborate, sia nelle forme più grossolane del “liberalismo popolare”, sia in quelle un po’ più raffinate ricercanti correzioni in solidarietà e valori come quelle del professor Urbani, non riescono comunque a celare una falsa coscienza di fondo nascente dall’incapacità di conciliare interessi e culture di ceti popolari con scelte reali che vanno in direzione opposta, secondo linee che si rivelano funzionali ad un moderno populismo.

    Manca insomma la forza ideale della Chiesa cattolica, che dall’esterno ed attingendo ad un patrimonio di valori morali, forniva alla DC il bagaglio di interclassismo e solidarismo necessari a delineare un quadro di coerenze tra l’esigenza della centralità del mercato, e insieme della correzione delle distorsioni ad essa connaturate.

    Tutt’altra cosa è Forza Italia che  nel DNA , nelle parole con più immediatezza usate, nei corsi di formazione per candidati che organizza, reca il culto dell’individuo, del mercato, del successo sociale; e nella figura stessa del suo leader offre in tale direzione un’immagine accattivante ed un modello da imitare. Salvo poi ad affermare di essere il partito del “liberalismo popolare”. Ed anche un partito “cattolico”, pur se aggiungendo “ ma non confessionale” (Berlusconi. Citata relazione al Congresso di Milano).

 

1.3. Un partito cattolico

 

   “Ci rifacciamo alla tradizione del Partito Popolare di Sturzo, non a quella dell’unità dei cattolici propria della DC” scrive Baget Bozzo nel citato “La cultura politica.…”. E prosegue: “ F. I. si rifà alla grande tradizione cattolico liberale di Pellico, Tommaseo, Rosmini, Manzoni, Gioberti…alla dottrina del giusnaturalismo occidentale e guarda sia alla tradizione del pensiero liberale inglese e americano, sia alle encicliche sociali”. 

   Non è proprio sicuro, in verità, che andare a collocare alla rinfusa nel ripostiglio del liberismo tutte queste cose costituisca titolo per dirsi partito cattolico. Resta il fatto che quello tra Forza Italia e la Chiesa somiglia oggi piuttosto ad un rapporto di affari che ad altro (in cui comunque gli argomenti proposti sono stati considerati più convincenti di quelli avanzati dal centro- sinistra). 

   Ma al di sopra di ogni altra considerazione, pare ovvio che il requisito primo per cui un partito possa dirsi cattolico, confessionale o no, è che nelle sue strutture, tra i suoi uomini si senta il bisogno di discutere, ci si confronti sui valori e la cultura cristiana. Il che è in maniera evidente l’ultima cosa che preoccupa dirigenti e iscritti di Forza Italia. Ma darlo ad intendere è comunque tanto utile per la conquista del consenso di ceti medi e non solo…

 

2. La nascita del partito. Le forme organizzative

 

2.1. Come nasce la nuova formazione politica

   L’opinione pubblica è certamente informata del fatto che Forza Italia, da un punto di vista economico e delle strutture,  nasce dai capitali, dalle persone e dalle aziende proprietà di Silvio Berlusconi.  E’ però molto probabile che non  abbia, nel complesso, la chiara percezione di come e quanto ciò sia vero.

    E’ molto utile rendersi conto da vicino delle dimensioni del fenomeno. La sede stessa dell’Associazione Nazionale dei Club di F. I. in via Isonzo 25 a Milano, ed altre  ancora più costose  a Roma, sono state acquisite attraverso interventi più o meno indiretti della Fininvest. 

   Analogo discorso per la Diakron, agenzia rilevatrice di sondaggi per Forza Italia. “Alla neonata Diakron…Publitalia garantisce subito un minimo di 500 milioni per interviste telefoniche sulla pubblicità, mentre altri 300 milioni sono offerti da Rti (sempre Fininvest) per sondaggi sui programmi televisivi, dopodiché anche Standa e Mondadori prenotano commissioni, fino al bilancio previsto nel ’94 con…un fatturato di quasi 20 miliardi…La società di sondaggi ottiene dalla Fininvest a un prezzo quasi simbolico (100 milioni) una società chiamata Audio 5 che gestisce tutte le linee telefoniche 144 create dall’azienda: quella con cui si gioca al Quizzy di Mike Bongiorno…In pratica quando uno spettatore chiama il Tg4 per dire la sua opinione sulle case chiuse o sulle pensioni, senza saperlo finanzia Forza Italia.  Dall’Audio 5 la Diakron incassa alla fine del ’94 circa 5 miliardi” (Gilioli 1994, p. 31). Interrogati sui loro rapporti con Berlusconi, Pilo e Valducci formalmente titolari dell’azienda rispondono indignati che la Diakron è loro proprietà, e che Fininvest e Forza Italia sono semplici clienti.

