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Saggi

Etnografia del carcere: il caso di Borgo San Nicola

di Giuseppe Gaballo

 

   

 

1. Premessa: un’attenzione scientifica verso il carcere

 

L’interesse per il carcere non può essere lasciato solo alle necessità strategiche della singola testata giornalistica, spesso attenta soprattutto agli eventi «estremi» della realtà penitenziaria. Talvolta l’argomento carcerario è assunto in ambito politico per la rilevanza sociale ed economica che esso sembra assumere in determinati periodi; rimane, però, sempre all’interno di logiche “altre” rispetto all’interesse che potrebbe destare nello scienziato sociale, comunque costruite in un contesto mass-mediatico, dentro cui si creano discorsi pro o contro l’istituzione penale. Come fa notare Foucault, in Sorvegliare e punire, i discorsi sul carcere sono sempre in funzione della sua esistenza, con l’unico fine di controllare e “ingabbiare”, per un certo periodo di tempo, agenti devianti. Questi ultimi, una volta attaccata loro l’etichetta di pregiudicato, subiscono o accentuano il distacco dalla “società civile”, confermando la “diversità-inferiorità” e giustificando l’atteggiamento sociale del potere di “controllo-punizione”: la società, così, costruisce un circolo vizioso che si apre con una condanna giuridica e si chiude con una più profonda di natura genericamente morale, ma più specificamente politica, economica, sociale.

Sarebbe interessante affiancare la teoria dei fatti sociali di Durkheim, o lo struttural-funzionalismo di Talcott Parsons, al paradigma costruzionista-interpretazionista, per realizzare tutto un filone di ricerche sull’istituzione penale in Italia che sia supportato teoricamente. Da una parte, metodi e tecniche quantitative servirebbero a entrare nel problema, individuando alcuni punti caratterizzanti le carceri italiane: la forma e le logiche della loro specifica strutturazione, la tipologia funzionale, il numero di detenuti in un determinato arco temporale, la gerarchia professionale, gli “incidenti di percorso”, fino a rilevare fenomeni propri di un’analisi microsociologica; dall’altra, realizzare una serie di ricerche di tipo qualitativo, entrando così nel vivo dell’ambiente carcerario, per descrivere e analizzare i processi di costruzione quotidiana di questa specifica e complessa realtà, annotando linguaggi, culture, movimenti e azioni degli attori sociali presenti. L’intento sarebbe quello di “aggredire” il sistema penitenziario a 360°, istituendo un dialogo tra metodologie quantitativa e qualitativa, attraverso cui l’indagine scientifica in Sociologia potrebbe continuare, nello specifico del carcerario, un cammino di maturità; credo che questo oggetto di studio sia importante per la prolificità della conoscenza scientifica e per la sua complessità e rilevanza sociale, politica, giuridica, economica, nonché morale.

Da una ricerca condotta da chi scrive risulta che il carcere di Borgo San Nicola, ubicato fuori dalla città di Lecce, interessa importanti istituzioni dello Stato e della Società civile, ma anche realtà sociali private, legali e non; e ancora, un sistema “vivente”, creato dalla Società, o meglio dall’atteggiamento di questa, insomma una sorta di macro-account nei confronti della criminalità. Non si può tralasciare, inoltre, che la Casa Circondariale leccese può ben considerarsi una cittadina, certamente molto particolare, al cui interno esistono dinamiche sociali molto interessanti. Si pensi, ad esempio, al Principio dell’associazione differenziale di Sutherland e alla Teoria dell’agire comunicativo di Habermas[1], a partire dai quali si possono mettere a confronto due mondi vitali, due sotto-sistemi, quindi due culture diverse all’interno dello stesso sistema, il Carcere, vale a dire la società civile rappresentata e organizzata nelle figure professionali e la criminalità rappresentata dai detenuti: il mondo vitale detentivo sembra essere il luogo dell’agire comunicativo, nel quale esiste e si riproduce una specifica sub-cultura, si rafforza la solidarietà sociale tra i “membri”[2] e non mancano processi di socializzazione e risocializzazione, che raggiungono l’apice nel fenomeno dell’affiliazione in organizzazioni criminali storiche[3]. Si pensi, ancora, a come l’argomento-carcere può essere innestato, all’interno del paradigma sociale, su un discorso che tratti della criminalità come problema sociale (Durkeim, Weber, Scuola di Chicago, Struttural-funzionalismo)[4]; inoltre, condurre un’analisi critica, sempre a partire dal sistema penitenziario, sul rapporto tra devianza (e quindi criminalità) e controllo sociale in Parsons; dare spazio agli apporti della sociologia qualitativa, per giungere al complesso ed eclettico contributo di Goffman, a sua volta influenzato da quattro tradizioni teoriche (poi rielaborate fino a distanziarsene): la Scuola di Chicago, Simmel, E. C.Hughes e Durkeim[5].

 

2. Un approccio etnografico in carcere: l’iter di ricerca.

 

L’occasione di condurre una ricerca di tipo etnografico nella Casa Circondariale di Borgo San Nicola, in Lecce, mi è stata offerta da un tirocinio di 140 ore come educatore, svolto dal 16 novembre del 1999 al 2 agosto del 2000. Prima di affrontare questa esperienza completamente nuova, ho cercato di prendere coscienza e annotare tutte le informazioni in mio possesso sulla realtà carceraria in genere, in particolar modo gli stereotipi sulle condizioni di vita del detenuto. Questa parte di lavoro, preliminare all’osservazione diretta dei fenomeni, è stata necessaria perché le mie “pre-nozioni” non si traducessero in “pre-giudizi”, capaci di sviare e distorcere il “dialogo” tra me ed il complesso oggetto di studio. Inoltre, soprattutto all’inizio dei miei contatti con l’ambiente, dovevo porre una certa attenzione al controllo delle emozioni.

Lo strumento più importante, che ha accompagnato lo “sguardo” dei fenomeni, è stato il diario di bordo; proprio uno dei punti cardine per un etnografo è quello di non fidarsi della propria memoria, ma cercare di annotare tutto ciò che potrebbe ritenere utile per una descrizione dettagliata della realtà sociale, oggetto di studio. L’approccio iniziale della mia ricerca è molto simile a quello suggerito da Glaser e Strauss con la loro Grounded Theory[6]: inizialmente la letteratura sociologica, da me letta, riguardava i modi di condurre una ricerca etnografica, tralasciando inizialmente teorie complesse per la conoscenza dei fenomeni che mi apprestavo a studiare.

