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Editoriale
Note a margine del Forum Sociale Europeo
di Fabio de Nardis
Tra il 6 e il 10 novembre 2002 si è svolto a Firenze il primo Forum Sociale Europeo a cui hanno partecipato decine di migliaia di giovani e meno giovani appartenenti al Movimento per una globalizzazione dal basso. L’importanza dell’evento è dimostrata dalle cifre organizzative: il numero dei partecipanti, previsti intorno ai 18.000, ha raggiunto invece quota 60.000 accrediti, superando di gran lunga le più ottimistiche aspettative; 105 sono stati i paesi rappresentati al Forum, perlopiù europei, anche se non sono mancate delegazioni provenienti da altre parti del mondo, Africa, Australia, America Latina, Stati Uniti, Canada, Corea del Sud, Malaysia, India, Pakistan, compreso un delegato dalla Cina, uno dalla Micronesia, uno dall’Indonesia, dal Nepal, da Haiti, dalle Antille.
All’organizzazione del Foro hanno partecipato circa 1.000 volontari la metà dei quali stranieri (tra cui alcuni indonesiani, nepaliani, pakistani, o provenienti dalle Bahamas). Circa 20.000 sono stati i posti letto predisposti dal comitato organizzatore, di cui 7.000 in alberghi o pensioni e 1.000 messi a disposizione del Forum da famiglie fiorentine che si sono offerte di ospitare alcuni convenuti. Circa 10.500 locali sono stati invece messi a disposizione dell’Amministrazione Comunale di Firenze o dai Comuni limitrofi per alloggio con sacco a pelo e gli altri 1.000 in strutture ricettive come ostelli, agriturismo e bad & breakfast.
Le associazioni che hanno aderito e partecipato all’iniziativa sono state ben 426 contribuendo all’organizzazione di 18 conferenze mattutine distribuite nei tre giorni di discussione sui macro-settori di «liberismo e globalizzazione», «democrazia, cittadinanza e diritti», «guerra e pace», a cui hanno partecipato giornalisti, scrittori, politici ma anche sociologi ed economisti di fama internazionale; 12 sono state invece le conferenze serali divise in «Dialoghi», «Alternative» e «Finestre sul mondo». Oltre alle conferenze sono stati organizzati ben 160 seminari e 180 workshop, perlopiù tenuti all’interno della Fortezza da Basso, mobilitando 500 traduttori di cui 430 volontari (Si sono parlate almeno quattro lingue al Forum, italiano, inglese, spagnolo, francese, più le altre meno diffuse che sono passate per il filtro dell’inglese, come il greco, il russo, il polacco e il ceco).
Come contorno sono state promosse ben 75 iniziative culturali distribuite in appuntamenti cinematografici, musicali (con il coinvolgimento di più di venti band), rappresentazioni teatrali e mostre varie. Per consentire a più gente possibile di accorrere sabato 9 per la grande manifestazione contro la guerra (a cui pare abbiano partecipato circa 1 milione di persone contro le 200.000 attese) sono stati predisposti ben 15 treni speciali.
Sono sufficienti questi primi dati per rendersi conto che probabilmente l’appuntamento dell’European Social Forum non è stato un episodio come ce ne sono stati altri in altre parti del mondo, ma un evento che «per il suo spirito e la sua qualità può dirsi storico».[i] ‘La più grande riunione politica della storia’ titola un articolo di Piero Sansonetti su «L’Unità» dell’8 novembre 2002, quando gli accrediti erano ancora appena (si fa per dire) 30.000. Circa il doppio dei partecipanti ai due precedenti Forum Sociali Mondiali di Porto Alegre, già straordinari per la loro imponenza, circa 100 volte più grande di un qualsiasi altro meeting internazionale. L’importanza dell’evento e la sua potenziale irripetibilità (il secondo Forum Europeo si terrà nel 2003 in Francia) ci impone alcune riflessioni il più possibile scevre da ideologismi ma soprattutto dalle tendenze al semplicismo che spesso hanno dominato le analisi giornalistiche (ma non solo) su questo movimento.