    Proseguiamo, lasciando parlare gli stessi protagonisti: “Signori, la nostra missione è compiuta. In pochi mesi abbiamo creato un partito, costruito un’alleanza e assunto il Governo. Ora dobbiamo ritornare alla nostra azienda”. Con queste parole Marcello Dell’Utri ha riassunto i risultati della seconda componente (dopo il leader, ndr) di Forza Italia, il Gruppo Fininvest” (“La Stampa” del 9 settembre ’94). Si diceva finalmente a chiare lettere, e da fonte tanto autorevole, ciò che dagli uomini di F. I. era stato fino ad allora sempre  negato. Ancora, il 1 febbraio 2002, sul Corriere della Sera, lo stesso Dell’Utri così si esprime, riportato da Barbara Jerkov: “Dicono che siamo nati come un partito-azienda…è verissimo e non c’è proprio nulla di male…”

   Non è nei fini del presente lavoro continuare sistematicamente in questa direzione. Anche perché utilissime pubblicazioni, come quella citata di Gilioli, sono disponibili per chi volesse conoscere ampiamente e dall’interno la nascita e la formazione di F. I. Anche Carmen Golia, nonostante l’ambito territoriale piemontese e l’ottica un po’ partecipante, comunque serena, ha dato apprezzabili contributi. 

   Ella ci fornisce un brano quasi di colore sul coinvolgimento dei più alti dirigenti Fininvest , utile anche per riflettere sui loro rapporti con  il capo.  Si cercano candidati in Piemonte. E’ lo stesso Dell’Utri che racconta: “La mia automobile diventa il mio ufficio, la mia casa, il mio dormitorio, tutto, perché da Domodossola a Cuneo il territorio è enorme. Anche se mi prefiggevo di andare a dormire nella località dove avrei avuto il primo appuntamento il mattino successivo, succedeva che ero talmente stanco che non ci arrivavo mai e finiva così che strada facendo mi addormentavo in macchina, per poi andarmi a cercare il primo albergo che capitava” (Golia 1997, pag. 75).

   Il coinvolgimento dei dirigenti è pieno dunque, direi entusiasta. Ancora Golia: “Al mio stupore per la facilità con la quale…Berlusconi abbia potuto dirottare in questa nuova impresa persone che erano state assunte da lui per tutt’altre mansioni, mi sento ribadire che non vi è stata obiezione alcuna da parte di nessuno per una questione di grande spirito di corpo, di lealtà, che regna all’interno del Gruppo Fininvest, per cui ogni iniziativa del <capo> viene fatta devotamente propria” (Ibidem. pag. 75-76).

   I due lavori citati descrivono la proposta di partecipazione alla politica attiva esattamente alla stessa maniera. Sentiamo Gilioli: “A tutti è assicurato il rientro in Fininvest nel caso l’avventura politica non decolli o nell’ipotesi che il dipendente non si trovi bene nel suo nuovo ruolo. A molti viene promesso un piccolo aumento di stipendio, nell’ordine del 10-15 %, con il passaggio alla nuova società. Ad altri, più semplicemente, si prospettano possibilità di carriera nel gruppo dopo la parentesi politica. Una stretta di mano e una pacca sulle spalle a chi accetta, nessun tipo di ritorsione nei confronti di chi dice no” (cit. p. 15).

   E’ una sorta di logica “amico – nemico”, che caratterizza il linguaggio politico di Berlusconi. Essa investe però, evidentemente, anche il rapporto di collaborazione e umano. Fin quando sei amico la tua fedeltà deve essere personale e assoluta. Anche se rifiuti la proposta i rapporti restano lealmente immutati ai livelli esistenti. Diventi nemico se critichi, se “remi contro”. Allora il possesso pieno della struttura è una garanzia per il capo di poter eliminare in ogni momento il dissenziente.

 

La polemica con Bobbio

 

   E con gli avversari, nella sostanza, non si discute. Norberto Bobbio è certamente una grande personalità, ma avversaria. Ha una considerevole influenza su una parte dell’ opinione pubblica colta, ma avversaria. C’è comunque la ragionevole certezza che la maggioranza dell’ opinione pubblica nel suo complesso, e la stragrande maggioranza degli elettori di F. I., non ne siano gran che influenzati. La sua ferma richiesta (v. La Stampa del 3 luglio ‘94) se il principale partito di governo sia una forza democraticamente organizzata, abbia uno statuto, finanziamenti chiari, non sembra generare in Berlusconi la minima preoccupazione di affrontare un dibattito. La risposta è chiara e perentoria: “Caro direttore, Forza Italia è…come tutti sanno (il corsivo è del redattore), un movimento politico fondato all’inizio dell’anno e registrato secondo le norme di legge…Ha uno statuto, legalmente registrato, ha un’assemblea degli eletti del movimento, come base politica coordinata insieme con i club e altre associazioni territoriali, da un comitato esecutivo” (La Stampa, 5 luglio ’94).