Un altro passo è stato quello di negoziare l’accesso, non tanto di natura istituzionale (grazie ad una convenzione stipulata tra Università e Istituto penitenziario), quanto di tipo sociale: la disponibilità di un’educatrice-tutor, quale gatekeeper della situazione (un po’ come Doc con W. F. White in Street Corner Society)[7], mi è stata fondamentale per conoscere ed essere accettato da quasi tutti gli attori sociali incontrati. Oltre a ciò, mi è stato necessario raggiungere un equilibrio, vantaggioso ai fini della ricerca, tra il mio ruolo di tirocinante e quello di etnografo: nei primi mesi, infatti, la difficoltà maggiore era determinata dalla grande quantità di informazioni che dovevo gestire. In seguito sono riuscito a capire la struttura fondamentale delle relazioni tra le diverse figure professionali e l’importanza che queste hanno per la costruzione della figura e dell’identità di detenuto. L’impossibilità di aggirarmi solo all’interno della Casa Circondariale, non mi permetteva di seguire un percorso osservativo autonomo; perciò sfruttavo l’iter “naturale” dell’educatrice per annotare tutti i dettagli possibili, utili a una descrizione della fisicità dell’istituto, degli incidenti relazionali tra attori sociali, delle complicità, dei colloqui formali e delle conversazioni spontanee. Non meno importante è stato l’apprendimento del linguaggio tecnico ed informale tipico del mondo carcerario leccese.

In questa prima fase si andava delineando la ricchezza delle mie posizioni osservative rispetto all’oggetto di studio: da un’osservazione di tipo periferico a una di tipo attivo, fino all’osservazione partecipante, quando i detenuti mi consideravano una figura istituzionale del carcere, ossia l’aiutante-educatore[8].

In seguito, mi è stata necessaria una pausa al fine di riflessione sulle informazioni raccolte, sulle difficoltà di natura metodologica e tecnica e per organizzare un piano di osservazione su alcuni punti, per mezzo dei quali realizzare una descrizione soddisfacente della realtà carceraria leccese. Per prima cosa ho preso in considerazione gli insegnamenti dei Sociologi di Chicago[9], dell’interazionismo simbolico[10] e dell’etnometodologia, per i quali l’etnografo è chiamato a prestare particolare attenzione al modo di relazionarsi degli individui e ai significati che gli oggetti, le azioni e gli eventi hanno per loro. Attraverso l’etnometodologia, poi, e l’approccio goffmaniano[11], ho voluto prendere in considerazione tutti quegli atti, comportamenti, situazioni, parole e interazioni che in apparenza non rivelano nulla (o poco) agli attori sociali, ma che nascondono veri e propri meccanismi organizzativi, strutturali, fondamentali per la costruzione sociale della realtà carceraria. Seguendo le medesime linee teorico-metodologiche ho approfittato della ricerca su un’istituzione totale per osservare le dinamiche del potere, secondo il concetto elaborato da Foucault; in particolare, si può mettere in evidenza il gioco di legittimazione e giustificazione reciproche tra il carcere e i saperi disciplinari (giurisprudenza, criminologia, psicologia, una certa sociologia, pedagogia e anche religione)[12]. Su queste linee, insomma, ho impostato la seconda fase, la più duratura, dalla quale sono emersi i punti centrali dell’osservazione: lo spazio e il tempo, l’organizzazione formale e informale dell’istituto, la subcultura carceraria, i rapporti interpersonali e i rapporti con la società esterna. Ciò mi ha permesso di costruire delle interviste semi-strutturate (in base alle aree tematiche emerse nella seconda fase) e realizzare dei colloqui etnografici: siamo nella terza ed ultima fase. Questa è stata preceduta dalla somministrazione di interviste strutturate ad agenti, soprattutto, e a educatori per capire il modo con cui queste figure rispondono a “delicate” domande sull’istituzione. Le interviste hanno riguardato i seguenti attori sociali: il comandante, un criminologo clinico e un medico di guardia del carcere, un agente “scelto” (penultimo grado nella gerarchia della polizia penitenziaria), un insegnante, un ex detenuto (per associazione mafiosa) e uno in semilibertà (ex appartenente alla Sacra Corona Unita, da adesso in poi Scu), il cappellano del Circondariale, un educatore e 5 detenuti (una donna, due uomini per reati comuni e due per reati quali associazione mafiosa e associazione finalizzata allo spaccio internazionale di stupefacenti). Per alcuni di questi non ho potuto usare il registratore perché intervistati all’interno del carcere. Inoltre, ho approfittato dei colloqui con altri detenuti, avuti durante tutto il mio tirocinio, per ottenere indirettamente ulteriori notizie sulla realtà di Borgo San Nicola.

 

3. La dimensione spazio–temporale del carcere

 

Occorre fare delle precisazioni. Per spazio carcerario non ho inteso riferirmi solo alla staticità degli edifici e alle misure dell’istituto, certamente necessarie per avere un’idea della conformazione e delle dimensioni dell’intero complesso, ma soprattutto alla spazio “dinamico”, ossia alla funzione cui è preposto ogni singolo luogo.

Ora, come riferitomi dalle diverse figure professionali che vi lavorano, Borgo San Nicola ha sostituito le vecchie e fatiscenti sedi di “Villa Bobò” e “San Francesco”, situate nella città di Lecce, ed è collocato ad un km dal più vicino complesso residenziale. Inoltre, la struttura è stata pensata per rendere più agevole il lavoro degli agenti penitenziari e degli altri operatori, ma soprattutto per garantire un maggiore controllo dei detenuti: infatti, la denominazione di “super-carcere” dipende dalla dimensione dinamica dell’esercizio di potere, più che dalle dimensioni dell’intero complesso, che si estende per un’area di circa mille m2. A partire da queste premesse, vediamo le caratteristiche della realtà penitenziaria leccese.