La data di nascita del movimento definito mediaticamente «no global» è fatta risalire al 30 novembre del 1999 quando i manifestanti scesi in piazza a migliaia, e per la prima volta da molte parti del mondo, per protestare contro il vertice del Wto (World Trade Organization), durante la mattina riescono ad impedire lo svolgimento del meeting bloccando i 135 delegati all’uscita degli alberghi dove alloggiavano. Per la prima volta il movimento dei movimenti si mostra al mondo in tutta la sua forza e determinazione costringendo le forze dell’ordine ad imporre un coprifuoco per tutto il pomeriggio e la sera.
Da allora diverse sono state le occasioni di incontro nei diversi vertici internazionali. Quindi nel 2000 li si trova a Colonia per il summit del G7, poi a Seattle in occasione del vertice dell’Organizzazione mondiale per il commercio, poi a Davos al Fondo economico mondiale, quindi a Waschignton e a Praga alla riunione di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale, e così via anche nel 2001, ancora a Davos, poi a Cancun, a Napoli, a Quebec City, a Gotemborg, fino alle grandi manifestazioni di Genova del 19-20-21 luglio. Per non contare poi i due Forum sociali mondiali di Porto Alegre che hanno ulteriormente testimoniato la presenza di una mobilitazione crescente che tracima consensi su un piano transnazionale.
In quasi tutti questi appuntamenti le manifestazioni di protesta sono state anche teatro di grossi episodi di violenza alcuni di grande entità (si pensi a Gotemborg, a Napoli, a Genova, ma anche alla stessa Seattle). I motivi sono molteplici. Senza dubbio è contata l’incapacità (spesso la non volontà) da parte dei leader di movimento di isolare le frange più violente ma ancor di più una forte dose di responsabilità va alle forze di polizia che ovunque hanno affrontato il problema dell’ordine pubblico in maniera inadeguata e senza alcuna strategia preventiva.
Un importante aspetto del rapporto tra movimenti di protesta e istituzioni sono infatti da sempre le strategie di controllo di mantenimento dell’ordine messe in campo da queste. La polizia spesso rappresenta per i manifestanti il volto più visibile dello «Stato», cioè del potere contro cui si ribellano, le cui mosse possono condizionare le modalità di azione del movimento. Ad esempio, una risposta repressiva da parte delle forze dell’ordine tende tradizionalmente a produrre una radicalizzazione della protesta. Dunque affrontare le mobilitazioni no global adottando le stesse tecniche repressive utilizzate per reprimere i moti da stadio non è certo il modo migliore per evitare il conflitto.[ii]
Non va poi trascurato il ruolo «drammatico» di alcuni media nel predeterminare situazioni di conflitto tali da rendere più appetibili le notizie da divulgare (vuoi mettere i picchi di audience se ci scappa il morto!). Sovente infatti ad influenzare il giudizio dell’opinione pubblica ma anche a rendere più tesi i rapporti tra movimentisti e forze dell’ordine sono le cronache giornalistiche che se dai titoli dei principali giornali, prima di Seattle, si dimostrano ancora piuttosto moderate nei toni, trascurando i pochi casi di violenza o limitandosi tutt’al più a parlare di «scaramucce», dopo Seattle, cominciano ad alzare notevolmente i toni, specie in occasione dei meeting in Italia, passando dal linguaggio della mobilitazione a quello della guerra.[iii]
In questo senso i quotidiani agiscono come profeti di sventure costruendo un sistema di aspettative tra i manifestanti ma soprattutto tra le forze di polizia che non lascia troppo spazio alla possibilità di evitare lo scontro. Ritorna dunque alla memoria il teorema di Clauss o la profezia che si autoadempie di mertoniana memoria secondo cui un’azione considerata reale diventa reale nelle sue conseguenze. Anche qualora lo scontro non fosse voluto diventa quasi inevitabile quale esito profetico. Anche prima del Forum di Firenze si è assistita a un’analoga operazione giornalistica sollecitata tra l’altro dalle preoccupanti dichiarazioni del ministro degli interni che fino all’ultimo, insieme al Capo del Governo, si è detto contrario alla possibilità di consentire lo svolgimento della manifestazione del 9 convinto di possibili infiltrazioni addirittura terroristiche.