   Il settimanale “L’Europeo” parte alla ricerca dello statuto motivo del contendere, ma i risultati sono scoraggianti: non ne esiste copia e non se ne ha notizia né negli uffici del movimento politico in via dell’Umiltà a Roma, né presso i gruppi parlamentari, né presso la sede nazionale dei club in viale Isonzo a Milano o in qualcuno dei club nel territorio nazionale.

   Il notaio Colistra finalmente ne tira fuori ben tre stesure,  le ultime due delle quali  modificate secondo modalità difformi da quelle previste nella prima. E la lettura conferma, inoltre, le serie preoccupazioni di Bobbio: né club, né iscritti di base hanno alcun potere nel determinare le politiche o scegliere i dirigenti. Il coordinatore dei club Angelo Codignoni non è stato eletto de nessuno ma nominato da Berlusconi, e non sono previste modalità di rimozione. Il comitato di presidenza, nella sua ultima versione, è composto da dieci membri di cui due (i presidenti dei gruppi parlamentari) nominati in base allo statuto, mentre gli altri otto sono stati nominati da Berlusconi. Il quale è stato eletto presidente dal comitato stesso!… Non si stabiliscono inoltre limiti di tempo per la carica del leader: si rimanda ad appositi regolamenti, inesistenti. 

   La risposta a Bobbio non tiene, come già si diceva, in alcun conto la  necessità di un confronto anche parziale con quello che normalmente sarebbe considerato l’interlocutore. Bobbio, e quanti come lui continuano a tessere ragionamenti, nel dialogo è come non esistessero. Il saldo possesso degli strumenti di comunicazione consente di potersi preoccupare esclusivamente dell’elettore, il quale spesso poco sa, e meno vuole documentarsi nei particolari. Ed al quale, in contrapposizione ad un’affermazione in un senso, se ne offre un’altra in senso contrario, chiaramente e perentoriamente espressa e ripetuta. Poco importa se meno vera: in democrazia fino al voto le opinioni si equivalgono; e sui media il discorso, solitamente, finisce ben presto per calo di interesse…

   La conseguenza di tutto ciò è che la questione viene poi collocata in una specie di limbo in cui nessuno ha ragione e nessuno ha torto.  Cui va aggiunto il senso di impotenza di chi ha ragione, che comincia a vivere una sorta di crisi di fiducia in se stesso, prima ancora che di credibilità nei confronti dei propri stessi sostenitori.

   Ma se con il reale interlocutore– avversario, fosse anche Bobbio, il confronto di opinioni  non c’è; se all’elettore si regala più o meno uno spot, magari condito di un sorriso; se all’ amico si chiede fedeltà, quali saranno gli spazi della discussione, del confronto di idee, sale della democrazia?…

 

2.2. Pilo e la Diakron

 

    Avevamo lasciato Pilo e la Diakron da qualche parte. Anche la loro vicenda è significativa dell’impronta del nuovo partito al suo nascere.

   “Lo scopo della Diakron è fin dall’inizio duplice: da un lato produrre sondaggi veri, cioè con domande ben impostate e campioni scelti scientificamente, in modo da far conoscere a Berlusconi le tendenze dell’elettorato e consentirgli di comportarsi di conseguenza…C’è poi il secondo fine della Diakron, quello meno trasparente, che si fonda sul concetto noto agli studiosi come band wagoning, altrimenti detto <salire sul carro del vincitore>. Il principio è questo: c’è nel consumatore (o elettore che sia) una tendenza naturale a seguire e a far proprio quello che emerge come fenomeno…in crescita, abbandonando quello che si palesa come fenomeno…al tramonto. Quindi se si butta sul mercato un marchio e si riesce a far credere in giro che si tratta della nuova grande moda…ecco che questo marchio suscita un reale interesse e finisce per esplodere veramente come fenomeno in ascesa” (Gilioli op.cit., 32-33).

    Di conseguenza: i primi sondaggi danno pericolosamente il Paese in mano alle sinistre. Dopo la “discesa in campo” le simpatie per Berlusconi salgono. Nelle scuole medie i sondaggi danno il Cavaliere più popolare di Gesù Cristo. Alla fine Forza Italia è al 35%.

   I responsabili dei più qualificati Istituti di sondaggi, di ogni tendenza politica, attaccano risentiti l’opera di disinformazione, inquinamento e propaganda della Diakron che, il 6 ottobre del ’94, viene espulsa dall’ Esomar (l’associazione internazionale che raggruppa oltre tremila Istituti di ricerca). Può forse sembrare un episodio di secondaria importanza, e forse tale deve essere apparso anche ai partiti del centrosinistra che non lo hanno abbastanza sottolineato agli occhi dell’opinione pubblica. Perdendo però un ottimo argomento di propaganda, utile a fissare certe verità nei confronti degli elettori.