La struttura esterna è completamente circondata da due ringhiere in ferro alte 5 metri, tra le quali c’è una strada che permette di giungere ai diversi blocchi (in gergo penitenziario significano gli edifici del carcere), senza passare dall’interno: è importante per i giudici che devono presenziare a un processo nell’aula bunker (corte d’appello). Ma, solo oltrepassando la ringhiera interna si comincia a percepire la realtà di questa istituzione totale: tutti, infatti, sono costretti ad attraversare blindati e cancelli e, al contempo, chiederne il permesso. Esemplare l’affermazione di un insegnante, da me intervistato: «Io, per entrare nella mia classe in C/2[13], attraverso 18 cancelli, dei quali solo alcuni sono aperti». Prima ancora, però, ogni individuo, che può entrare nella struttura, è costretto a citofonare affinché gli vengano aperti i due primi cancelli dal primo “block house”: nel tragitto, compreso tra i due ostacoli in ferro, si è osservati dagli agenti preposti al controllo delle entrate e delle uscite. Due sono gli edifici denominati “block house”: il primo, oltre a svolgere la funzione prima citata e a trattenere inoltre un documento d’identità, permette al suo interno la perquisizione dei parenti dei detenuti; il secondo annota i mezzi e gli uomini, prendendone le generalità, la funzione, il motivo e l’orario di entrata e di uscita. Quest’ultimo appartiene strutturalmente alla caserma della polizia penitenziaria, la quale è affiancata dall’edificio che ospita gli uffici della direzione e dell’area  amministrativa. Ci addentriamo ora nella zona di sicurezza, vale a dire l’area dei padiglioni detentivi.

Superato un portone scorrevole, dal quale possono passare grossi automezzi, s’incontra il blocco del Femminile, mentre a 300 m si trovano i padiglioni del Maschile. Il tutto è circondato da alte e spesse mura, sulle quali sono situate delle postazioni di avvistamento; da qui gli agenti controllano l’intera area, sia quella interna sia quella esterna, sia il traffico aereo: infatti, fino ad una certa quota, i mezzi aerei non posso sorvolare il complesso carcerario.

Tornando all’organizzazione fisica dei padiglioni, devo premettere che essi hanno le medesime caratteristiche generali: un sito di guardia per il controllo delle entrate e delle uscite, dei larghi corridoi per far passare a giusta distanza due diversi gruppi di detenuti, l’ufficio dell’ispettore responsabile dell’intero blocco (o padiglione), altre stanze adibite per i colloqui con gli operatori dell’area trattamentale e con gli avvocati, stanzini per conservare gli oggetti dei detenuti, diverse altre stanze per i vari corsi professionali o scolastici e per le funzioni religiose. Al Maschile si trova anche un teatro di 500 posti con un’ottima acustica. Inoltre, ogni blocco comprende i cortili per la cosiddetta ora d’aria, separati perché possano usufruirne le due categorie principali del carcere: i differenziati e i comuni. I corridoi e le celle sono illuminati sia di luce naturale sia di luce artificiale, come prevedono la Legge “Gozzini” e il regolamento interno nazionale, DPR n. 230/2000.

Grossa importanza rivestono le celle, perché in esse l’80% dei detenuti trascorre l’intera giornata per insufficienza di attività; infatti, il carcere, pur avendo una capienza di neanche 600 posti, nel periodo della mia ricerca ospitava circa 1200 detenuti, di cui meno di duecento frequentavano la scuola e circa centosessanta usufruiva del lavoro. Quindi, ogni detenuto trascorre venti ore in cella e quattro in cortile, che può anche rifiutare; inoltre, sempre a causa del sovraffollamento, la cella, pensata per un solo individuo, al maschile è occupata anche da tre detenuti, costretti a fare i turni per rimanere in piedi. Per rendere l’idea cerco di riportarne le dimensioni. L’area della stanza raggiunge i 10 m2 circa, “riempiti” dai due ai tre posti letto, da un tavolo, dalla televisione e dal bagno. La cella è il luogo primario del controllo: sia al blindato che la chiude, sia dalla parte del muro che corrisponde al bagno, vi è una piccola finestra dalla quale l’agente è tenuto a ispezionare. 

  Riporto alcune testimonianze a proposito. Il criminologo e psicologo, da me intervistato, il quale lavora nel settore dal 1978, riferisce un dato preoccupante: «Con la sua struttura spazio-temporale il carcere comporta sofferenza fisica che, portata alla coscienza, crea un disagio psicologico, fino alla sua possibile cronicizzazione in nevrosi. Al contrario, sofferenze inizialmente psichiche portano all’inevitabile somatizzazione: coliti varie, dolore al petto per ansia, gastriti, problemi epidermici, ecc.». Interessante la critica di un insegnante del Circondariale: «Questa nuova struttura, che ha tutte le potenzialità per essere vivibile con ampi spazi e illuminazione, in realtà è più alienante delle vecchie strutture, assolutamente alienante, a dismisura d’uomo. Ci sono, per esempio, scantinati enormi dove ci si perde; io ancora rischio di perdermi». Si meraviglia di come i detenuti non siano diventati delle «bestie», vivendo per 20h al giorno nello spazio angusto della cella: «…io e lei diverremmo dei rabbiosi o dei depressi con turbe autolesionistiche». Molto spesso i detenuti non sanno della presenza degli spazi per le attività ricreative, ma venendone a conoscenza sfogano la loro rabbia attraverso i giornali; ecco cosa scrisse un detenuto: «Vorrei segnalare le sofferenze mie e del 90 per cento della popolazione detenuta: sulla struttura penitenziaria c’è poco da dire, pur essendo un nuovo complesso ci sono celle in molte sezioni, dove in uno spazio di due metri e mezzo per tre, ci sono tre persone, con due letti a castello, e uno sotto il muro, frontale. Non si può neanche respirare… Ma il fatto più grave è che parlando, sia con il personale del penitenziario che con i detenuti, sono venuto a conoscenza che ogni sezione ha a disposizione sale ricreative, con tavoli di ping-pong, calcio balilla ecc.. Non c’è nessun tipo di socialità neanche per cinque minuti. Ci sono campi sportivi e palestra, ma molti detenuti sono costretti a giocare nelle aree di cemento, rompendosi braccia, collo, gambe e chi più ne sa più ne metta…»[14]. 