«I rapporti che ho dimostrano che è una scelta azzardata» (Berlusconi, Il Giornale, 30.10.02); «Il governo sarà criticato ove vietasse, e sarà criticato ove ci fossero devastazioni che sicuramente ci saranno» (Pisanu, relazione alla Camera del 22.10.02). «No global, Firenze non è adatta» (Corriere della Sera, 23.10.02); e ancora: «Una scelta pericolosa» (Ostellino, Corriere della Sera, 22.10.02). «Gli squilli di rivolta tra i disobbedienti» (Il Giornale, 31.10.02); «L’Antiterrorismo: ecco le strategie degli anarchici» (Il Giornale, 4.11.02); «Firenze costretta al coprifuoco» (Il Giornale, 7.11.02); «No global: città Fantasma» (Il Giornale della Toscana, 7.11.02); «Vigilia da incubo: sbarcano i ‘duri’, cresce la tensione» (Il Giornale della Toscana, 9.11.02).
E di nuovo: «I no global minacciano molotov contro il David» (L’opinione 30.10.02); «Firenze abbandonata alla schizofrenia dei no-global» (Russo, L’opinione, 30.10.02); «I disobbedienti: non faremo sconti» (La Nazione, 8.11.02); «Social Forum, a Firenze cinque giorni caldi» (Il Messaggero, 31.10.02); «Il capo della polizia: resta il pericolo brigatista» (Corriere della Sera, 17.10.02). E chi può dimenticare la copertina del più importante settimanale di informazione politica in Italia che raffigura il Davide di Donatello travestito da Anarco-insurrezionalista, con il titolo a caratteri cubitali: «Assalto a Firenze» (Panorama, 7.11.2002).
Perfino Quotidiani tradizionalmente equilibrati come il Corriere della Sera sembrano assumere apertamente una posizione di forte diffidenza verso il meeting. Il quotidiano di via Solferino infatti esprime chiaramente la sua contrarietà all’iniziativa attraverso le sue migliori firme: «I pacifisti veri e (i molti falsi)» (Panebianco, 6.10.02); «Il mondo irreale dei ‘ciecopacifisti’» (Sartori, 18.10.029); «Salvate Firenze dai no global» (Zeffirelli, 21.10.02); «Una trincea di cose concrete contro il vuoto degli slogan» (Riotta, 2.11.2002). Per non parlare poi degli ‘sproloqui’ di Oriana Fallaci che di tanto in tanto torna a farsi sentire sulle colonne del suo vecchio giornale.[iv] Con un articolo infuocato dal titolo, «Fiorentini, esprimiamo il nostro sdegno» (Corriere della Sera, 6.11.02), la celebre scrittrice invita tutti i fiorentini a ribellarsi al Social Forum chiudendo tutti i negozi, i teatri, non mandando i bambini a scuola, affiggendo lo stesso «cartello che i coraggiosi misero nel 1922 cioè quando i fascisti di Mussolini fecero la marcia su Roma. ‘Chiuso per lutto’».
Fortunatamente le forze dell’ordine attivando da subito un tavolo di contrattazione con i manifestanti e predisponendo un servizio d’ordine discreto, non invasivo né minaccioso, hanno resistito agli appelli dei giornali italiani che veramente hanno rappresentato in certi casi un vero e proprio incitamento alla violenza, contribuendo al buon esito del Social Forum che si è svolto in maniera assolutamente pacifica e in un clima di curiosità e allegria.
Noi del «dubbio», come testimoniano le foto pubblicate su questo numero della rivista, abbiamo partecipato alle attività del Forum raccogliendo 527 questionari distribuiti ai «movimentisti» presenti nella tre giorni di discussione culturale.[v] In questa sede ci limiteremo ad anticipare pochi dati che possano render conto di alcuni tratti di questo movimento tanto affascinante quanto, ancora, poco compreso. Ciò che colpisce è naturalmente l’età dei manifestanti, prevalentemente giovani e giovanissimi; il 70,1% ha infatti meno di 25 anni, segnando un’inversione di tendenza netta rispetto alle precedenti considerazioni sociologiche che, relativamente a tale fascia di età, hanno parlato di generazione apatica e ripiegata nel privatezza della vita quotidiana.[vi] Se si osserva il grafico della distribuzione per anno di nascita si può notare che il picco di massima partecipazione si ha tra i giovani intorno ai diciannove/vent’anni (classe 1983).