   Forza Italia, invece del previsto 35%, supera appena il 20%: una sconfessione per ogni sondaggista. Pilo e Valducci, invece, sono eletti in Parlamento.

   Il band wagoning,dunque, ha funzionato.Ed hanno funzionato anche i sondaggi, quelli buoni, non propagandati quando non conviene: non è indifferente avere o non avere ogni giorno sul proprio tavolo le risposte ad un questionario scientificamente organizzato e riguardante tutte le più attuali questioni sul tappeto del dibattito politico. Durante il periodo elettorale sono somministrate quotidianamente a cinquecento persone dalle dodici alle quindici domande. Il lavoro è organizzato da ventitré esperti di ricerche di mercato e una quarantina di altri professionisti del settore.  

 

2.3. Club e gruppi parlamentari

 

   La struttura che abbiamo vista nascere nelle pagine precedenti, definita da Marco Maraffi “apparato personale-patrimoniale” (Maraffi 1995, 249) ha superato dunque con la vittoria la prova delle politiche del ’94, sorprendendo molti osservatori e partecipanti. Forti tensioni nascono al suo interno a due livelli: i club, e i gruppi parlamentari.

   Dalle stesure dello statuto nelle fasi iniziali, numerose e poco attuate, è più facile capire ciò che i club non sono che ciò che sono. Essi possono affiliarsi al movimento politico (è accuratamente evitato il termine partito), propagandare le idee e i programmi liberali, svolgere attività culturali; nessuna regola è prevista per la loro stessa costituzione; niente praticamente è detto sui poteri o sul ruolo da svolgere nel movimento, sulle capacità di influenzarne le scelte politiche o le attribuzioni di incarichi interni. Verrebbe da dire che sono elementi di movimento puro, ovviamente nell’ambito delle linee di Forza Italia, per realizzare il massimo di diffusione sul territorio dando vita insieme al minimo di struttura organizzata e burocratica. Essi non costituiscono nemmeno parte integrante della stessa organizzazione di F. I., cui possono “aderire”.

   Il loro sviluppo è rapido, grazie al lavoro degli uomini di Programma Italia (gruppo Fininvest), ed il loro numero elevato, anche se le cifre fornite alquanto contraddittorie. Il risultato della mobilitazione per le politiche del ’94 è sicuramente positivo. Dopo le elezioni, tuttavia, “i club rappresentano seri svantaggi: non sono molto affidabili, anzi potrebbero creare dei problemi; non sono facilmente controllabili; rivendicano autonomia; vogliono contare politicamente; reclamano il loro <spazio> (soprattutto in materia di candidature)…Per l’assenza di democrazia interna si sono costituiti gruppi di club dissidenti e vengono minacciate scissioni” (Maraffi op.cit., 253).

   Il “movimento politico” reagisce con energia. Qualche esempio ne dà Patrick McCarthy: “La protesta da parte dei presidenti dei club di Treviso è emblematica: essi  <riaffermano vigorosamente il loro totale rifiuto a consentire che i club vengano trasformati in meri strumenti elettorali da utilizzare, quando necessario, dai candidati imposti dalla leadership, senza nessuna attenzione alle procedure democratiche>…La più coraggiosa tra le rivolte dei club fu quella capitanata da Maurizio De Caro, che portò fuori da Forza Italia un gruppo di club di Milano nel maggio 1994 e riunì i membri in una organizzazione chiamata <Libera Italia>. La leadership di Forza Italia lo espulse come ex sostenitore di Craxi” (McCarthy 1995, 68).

Ai membri attivi nei club molto è stato chiesto e nulla o quasi è stato dato. Ai parlamentari meno, in fondo, è stato chiesto, e qualcosa è stato pur dato. Tra loro meno difficile è stato dunque il controllo da parte del movimento politico, anche se non pochi sono stati i  problemi, considerata peraltro la delicatezza della funzione. La disciplina parlamentare potrà essere presto considerata un risultato pienamente conseguito.

    Un considerevole numero di deputati e senatori forzisti eletti nel ’94 (un po’ meno nel ’96) è privo di precedenti esperienze politiche; una parte invece ha alle spalle numerosi incarichi espletati per lo più nella DC e nel PSI. Essi sono  generalmente espressione, comunque, di esperienze di non piccolo rilievo nel campo della produzione o delle professioni. Non meraviglia quindi una diffusa intolleranza, nei primi tempi, verso il forte accentramento delle decisioni e lo scarso rilievo dato ai parlamentari come singoli e come gruppi. Gli episodi sono stati molto numerosi, ed hanno arricchito le cronache politiche di quegli anni. Le linee di contestazione riguardano innanzitutto il ruolo preponderante degli uomini provenienti dall’apparato Fininvest, che costituiscono i destinatari degli incarichi di maggior rilievo; con la conseguente richiesta di uno spazio reale di autonomia dei gruppi parlamentari, a garanzia di articolazione e democrazia interna.