Per questo motivo ho voluto chiedere la causa del mancato uso delle aree in questione e alcune risposte sono state sorprendenti; infatti, oltre al sovraffollamento e alla carenza del personale di polizia penitenziaria, il cappellano e il criminologo, da me intervistati, hanno aggiunto che chi ha costruito l’istituto, non ha previsto dei passaggi di sicurezza per far transitare i ristretti in tutta tranquillità. Per farmi capire il grande spreco per l’inutilizzazione dell’intera struttura, il sacerdote riferisce che il luogo detentivo, ossia le celle, occupano meno di un terzo del complesso di Borgo San Nicola. L’ozio forzato, quale primo effetto dell’inagibilità dei luoghi creativi, porta a drammatiche e curiose conseguenze, alcune delle quali ho poco sopra accennato. Il medico di guardia del carcere, mi ha raccontato che molti detenuti improvvisamente si mettono a gridare, si irrigidiscono o rompono tutto, sono pallidi, ma, una volta usciti dallo spazio angusto della cella e lasciati andare per il corridoio, si calmano, riprendono colorito e cominciano a scherzare. Il fenomeno “curioso” si nota in cortile ed è denominato la sindrome del 4x4: ho visto spesso detenuti che in gruppo di quattro o cinque corrono su e giù, mantenendo sempre lo stesso passo e girandosi velocemente insieme, appena arrivati a quattro metri dal muro. “Semilibertà”, un detenuto da me intervistato, mi ha riferito che quel modo di passeggiare freneticamente serve a sgranchirsi le gambe, ma costituisce anche un fatto culturale che ha origine nello spazio ristretto delle celle di un tempo. Ma, se da una parte, i detenuti sono costretti a vivere uno spazio di pochi metri, gli operatori coprono lunghe distanze per recarsi nei loro uffici, in particolare quelli dell’area trattamentale: blindati, cancelli, scale, strade e corridoi sono il loro pane quotidiano. La mia tutor, educatrice al Femminile e al Maschile, rischiava di perdere anche tre quarti d’ora per spostarsi nei luoghi di lavoro. Non si può dire la stessa cosa per gli agenti, i veri “signori” del carcere: ognuno ha il suo posto, in base al compito assegnatogli, e l’ottima disposizione all’interno della struttura permette loro di dettare i tempi di tutti gli attori sociali, che si avventurano nella zona di sicurezza.

Per capire meglio il fenomeno “carcere”, ho voluto rivolgere la mia attenzione su quello che ho definito “Spazio condiviso”: con questa espressione intendo tutti i momenti in cui i diversi attori sociali occupano un medesimo luogo e la disposizione dinamica con cui lo occupano, in interazione comunicativa o interpersonale in genere. Esso rappresenta un fenomeno complesso, implicante la natura dei rapporti sociali tra le varie categorie, e capace di svelare le trame del potere di controllo, talvolta reprimente quei movimenti che sarebbero naturali in qualsiasi altro contesto. Il primo spazio condiviso è quello della cella, ma qui si realizza il paradosso per eccellenza di questo istituto: ad una forzata condivisione dello spazio corrisponde un profondo senso di solitudine. I corpi ristretti sembrano schiacciarsi l’uno sull’altro, ma la mente, come riferiscono i protagonisti, vaga altrove. La disciplina dei corpi è presente nei corridoi, perché i detenuti devono essere controllati dall’agente che li segue, soprattutto quando incontrano altri compagni: anche qui, tanto spazio condiviso, ma una comunicazione carente. Nello spazio condiviso dell’ufficio degli educatori, la disposizione dei corpi dà una particolare immagine di potere, quello delle “distanze ostacolate”: il detenuto deve oltrepassare la soglia della stanza, chiede permesso, la sedia che occupa dista un metro e mezzo da quella dell’operatore, mentre una grossa scrivania li separa. Il tavolo simboleggia il distacco istituzionale che un operatore deve avere nei confronti del ristretto, nel nome del “dio Sicurezza”. Soltanto un educatore o un cappellano possono coprire le distanze siderali che l’ambiente sociale impone; ma, affinché un detenuto possa condividere pienamente il luogo con questi operatori, deve solo sperare nel movimento di questi nell’aggirare gli ostacoli della situazione: il che accade poche volte. Quanto più un ristretto si trova in contatto con una figura professionale, tanto più gli è imposta l’immobilità, il controllo delle distanze. L’esempio più pertinente si verifica nella stanza del comandante, nella quale si istituiscono i Consigli di Disciplina. La disposizione dei corpi è quella tipica delle aule di tribunale: l’agente che accompagna il “malcapitato” indica il punto esatto sul quale il detenuto deve posizionarsi, tanto che può subire un rimprovero se si sposta di mezzo metro; anche lo spazio psicologico, noto comunemente come confidenza, deve essere disciplinato; davanti al detenuto siedono gli operatori, che attendono in giudizio il suo messaggio. Il detenuto è costretto a subire i limiti dello spazio condiviso anche nella sala dei colloqui: qui avviene l’incontro con i parenti, ma l’eccessiva vicinanza dei compagni non permette all’individuo di potersi esprimere liberamente con i propri cari. Insomma, la pena che il detenuto si trova a  scontare non è solo quella comminatagli dal giudice, perché vi è un tipo di punizione che non è scritta e si aggiunge a quella giuridica: è la tortura dello spazio ristretto, una realtà che non permette alcun movimento o alcuna attività e, certamente, non prevista dal codice di procedura penale o da qualche regolamento interno[15].

È sorprendente la varietà con cui si presenta il tempo tra le diverse categorie della Casa Circondariale di Lecce. Ognuna di esse ha un proprio orologio, le cui lancette viaggiano a una diversa velocità: si va dall’infinito presente del detenuto alla velocità della luce di alcuni educatori e di un cappellano, dalla semi-tranquillità di una parte degli agenti alla confusione frenetica di altri colleghi e così via. Molto spesso, però, le varie dimensioni temporali s’incontrano, avvantaggiando qualcuno, e si scontrano a danno dei più.