Sono in maggioranza donne (54,1%), altro dato interessante, provenienti da una famiglia di ceto medio, per lo più non iscritti a partiti o sindacati, anche se magari partecipano alle loro attività (circa il 30% dichiara di averlo fatto o che comunque lo farebbe). Sono a Firenze prevalentemente a titolo personale (82,5%) mentre solo il 10,9% degli intervistati dichiara di essere iscritto a qualcuna delle associazioni promotrici del Social Forum, segno quindi che il movimento possiede una fortissima capacità di attrazione autonoma dalle associazioni o gruppi che lo compongono. Amano la politica, l’89,6% degli intervistati dichiara che essa riveste un ruolo molto o abbastanza importante nella propria vita, ma non quella che passa per il filtro dei tradizionali veicoli, partiti, istituzioni, a cui è attribuito un livello di fiducia relativamente basso (specie se si tratta di governo e parlamento).
Non sono giovani pericolosi, checché ne dicano, e a conferma della natura non violenta del movimento l’86,6% degli intervistati dichiara che mai farebbe violenza contro cose, mentre la percentuale sale al 95,4% quando l’oggetto della violenza risulterebbero essere persone in carne ed ossa.[vii] Hanno per lo più una visione ottimistica della vita collocandosi in maniera eterogenea all’interno di quella società che, dopo la crisi delle grandi «metanarrazioni», da diversi studiosi è stata descritta come imperversata da una sostanziale incertezza;[viii] il 48,5% degli intervistati, infatti, guarda al proprio futuro con atteggiamento positivo immaginandolo «pieno di possibilità e di sorprese» (contro il 20,4% che lo vede invece pieno di rischi e di incognite). In questo senso, per la maggioranza di essi (57,8%), ciò che una persona riesce a costruire, con le proprie capacità, prevale rispetto ai vincoli posti dalle origini sociali, culturali e religiose.
Sono giovani che non chiedono, come qualcuno potrebbe pensare, di essere assistiti dallo Stato, ma sono convinti, tendenzialmente (35,5%) che in una società civile sia più importante la capacità degli individui di cooperare per un senso di solidarietà collettiva (anche se in questo caso prevale il numero degli incerti che si aggira intorno al 43%). Non sono estremisti, si riconoscono nelle istituzioni democratiche, ma credono in una democrazia diversa, partecipata, dove più marcato è il coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni di governo. Chiedono la costituzione di strutture politiche sopranazionali che possano garantire un governo dei processi di globalizzazione e lo dimostra il fatto che la maggioranza di essi pur considerando ancora sostanzialmente antidemocratiche strutture come l’Onu e l’Unione Europea, dimostrano verso di esse una forte apertura di credito (il 66,8% mostra fiducia verso L’Unione Europea e il 52,5% mostra lo stesso atteggiamento positivo verso l’Onu).
Si tratta in genere di ragazze e ragazzi che sentono un forte bisogno di politica e di partecipare alla vita pubblica. Dal grafico infatti, l’elemento democratico partecipativo emerge come schema interpretativo dominante tra i giovani presenti al Forum Sociale Europeo (43%).[ix] Al secondo posto (30%) c’è chi afferma di essere presente per curiosità, per capire, per informazione, appunto, mostrando una sfiducia verso i media che hanno descritto l’evento come una riunione di violenti e sovversivi. Solo il 3% degli intervistati fa prevalere l’anticapitalismo o l’antimperialismo come schema dominante, mostrando come la democrazia, la pace e i diritti umani, rappresentano la vera priorità di questo movimento.
Insomma, da questi primi dati emerge con una certa nitidezza il fatto che la natura del movimento «antiglobalista»[x] si presenta subito come innovativa rispetto ai precedenti movimenti fatti da coloro che più quotidiani hanno definito i «nonni» dei no global. È un movimento nuovo, non solo perché transnazionale, ma anche e soprattutto perché slegato, in buona parte, da quegli stereotipi economicisti tipici dei movimenti del passato, per lo più connessi agli interessi di un gruppo o di una classe. Le istanze del movimento, e questo spiegherebbe anche la tendenziale simpatia che esso pare suscitare nell’opinione pubblica internazionale, riguardano problemi facilmente universalizzabili.