   Anche nei confronti dei parlamentari, come dei club e di ogni altro, il comportamento del vertice fu  ispirato alle regole del rapporto “amico – nemico”. Alla Convention di Fiuggi l’11 aprile ’94, tutti i giornali furono riempiti dalle violente critiche mosse da Tiziana Parenti contro il clan Fininvest ed in particolare contro Marcello Dell’Utri, onnipresente e vero numero due pur senza avere ufficialmente alcuna carica nel partito. Perfino un circolo di tennis si dà uno statuto e delle regole  per eleggere il gruppo dirigente: questa è la sostanza delle proteste della Parenti.

   “Titti la rossa”, almeno temporaneamente, rimane però nel novero degli “amici” (grazie anche all’offerta della presidenza della commissione antimafia). Una progressiva emarginazione da ogni incarico di rilievo conosce invece, per le sue analoghe critiche, uno dei primi e più stretti collaboratori di Berlusconi, Luigi Caligaris, che pur è tra i cinque firmatari del primo statuto registrato presso il notaio Colistra.

 

2.4. Le prime forme organizzative

 

Tra le elezioni politiche del ’94 e quelle del ’96, cadono anche le elezioni europee del 95 e vari importanti turni di amministrative. Il tutto costituisce un banco di prova non indifferente per le strutture organizzative del nuovo partito e, soprattutto alla luce dei risultati non sempre positivi,  nasce un dibattito interno anche vivace sulla loro capacità di reggere nei confronti dei compiti che la situazione  impone, e sulla individuazione di forme più adeguate di organizzazione per il partito.

   Ci conviene su questo argomento procedere per rapide sintesi e fermandoci solo sui momenti fondamentali, anche perché vari lavori, da una parte, ne hanno ricostruito gli sviluppi in maniera dettagliata; dall’altra, le decisioni organizzative sono state spesso smentite e superate da comportamenti, in particolare del leader, al di fuori di ogni ambito previsto e codificato.

   Abbiamo già visto come la nuova formazione politica sia definita da Maraffi (1995. pag. 249. cit.) “Apparato personale di tipo patrimoniale”. Emanuela Poli afferma che fino alla vittoria elettorale “Un’organizzazione - intesa come organizzazione di partito – semplicemente non c’era. Forza Italia era allora il comitato elettorale di Silvio Berlusconi e del personale dirigente che Berlusconi aveva selezionato” (Poli 1997, 80). L’autrice descrive inoltre la struttura, molto labile e “movimentista”, addirittura senza iscritti e con nomine tutte dall’alto, creata nell’ottobre ’94 da Cesare Previti e da lui definita  “partito leggero”.

   Il ’94 vede successivamente la caduta del governo Berlusconi e due turni di elezioni dai risultati non entusiasmanti, come quelli  di regionali e amministrative del ’95. Il momento è difficile.

   Si cerca quindi di rimediare dando vita ad una forma organizzativa molto, anche troppo, articolata che prevede in ogni collegio elettorale uninominale della Camera un delegato, un vice delegato e un comitato direttivo. Analoghi incarichi sono previsti a livello provinciale e regionale. Anche per i club si prevede finalmente un presidente ed un comitato direttivo.  In ogni sezione elettorale (circa novantamila!) si punta ad avere due “promotori azzurri”, con l’incarico di fare proselitismo e svolgere il compito di rappresentanti di lista nelle tornate elettorali. Si crea la figura del “militante”: è tale chi ricopra uno dei quasi duecentomila incarichi sopra nominati.

   Il problema da cui nasce il nuovo sforzo organizzativo è reale; non è però certamente adeguato il risultato, non solo per un certa astrattezza e per il gigantismo dell’impianto che risultano a prima lettura, ma soprattutto perché si evita accuratamente di conferire la minima autonomia o un potere reale alle strutture sulla carta create. I loro titolari sono difatti quasi tutti nominati e revocabili dall’alto, senza un’effettiva capacità di coinvolgimento, e quindi di ogni concreta possibilità di funzionare. Dopo la sconfitta delle politiche del ’96 già si tentano altre strade. 

   Berlusconi affida a Claudio Scajola il compito di presiedere una commissione incaricata di delineare una nuova forma organizzativa. A Guido Possa è data la presidenza della commissione incaricata di preparare un nuovo statuto, recependo le conclusioni del lavoro di Scajola.