La maggior parte dei detenuti, come sopra riferito, vive 20h al giorno in cella, per cui subisce la “dilatazione del tempo”, non scandita dagli orari stabiliti dall’amministrazione penitenziaria se non per la “conta” degli agenti, ossia gli appelli per verificare la presenza del detenuto. In questo arco temporale ogni individuo può fare quello che vuole, anche lasciarsi andare completamente, magari saltando la colazione, il pranzo o la cena. La dimensione temporale manifesta pienamente l’immagine dell’istituzione totale: tutto è disciplinato da un altro, per cui il detenuto non si appartiene, ma deve attendere le figure che gli permettano di muoversi dentro e fuori la sua stanza. Solo il rifiuto di sé, dei suoi bisogni corporali e comunicativo-relazionali può liberarlo dal circuito della subordinazione totale della sua vita. Una sorte simile tocca ad alcuni agenti, dalla quale si può notare come lo spazio e il tempo concorrano alla realizzazione del potere di controllo. Il comandante, dopo avermi parlato dell’importanza di uno spazio grande, dice: «Il controllo da parte degli agenti, l’ordine e la sicurezza dell’intero carcere sono direttamente proporzionali alla grandezza dello spazio. La conseguente maggiore articolazione del tempo permette molti “divieti d’incontro” tra sezioni e tra detenuti. Nelle vecchie carceri vi erano diverse sezioni durante l’ora d’aria, adesso non più. Si va una sezione per volta…». Il tempo della socialità è, così, spezzettato a tutto vantaggio della polizia penitenziaria; la possibilità, infatti, di avere dei detenuti isolati a gruppi di due o tre, dipende proprio dallo spazio-tempo del nuovo complesso. La tirannia del tempo che controlla, però, non sempre è una buona cosa per gli agenti tutti; l’ottima sistemazione strategica, istituita all’interno dell’istituto, permette alla maggior parte di loro di passare il tempo nell’ozio o nel compiere mansioni di poco conto e, al contempo, dettare i tempi degli altri operatori, oltre quelli dei detenuti: ciò fa capire la marcata propensione della realtà carceraria verso il settore della sicurezza, magari a danno dei tempi delle attività trattamentali. La disposizione quasi perfetta del personale di polizia penitenziaria (e qui sta la somiglianza con il tempo dei detenuti) non fa altro che dilatare il vissuto soggettivo del tempo: molti non vedono l’ora di tornare a casa, guardano sempre l’orologio, e così facendo – si sa – il tempo non passa mai.

Tutt’altra cosa è il tempo degli altri operatori, soprattutto educatori e cappellani, per i quali è una dimensione talmente sfuggevole, che per quanto si possa essere sbrigativi il lavoro è compiuto quasi sempre a metà: ampi spazi ed enorme attività burocratica tolgono a molti la possibilità di incontrarsi più spesso con i detenuti.

 

4. L’organizzazione di Borgo San Nicola

 

Come si è notato, il tempo e lo spazio sono dimensioni inscindibili e la stessa organizzazione non può tralasciarne l’importanza: è saldo anche il legame tra le attività, la cultura dei detenuti e le tre coordinate carcerarie precedentemente menzionate. Per questo preferisco trattare l’argomento della divisione dei detenuti in questo paragrafo, diversamente da quanto ho fatto nella stesura del mio lavoro.

Prima di tutto preciso che Borgo San Nicola, nella sua organizzazione, dipende come tutti gli istituti penitenziari dal Decreto legislativo n. 444/92, sulla base della Legge di Riforma n. 395/90, la quale fissa il “Principio delle Aree”, secondo cui si raggruppano per affinità di competenze le diverse attività istituzionali[16]. Alla base della trasformazione delle carceri ci sono la Costituzione e le leggi costituzionali, i diversi atti legislativi, primo fra tutti la Legge n. 354/75 (nota come “Riforma Gozzini”) e le sue modifiche avvenute con la Legge n. 663/86[17], il nuovo regolamento di esecuzione DPR n. 230/2000 e consuetudini varie. Il tutto costituisce il punto di riferimento per l’attuazione di un regolamento interno, che disciplina l’organizzazione di una particolare realtà carceraria. Questo è predisposto formalmente da una Commissione composta dal magistrato di sorveglianza che fa da presidente, dal direttore dell’istituto, dal medico incaricato, da due educatori (uno dei quali è responsabile del Circondariale, l’altro della Reclusione), da un assistente sociale, da un cappellano, dall’addetto alle lavorazioni e ci si può avvalere di un esperto, come per esempio il criminologo clinico[18]; in pratica, però, sull’attuazione del regolamento incide anche il corpo di polizia penitenziaria, rappresentato dal comandante e dagli ispettori. Da ciò che prevede il regolamento interno si può capire meglio quanto la vita del detenuto sia nelle mani di un potere totalizzante:

 

L’interesse per l’organizzazione penitenziaria interna è derivato dall’osservazione e dall’ascolto dei discorsi tra educatori e tra questi e i detenuti sull’arbitrarietà con cui i diversi operatori agiscono nel portare avanti la realtà carceraria, talvolta mancando nel rispetto formale delle regole.

Al momento della mia ricerca esisteva un vecchio regolamento, che i detenuti non conoscevano, quando invece sono tenuti a saperne l’esistenza e ad averne una copia disponibile. L’incertezza sul comportamento da assumere creava una certa ansia tra gli ospitati, per cui avevano paura che un qualsiasi loro atto potesse portare alla trasgressione di una regola e alla conseguente punizione. Vediamo com’era la situazione dalle parole di un agente e di un detenuto, da me intervistati; il primo afferma: «Il regolamento esiste, dovrebbe farlo la direttrice con la firma anche del comandante, ma è informale: quello formale non c’è mai stato, ce lo facciamo noi come vogliamo»; mentre il secondo lamenta: «Invece, a Lecce, ogni tanto si vedono attaccare alle bacheche della sezione e del passeggio delle regole, che poi bisogna ricordare nei minimi dettagli».

L’arbitrarietà dell’organizzazione, insomma, dipende dalla convenienza e dalle esigenze del momento, soprattutto legate al sovraffollamento e alla carenza di spazio per i detenuti e del personale di polizia penitenziaria: emerge una sorta di “disorganizzazione organizzata”, ma anche una certa “organizzazione disorganizzata”.

Il carcere leccese, essendo una Casa Circondariale, appartiene alla categoria degli istituti di custodia cautelare, dove alloggiano i condannati alla pena dell’arresto e della reclusione non superiore (o con un residuo di pena non superiore) ai 3 anni. Del complesso, però, fa parte un blocco Reclusione con un’ulteriore diversificazione delle categorie detentive. Questa organizzazione deve tenere presente la gravità del reato, la pericolosità del reo e la conseguente attività trattamentale (vedi tabella).