Il suo dispiegarsi su una dimensione transnazionale rende il movimento grande soggetto critico e nello stesso tempo uno degli attori principali della società mondiale e delle sue complesse dinamiche, figlio di quei processi di individualizzazione e riflessività tipici dell’epoca tardomoderna, in cui il soggetto, raggiunta una piena libertà individuale si trova, volente o nolente, invischiato nelle ricadute perlopiù imprevedibili di decisioni non sottoposte a vincoli, condividendo insieme agli altri il ‘rischio’ di tali conseguenze.[xi] Dunque, il pericolo di una terza guerra mondiale, dell’allargamento del buco di ozono, del riscaldamento atmosferico, ma anche delle crescenti situazioni di sfruttamento che la mondializzazione dei mercati in parte determinano, diventano l’origine di nuove solidarietà prodromiche di inedite forme di azione collettiva.
Eppure, per dirla con Pintor (Il Manifesto, 12.11.02): «La pace contro la guerra, la giustizia contro l’ingiustizia, la libertà e i diritti della persona contro il liberismo selvaggio, l’acqua contro la sete, la convivenza contro la prepotenza – queste formulazioni e queste antinomie non rendono l’idea. La motivazione profonda riguarda oggi l’esistenza stessa, i modi della vita, il presente e il futuro prossimo del mondo, e nasce dalla percezione che il corso delle cose non può essere accettato e subìto così com’è. Non è una percezione d’avanguardia o minoritaria, è qualcosa che riguarda tutti, anche chi non ne ha chiara coscienza. E perciò ha grande potenza anche senza avere o essere un potere».
[i] La frase è di Luigi Pintor nel suo editoriale su «Il Manifesto» del 12 novembre 2002, intitolato La sorpresa.
[ii] Sul rapporto tra movimento di protesta e strategie di mantenimento dell’ordine pubblico, sia in genere che nel caso specifico di Genova, si invita alla lettura di Della Porta, Reiter, Policing Protest, Minneapolis, The University Minnesota Press, 1998; e Andretta, della Porta, Mosca, Reiter, Global, No global, New Global, Roma-Bari, Laterza, 2002.
[iii] Si veda a questo riguardo la rassegna dei titoli giornalistici prima e dopo Genova sul testo di Ceri, Movimenti globali. La protesta del XXI secolo, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp.74-79.
[iv] Si ricordi il suo lungo articolo sul Corriere successivo all’attentato alle Twin Towers già commentato nel mio editoriale sul «dubbio» del 3/2001, dal titolo, il terrorismo, la guerra e l’erosione della fiducia.
[v] All’iniziativa coordinata dal sottoscritto per conto del CRISPO (Centro di Ricerca su Società e Politica) hanno partecipato Luca Alteri, Adriano Cirulli, Barbara Sabella, Roberto Scalise e Fabiola […]
[vi] Si vedano a riguardo i due rapporti Iard sulla condizione giovanile in Italia a cura di Cavalli e DE Lillo, Giovani anni 80, Bologna, il Mulino, 1988; e Giovani anni 90, Bologna, Il Mulino, 1993.
[vii] Questo dato va in parte a confermare una analoga rilevazione effettuata a Genova dal GRACE (Gruppo di Ricerca sull’Azione Collettiva in Europa) i cui risultati sono pubblicati in Andretta et.al., op.cit.
[viii] Si legga a tal riguardo di Zygmunt Baumann, La società dell’incertezza, Bologna, Il Mulino, 1999.
[ix] Sul concetto di schema interpretativo o frame relativo ai movimenti si rimanda alla lettura di Della Porta, Diani, I movimenti sociali, Roma, Carocci, 1997.
[x] Per comprendere il perché di questa espressione si veda il mio, Nel guado della società mondiale. Morfologia e portata, in «Il dubbio», 2/2002.
[xi] Sul concetto di «rischio» si veda il testo di Beck, Risk Society. Towards a New Modernity, London, Sage, 1992; o anche l’articolo di Nocenzi sul numero 2/2002 di questa rivista, dal titolo: Il rischio della globalizzazione, la globalizzazione del rischio.
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