   Nasce il cosiddetto “Partito degli eletti e degli elettori”, avente il compito dichiarato di dare ampio spazio al corpo elettorale; assicurare maggiore democrazia interna; garantire radicamento sul territorio e continuità di azione; ma insieme evitare strutture pesanti e burocratizzate, mantenendo snellezza e rapidità di azione. Un nuovo statuto vede la luce all’ Assemblea Nazionale del 18 gennaio ’97, ed è di certo più ampiamente e meglio articolato dei precedenti. E’ molto lontano però dall’assicurare il conseguimento dei compiti per cui sarebbe nato.

   Sta di fatto che la quasi totalità della vita del partito e delle candidature fino al livello regionale è esclusivamente nelle mani dei Coordinatori Regionali, di nomina non elettiva ma personale del presidente, che esercita quindi un controllo indiretto ma solidissimo su tutte le strutture periferiche.

   Le nomine agli incarichi centrali del partito, a loro volta, sono effettuate personalmente dal presidente; mentre le candidature al Parlamento nazionale ed europeo sono effettuate dal Comitato di Presidenza. Quest’ultimo organismo, composto oggi da 38 componenti, è però formato per più della metà (20/38) da persone nominate direttamente dal presidente, o nominate da altri, in quanto titolari di cariche ricevute anch’esse dal presidente. Altri 11 ne sono membri di diritto in quanto ricoprono cariche istituzionali, per il cui conseguimento il presidente ha un notevole potere di candidatura. Solo sei membri sono eletti dal congresso nazionale (e sulla effettiva democraticità della loro nomina si potrebbe anche nutrire più di qualche dubbio, viste le procedure che la regolano).

   Inutile dire che è lo stesso Comitato di Presidenza, così composto, ad “eleggere” il presidente. Insomma, è la logica del primo statuto tirato fuori dal notaio Colistra in occasione della polemica con Bobbio che ha retto, uguale a se stessa, attraverso tutti i tentativi di riorganizzazione nel corso della vita del partito: il presidente nomina… chi lo elegge, ed ha nel partito nient’altro che uno strumento, un’espansione di se stesso.

   Non tutto è facile e lineare negli ultimi successivi sviluppi. Lo statuto del ‘97, modificato in alcuni punti dal Consiglio Nazionale (non comunque nei punti citati né in altri fondamentali), diventerà definitivo quando sarà poi approvato il 18 aprile ’98 anche dal primo Congresso Nazionale del partito, finalmente convocato ad oltre quattro anni dalla “discesa in campo”, dopo vittorie e sconfitte in elezioni politiche e amministrative, il governo del Paese ed il passaggio all’opposizione. Solo allora, e con i seri limiti sopra esposti, Forza Italia acquisirà un suo documento di identità ed una base, almeno, di certezza normativa interna.

   E’ un dato di fatto però che, dall’ ”apparato personale di tipo patrimoniale” al “partito leggero”; dal “partito dei militanti” al “partito degli eletti e degli elettori”, fino alla statuto del ’98 attualmente in vigore (e che sarebbe opportuno studiare e far conoscere adeguatamente), nelle diverse forme che circostanze elettorali e politiche hanno suggerito, mai è venuto meno il carattere di  centralismo aziendalistico-proprietario che ha caratterizzato la forma-partito di Forza Italia, ben più di quanto il centralismo democratico abbia caratterizzato i partiti comunisti. In questi ultimi era proibita l’organizzazione del dissenso, del quale però in qualche modo e misura il potere centrale (terrore staliniano a parte) doveva pur tener conto. Né Lenin né Togliatti, insomma, hanno mai creato con le proprie sostanze le forze politiche che dirigevano; né da nessun parlamento hanno fatto approvare leggi rivolte alla soluzione di loro personali problemi.

 

2.5. Forza Italia, al di là dei tentativi di organizzazione

 

    Diamo ora uno sguardo a ciò che pensano alcuni tra gli studiosi che, dopo il ’94, hanno scritto su Forza Italia cercando di riflettere sulla natura di questa formazione politica veramente nuova, anche prescindendo dalle  varie forme organizzative assunte. La caratteristica patrimoniale e personale del partito non può sfuggire, e difficilmente è negata anche da quanti ne scrivono con simpatia. In molti di essi, come già detto e indipendentemente dalla posizione critica o partecipante, tale aspetto è visto come provvisorio.

   Renato Mannheimer ad esempio, dopo un’attenta analisi dei motivi che hanno determinato la vittoria del ’94 di Forza Italia, conclude affermando: “Ma ora il suo problema è mantenere i consensi acquisiti che, in un mercato altamente volatile come quello attuale, possono essere perduti alla stessa velocità con cui sono stati conquistati…Per far ciò occorre però passare dal marketing politico alla politica vera e propria. E non è facile” (Mannheimer 1994, 42).