 

 

FEMMINILE          (unico blocco)                                                              MASCHILE


Detenute comuni e differenziate o alta sorveglianza (A.S.)

(sono le giudicabili, le appellanti, le ricorrenti e le definitive)

Circondariale (imputati):

C/1 - detenuti A.S. e 41/bis di transito,

C/2 - Comuni e Precauzionali;

Reclusione (condannati):

R/1 - comuni e Precauzionali,

R/2 - detenuti A.S.;

T/1 e T/2 per detenuti in transito

 

 


INFERMERIA

alta sorveglianza e comuni (maschile e femminile)

 

 

Il “41/bis” è un articolo dell’ordinamento penitenziario, che permette l’isolamento dei boss mafiosi, affinché non continuino a comandare i loro “picciotti”. Il comandante mi disse che si era opposto alla permanenza di un simile istituto per le seguenti ragioni: «Con la Legge Martelli il carcere duro funzionava per come era previsto, ma adesso si sono allargate le possibilità dei ristretti di avere contatti con l’esterno: colloqui con i parenti, scambio epistolare e telefonico; e con l’interno: il passeggio insieme agli altri della medesima categoria, l’avere dei compagni in cella». A questo punto, ricorda, boss di “Cosa Nostra”, della “Camorra” e della “’Ndrangheta” che hanno soggiornato nelle carceri pugliesi, si assicurano manovalanza fedele all’interno degl’istituti, formando e consolidando nuovi clan, dai quali poi prese vita la mafia pugliese che molto ha imitato in cultura, gerarchie e metodi dalle organizzazioni ospitate. Ecco, per il carcere leccese, qual è il maggiore problema: la sicurezza, il controllo della comunicazione e delle attività illecite spesso commesse o, almeno tentate, dai detenuti, compresi la formazione o il consolidamento di gruppi organizzati criminali. E proprio qui si ha il paradosso: mafiosi che si trovano tra i comuni, perché condannati per un reato diverso da quello di associazione mafiosa, e giudicabili costretti a convivere con i condannati, che per essere imputati di altro reato vengono alloggiati nel Circondariale. Così la suddivisione dei detenuti, sopra esposta, viene quasi sempre meno, e a ciò si aggiunga un sovraffollamento eccessivo: conseguentemente l’attività trattamentale cozza con l’influenza delle subculture criminali, presenti nel singolo carcere. La società civile, intanto, tenta la risocializzazione, costruendo al detenuto un percorso totalizzante, che si basa essenzialmente sulla disciplina secondo il principio del “bastone e la carota”:

I tempi forti per il trattamento sono: i colloqui con gli operatori dell’Area pedagogica, il lavoro, la scuola, i corsi professionali. Tutto ciò è mediato da prestampati, le cosiddette domandine o “Modulo 393”, che sovente «cadono nel nulla; spesso le richieste, fatte per avere colloqui libri o altro, si perdono misteriosamente, scompaiono. Allora bisogna ritentare, sperando nella fortuna», come afferma “Beatrice”, una detenuta intervistata; il dato è confermato da altri attori sociali. Da numerose dichiarazioni ho saputo che non esiste un vero trattamento rieducativo; un insegnate mi dice: «L’area  educativa è estremamente limitata…. Quando uno è in galera, non si fa niente perché lui modifichi le sue scelte, preferisca altri valori… In carcere non gli è prospettata nemmeno la possibilità che ci siano alternative, altri modi di vivere. Quindi a Lecce la rieducazione ha un ruolo marginale, assolutamente secondario…». Ora il detenuto è completamente assorbito dalla struttura: è gestito nel tempo dai ritmi imposti dalle autorità, è gestito nello spazio angusto della cella o in quello illusoriamente liberatorio del cortile, non decide cosa mangiare, né ciò che può fare e quando farlo, non può comunicare con l’esterno come vorrebbe, né con ristretti non appartenenti alla sua categoria, non può indossare calzature o vestiario a suo piacimento, non può uscire dalla cella, magari come faceva in altre carceri. Si costruisce un vero e proprio indigente, che sembra non “debba” saper badare a se stesso, saper comunicare, perché molti sono gli ostacoli da superare e spesso anche incerti. Tutto ciò mi dà la sensazione di un potere “perfetto”, che è tale in quanto riesce ad entrare nella psiche del malcapitato e fargli perdere il dominio di sé, dando vita a comportamenti non voluti coscientemente, di autopunizione, fino alla distruzione della “vecchia” identità[19], ossia quella precedente allo stato detentivo; come ad un bambino gli s’impone una certa cultura, che andrà a determinare anche i suoi bisogni fisiologici, fino a farne un’immagine d’uomo che il contesto sociale permette, così il ristretto è condizionato da molteplici messaggi, che gli indicano un fascio di possibilità nell’essere un detenuto. Questo è ancora confermato dallo stesso insegnante: «Mi sembra che qui da noi prevalga la logica dei militari, della sicurezza. Per gli agenti è realizzare il loro sogno vedere i detenuti chiusi in cella 24h su 24h: sarebbe l’ideale!».

Dunque, se all’interno del carcere leccese è preponderante l’attività di controllo e manca quella sfida tra valori della società civile e valori della cultura criminale – che si può manifestare solo in un ipotetico percorso rieducativo – cosa accade, allora, tra i detenuti di Borgo San Nicola la cui interazione reciproca è continua, il che è in contrasto con gli insufficienti rapporti sociali con gli operatori del penitenziario? A questa domanda ho voluto rispondere dedicando un paragrafo capitolo alla cultura carceraria, soprattutto quella criminale.