   Piero Ignazi e Richard Katz, dopo aver organicamente affrontato il problema nel più ampio quadro delle  trasformazioni politiche dei primi anni novanta, scrivono: “Da un lato, il Cavaliere può riprendere il progetto, rimasto sulla carta, di fondare un vero e proprio partito per avere truppe diverse da quelle fornite dai suoi dipendenti. Dall’altro, può stipulare un patto di unità d’azione con il suo fedelissimo Fini…o con un raggruppamento di popolari e leghisti” (Ignazi e Katz. 1995, 45-46).

  Anche Patrick McCarthy afferma: “E’ tuttavia difficile pensare che Forza Italia possa diventare un’utile forza di governo a meno che non cambi…Solo diventando un moderno movimento di destra dove i membri hanno voce in capitolo, Forza Italia può giocare un ruolo nel riformare lo Stato italiano” (McCarthy 1995, 70-71).

   Analoga attesa di una istituzionalizzazione autonoma del partito è nel citato Marco Maraffi; come anche in Emanuela Poli che scrive: ”Forza Italia deve porsi con determinazione l’ obiettivo di diventare veramente «partito degli eletti e degli elettori», partito in cui l’iniziativa politica spetta ai gruppi parlamentari, l’onere del controllo agli elettori…” (Poli 1999, 108).

    L’autrice considererà in un suo più recente lavoro, con qualche esitazione ed in forme alquanto contraddittorie, tale processo in buona parte compiuto. Afferma infatti che il partito ha conseguito “un processo di istituzionalizzazione forte anche se non ancora del tutto terminato. Forza Italia ha infatti mostrato di avere compiuto notevoli progressi nel raggiungimento…di una maggiore autonomia rispetto all’ambiente esterno” (Poli 2001, 289); e parla dell’avvenuta “fine dell’incertezza organizzativa” e di “un assetto compiutamente di partito”.

    Ma Michele Prospero, nella sua recensione su “l’Unità” del 10 dicembre 2001, fa acutamente notare che l’autrice ha scritto anche che “il legame simbiotico tra il leader e l’identità dell’organizzazione si è venuto solo marginalmente stemperando nel processo di istituzionalizzazione”; e che Berlusconi dispone “di uno straordinario potere di nomina e di destituzione dei dirigenti nazionali del partito, di selezione della classe parlamentare e di definizione della linea politica”. E continua affermando: “Non è persuasiva la conclusione di Poli…perché la cura dell’organizzazione, il reclutamento si aggiungono, non sostituiscono il sostrato aziendale, che è il nucleo duro dell’invenzione politica di Berlusconi…Se la fenomenologia è questa allora la definizione che ancora regge è quella di partito azienda”.

   Per Caterina Paolucci  “le prospettive generali di istituzionalizzazione di Forza Italia restano molto basse” (Paolucci 1999, 514).

   In questa rapida e parziale rassegna non può comunque mancare un riferimento a quanti, magari in numero più esiguo, si sono mossi in direzione diversa, considerando cioè le caratteristiche personali e proprietarie cui Forza Italia è stata improntata fin dalla nascita come suo assetto stabile, e invitando le altre forze politiche e la stessa opinione pubblica a misurarsi con questa realtà. Si tratta di scritti generalmente più recenti.

   Per Mauro Calise “L’esperienza di Forza Italia ha dimostrato che i mutamenti più radicali dipendono innanzitutto dalla dinamica organizzativa interna…come dimostra la rivoluzione del Labour. Il successo di Berlusconi è facilmente interpretabile rileggendo Schumpeter e Downs, i padri della teoria economica della democrazia, che per primi hanno concepito il leader politico come un imprenditore vincolato alla logica e alle opportunità del mercato dei voti che deve catturare” (Calise 2000, 82-83).

   Roberto Biorcio si muove lungo una linea un po’ diversa: “Con il primo congresso (1998), Forza Italia accelerò il processo di istituzionalizzazione, assumendo molte caratteristiche paragonabili a quelle delle formazioni politiche tradizionali. Furono stabiliti per statuto i diritti degli iscritti per la elezione dei dirigenti politici ai diversi livelli”. Il processo di istituzionalizzazione si dà dunque per acquisito, anche se solo parzialmente. Difatti “la vera espressione della volontà degli iscritti non può non coincidere con quella del leader”. Ma soprattutto tale processo coesiste con altre ben diverse logiche: “La logica di funzionamento generale di Forza Italia resta quella manageriale – aziendale che la caratterizzava alle origini… Forza Italia è riuscita così a sviluppare e a consolidare nel tempo un modello organizzativo fondato su un mix di logiche eterogenee di azione” (Biorcio 2001, 631-632).

   Si può anche sostanzialmente concordare con Biorcio, tenendo però presente che il “mix di logiche eterogenee” appare ancora più sbilanciato a favore della centralizzazione manageriale–aziendale di quanto lui non sottolinei, come può rivelare l’analisi dello statuto stesso.

   Un’ultima, particolare evidenza non può non esser data a quanto scrive Gustavo Zagrebelsky già nel 1994, l’anno stesso della “discesa in campo”. Con coraggio e senza riserve l’autore afferma: “Questa struttura dimostra la volontà dei suoi dirigenti di fare a meno di ogni struttura intermedia tra la base e il vertice: dunque la volontà di impedire la formazione di una dirigenza che si faccia le ossa nel contatto diretto con la società civile. Assistiamo ad una scommessa, coraggiosa per chi la fa ma inquietante per chi la subisce, circa la possibilità di una politica senza i partiti che salta i livelli intermedi, perché il vertice pensa di intavolare direttamente un rapporto con la base. Il circolo massmediatico è quanto occorre e quanto basta. La vera organizzazione di Forza Italia sarà tutta lì, l’organizzazione del circolo sostituirà il partito. La riprova dell’attendibilità di questa ricostruzione sarà l’accanimento nel difendere i privilegi radiotelevisivi” (Zagrebelsky 1994, VI–VII).

   Questa sfida purtroppo ha tardato ad esser presa sul serio. Che il partito sia poi nato, improntato ad una struttura aziendalistica-manageriale, non cambia la sostanza delle cose.

    Va in verità rilevato anche come, nella prefazione di Zagrebelsky, manchino indicazioni o stimoli ai partiti per una positiva trasformazione in vista della pericolosa sfida da affrontare. Si può auspicare, direi esser certi,  che l’ autore non neghi tale necessità, e non certamente per continuare in una sorta di masochistica autodistruzione che è durata qualche decennio e che, per combattere la partitocrazia, ha svilito i partiti stessi indebolendo un cardine essenziale del nostro assetto costituzionale. Il fine deve essere combattere l’ invadenza partitica in settori di competenza istituzionale; l’ ottica particolaristica favorita dal proporzionalismo; le carenze nel mettere in primo piano gli interessi generali. Per esaltare invece e rafforzare i partiti come strutture deputate all’elaborazione,  le loro capacità propositive e, perché no, anche organizzative e di disciplina interna, oltre che di orientamento e dialogo. I modelli di grandi partiti democratici europei, fatte salve le dovute differenze e le diversità dei contesti, ci dicono che la cosa è possibile oltre che necessaria.

    Sarà compito del centro-sinistra, in tempi non lunghi, trovare nei propri valori le necessarie capacità di analisi, insieme alla consapevolezza del prevalere di ciò che unisce rispetto a ciò che divide. La posta in gioco è evitare al Paese quello che si presenta come una prospettiva di nuovo populismo, che ci allontanerebbe dalle linee portanti della politica nel mondo più civile e progredito.

 

 

Bibliografia

 

Urbani G., Il Buongoverno. Restituire lo Stato ai cittadini, Firenze, Vallecchi, 1996.

Gilioli A., Forza Italia, Milano, Arnoldi, 1994.

Golia C., Dentro Forza Italia, Padova, Marsilio, 1997.

Maraffi M., Forza Italia, in La politica italiana, a cura di G. Pasquino, Roma-Bari, Laterza, 1995.

McCarthy P., Forza Italia. Nascita e sviluppo di un partito virtuale, in Politica in Italia ’95, Bologna, Il Mulino,

1995.

Poli E., I modelli organizzativi, in Forza Italia. Radiografia di un evento, a cura di D. Mennitti. Roma,

Ideazione, 1997.

Poli E., Forza Italia, Bologna, Il Mulino, 2001.

Mannheimer R., Forza Italia, in Milano a Roma, a cura di Diamanti e Mannheimer., Roma Donzell, 1994i.

Ignazi P. e Katz R., Ascesa e caduta del governo Berlusconi, in Politica in Italia 1995. Bologna, Il Mulino,

1995.

Paolucci C., Forza Italia a livello locale: un marchio in franchising?, in «Rivista Italiana di Scienza Politica»,

1/1999.

Calise M., Il partito personale, Roma-Bari, Laterza, 2000.

Biorcio R., Forza Italia, partito di riferimento, in «Il Mulino», 4/2001.

Zagrebelsky G., Prefazione a Gilioli, Forza Italia, Milano, Arnoldi, 1994.

 

 

  

 


Home | La rivista | Ricerca | Autori | Approfondimenti | I nostri link | Iniziative | Forum | Servizi | Chi siamo