 

5. La Cultura carceraria          

                                                                              

Per cultura carceraria intendo il complesso degli atteggiamenti[20], delle consuetudini, dei valori[21], dei comportamenti e delle rappresentazioni che contribuiscono a realizzare la realtà[22] nella quale vivono ed operano gli attori sociali di Borgo San Nicola. In questo contesto assume rilievo il teorema di William Thomas: “L’individuo agisce in funzione dell’ambiente che percepisce, della situazione alla quale  deve far fronte. Egli può definire ogni situazione della vita sociale attraverso la mediazione dei suoi atteggiamenti preliminari che l’informano su questo ambiente e gli permettono di interpretarlo”[23]. Analoga impostazione si rinviene nella “Field Theory” di Kurt Lewin, secondo cui il comportamento è funzione della persona e del suo ambiente[24]: in entrambe le impostazioni c’è lo sforzo di analizzare il momento in cui un individuo attua un comportamento; in entrambe vi è un personaggio all’interno di uno spazio di vita[25] specifico, che determinerà prima una risposta mentale, vale a dire la rappresentazione della situazione, poi un risposta comportamentale (anche la decisione di non agire). Tutto ciò indica un’interazione tra attore e contesto situazionale, interazione che si riproduce nel contesto carcerario, laddove, nonostante le restrizioni spazio-temporali, gli attori sociali coinvolti (siano essi detenuti o operatori) si costruiscono una propria specifica cultura, vale a dire una specifica forma di adattamento al contesto in questione.

Il capitolo è stato diviso nei seguenti paragrafi: la vita carceraria, vale a dire i cambiamenti, il “codice” dei detenuti, la cultura materiale; i rapporti interpersonali con un’attenzione particolare alla rappresentazione dell’“altro”; la comunicazione formale e, soprattutto, informale; il fenomeno della mafia vista nel suo rapporto con il carcere. Per ragioni di spazio mi soffermerò solo su alcuni punti.

Nelle istituzioni totali, scrive Goffman, “l’autonomia dell’azione viene violata”[26], ma i detenuti reagiscono alle restrizioni del carcere, costruendo una realtà sociale, accanto alla quale producono un complesso di pratiche, che permettono di salvaguardare la  propria soggettività[27].

Sentendo parlare di “curiose invenzioni” da parte dei detenuti, ho voluto chiedere ad “Alessandro Magno” e a “Bianco”[28] in cosa consistessero: si tratta di espedienti sia nel campo dell’arte culinaria sia in altri settori, che vanno sotto il nome di “Arte dell’Arrangiarsi”[29]. Un insegnante, al proposito, esclama: «I detenuti sono persone intelligentissime – e aggiungendo, mi racconta: «Uno studente mi chiese un ramo di fico con delle gemme: riuscì a fare il formaggio con il lattice di fico». Altri detenuti, intervistati, alla presenza dell’educatrice, che confermava il tutto, mi descrivevano le diverse procedure per costruire un’antenna per televisione in modo da ricevere altri canali. E ancora: con il motorino di un walkman ottengono la crema per il gelato; con coperte, un tavolo, lo sgabello della cella riescono a creare un forno per cuocere cibi anche prelibati, come pasta al forno, biscotti ed altro. Ma, come mi ha riferito il detenuto “Alessandro Magno”, le attività preferite dai suoi con-detenuti sono di tipo illecito: per esempio, sono talmente numerosi i canali di passaggio della droga dall’esterno verso l’interno dell’istituto, che la polizia penitenziaria non riesce mai a debellare definitivamente il problema.

Le “battaglie” tra le due maggiori categorie (agenti e detenuti) hanno un seguito anche per quanto riguarda la comunicazione[30] tra criminali “a cielo coperto” e tra questi e quelli “a cielo scoperto”[31]: è l’interessante fenomeno di Radio carcere. Un’intenzione, un accordo, un fatto criminale, che avviene all’interno di una sezione o di un padiglione del carcere, giunge dall’altra parte dell’istituto o fuori: per esempio dal Circondariale al Reclusione, dal Maschile al Femminile, oppure dalla società all’interno, sottraendosi alla sorveglianza degli agenti. «L’informazione ai diretti interessati percorre vie impensabili – dichiara il comandante». I canali informativi sono molteplici: semplici gesti o parole apparentemente insignificanti ai compagni o ai parenti, particolare disposizione del cibo trasportato dal portantino o quest’ultimo stesso portavoce dei messaggi, cantare particolari canzoni o spedire la sfoglia[32]. Tutto questo complesso di pratiche, che va sotto il nome di Radio carcere, è soprattutto usato da chi ha interessi “forti” fuori e dentro l’istituto penitenziario come i mafiosi: per cui serve per impartire comandi, instaurare un certo ordine gerarchico, annunciare affiliazioni o aggregazioni, avvertire dell’arrivo di droga o del pentimento di qualcuno in modo da isolarlo, sventare un blitz delle forze dell’ordine. Quest’ultimo può avvenire non solo fuori, ma anche dentro il carcere, per cui anche la polizia penitenziaria utilizza Radio carcere, vale a dire fa attività di intelligence.

Come si può immaginare sia il detenuto sia l’agente hanno costruito una ricco bagaglio simbolico, che serve per ottenere ognuno i propri fini. Mi è sembrato quasi scontato che tra le due categorie principali non corresse buon sangue: infatti, dalle interviste, ma anche attraverso l’osservazione diretta, ho potuto constatare il rifiuto in alcuni di parlare della controparte, se non per lamentarsene. Sono pochi i casi di buoni rapporti, per i quali il detenuto riesce a distaccarsi da una certa mentalità, che lo fa stare “dall’altra parte della barricata”.

Il paragrafo sul “codice”[33] pone in evidenza l’esistenza di una cultura, quella delinquenziale, costituita da un insieme di regole e di consuetudini, che si sovrappongono a quelle dell’istituto penitenziario: si crea, così, un’organizzazione informale all’interno di un’altra formale. In realtà, non si tratta di un fenomeno solamente carcerario, ma di un fatto sociale che ha la sua origine nella società esterna, secondo quanto indicatoci da Sutherland con il suo principio dell’associazione differenziale[34], ma che nel carcere assume forme particolari. Il detenuto “Bianco”, riferendosi al codice, conferma questa singolarità: «Molte di quelle norme svaniscono appena si è fuori dal carcere».

Ci sono due regole che appartengono a tutto il mondo delinquenziale, omertà e “interessi” personali, ma altre sono costitutive di gruppi criminali strutturati (mafiosi e non), i quali inducono il resto della popolazione carceraria ad assimilare, consenziente o riluttante, il loro codice comportamentale. C’è anche una certa gerarchia nelle regole tra criminali: il fare la spia è l’atto più infame, per il quale si rischia la morte propria o di un parente (è l’omertà che garantisce la distanza tra mondo criminale e società civile[35]); comportarsi bene in carcere per non mettere nei guai i compagni, vale a dire guadagnarsi il più presto possibile i benefici della Legge “Gozzini”, evitando le punizioni; non dare fastidio a un boss o a un suo vicario; non perdere la propria “onorabilità”, ossia il non essere ingenui, né farsi prendere a schiaffi o a calci neanche per scherzo; non fare il chiacchierone o il pettegolo, perché si è ritenuti poco fidabili, delle femminucce. Molte altre regole sono mutate o sparite del tutto con l’accentuarsi dell’individualismo tra detenuti, dovuto alla crescita del fenomeno del pentitismo all’interno della Sacra Corona Unita[36], ma anche di gruppi mafiosi campani e calabresi. Inoltre, è stato curioso constatare come i detenuti non mi sapevano spiegare l’origine e la funzione della maggior parte delle regole: le si danno troppo per scontate, «perché è così – mi dice “Alessandro Magno”».

Per completare il discorso sul carcere, soprattutto per quanto riguarda le attività e la subcultura delinquenziale nel rapporto con il potere di controllo,  abbiamo posto l’accento sul fenomeno mafioso, visti i continui riferimenti degli intervistati alle organizzazioni di questo tipo, come anche gli articoli di giornale nei quali si è spesso sottolineata l’importanza del fenomeno all’interno dell’istituto penitenziario leccese. L’interesse per la mafia mi è stato suscitato, inoltre, dalle parole di “Semilibertà”, che, parlando dell’impossibilità di un controllo perfetto, mi dice: «Molto spesso alcuni mafiosi riescono a non avere una condanna per 416 bis (il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso) e così vengono alloggiati nelle sezioni dei comuni; in questi casi si hanno fenomeni di subordinazione di detenuti nei confronti di chi è un’autorità nel mondo delinquenziale». E gli agenti conoscono bene questa situazione.

All’interno del cercare c’è un’intensa attività mafiosa per gli interessi illeciti: si possono creare complicità tra organizzazioni diverse, come quelle tra salentini e albanesi[37], esiste una continuità tra soggetti detenuti e i clan esterni cui appartengono, come non mancano conflitti tra le mura carcerarie[38]. Ma gli stessi detenuti intervistati mi dicono che molte attività del genere si sono affievolite a causa del pentitismo, per cui anche le affiliazioni, i movimenti, le belle favelle[39] sono rari; il comandante, invece, mi ha fatto intendere che tutto ciò è ancora fiorente. Sentiamo cosa è accaduto negli ultimi 8 anni nel carcere pugliese dalle parole di “Bianco”, un altro detenuto intervistato: «Adesso si usa di più il cervello. Tutto a causa dei signori pentiti, che prima fanno la bella vita, poi ti tradiscono. Poi – si sfoga – si mettono i tribunali a costruire una linea accusatoria per incastrare il tipo voluto: il processo studiato a tavolino è quello che ti frega al 100% ed è quello falso. La solidarietà tra detenuti, poi, era sempre mantenuta proprio grazie ai capi, ma soprattutto perché c’era una maggiore confidenza con i compagni di sezione; chi più chi meno era conosciuto, si sapeva cosa potersi aspettare dall’altro, chi apparteneva a clan nemici. Vi erano tanti rituali di riconoscimento, dai quali si veniva a sapere il grado occupato nella gerarchia mafiosa».

Proprio per il suo apparato simbolico, nonché per l’importanza  e i privilegi che un individuo acquisisce facendone parte, il clan o il soggetto mafioso, all’interno del carcere, costituisce un serio problema anche per gli operatori dell’area trattamentale. I detenuti sono affascinati da questa realtà e molti cercano di approfittare della vicinanza, che solo l’istituto penitenziario permette, per farsi ben vedere da chi è mafioso. Per ottenere ciò, può capitare loro di eseguire, in quanto meno sospettato dagli agenti, diverse mansioni volute da un boss, talmente gravose da rischiare pene molto superiori e l’annullamento di qualsiasi beneficio previsto per i comuni.

Tutto ciò conferma il fatto che l’istituto penitenziario costituisce una sorta di tempio sacro, in cui i “probandi” aspettano la consacrazione definitiva nel mondo della “onorata società”, istruendosi e disciplinando il proprio comportamento per raggiungere il sospirato fine: essere “uomini d’onore”. Infine, come nei templi ebrei sotto la dominazione romana, il carcere rimane luogo d’intesa tra gruppi di criminali: scambi di favori, si contraggono affari a medio e a lungo termine, si scambiano le competenze e informazioni. Ma – e concludo – le attività di alcuni operatori, aiutati dal volontariato, “conquistano” quei detenuti desiderosi di cambiare vita, attraverso corsi scolastici, professionali. La sfida maggiore è il coinvolgimento di 20 “A.S.” in attività di giornalismo e informatiche in genere.

 


 


[1] Un’analisi della devianza in genere alla luce del pensiero habermasiano è suggerita da M. Strazzeri, L’eclissi del cittadino. Attore e sistema sociale nella modernità, Pensa multimedia, Lecce 1996, p. 117: «L’obiettivo che ci proponiamo nel prosieguo del discorso avviato consiste nella verifica degli strumenti di lettura ed interpretazione sociologica che la “teoria dell’agire comunicativo” di Jürgen Habermas può offrire ai problemi della devianza».

[2] Per il concetto di membro cfr. P. P. Figlioli e A. Dal Lago (a cura di), Etnometodologia, Il Mulino, Bologna, 1983.

[3] Per il fenomeno delle affiliazioni anche in carcere cfr. M. Longo, Sacra Corona Unita. Storia, Struttura, Rituali, Pensa-Multimedia, Lecce, 1997, oppure M. Massari, La Sacra Corona Unita. Potere e Segreto, Editori Laterza, Bari, 1998.

[4] Cfr. L. Berzano e F. Prina, Sociologia della devianza, Nis, Roma, 1995.

[5] Cfr. G. Gobo, Descrivere il mondo. Teoria e pratica del metodo etnografico in sociologia, Carocci Editore, 2001,      p. 38.

[6] Per il contributo della Grounded Theory si veda, per es., C. Piccardo e A. Benozzo, Etnografia organizzativa. Una proposta di metodo per l’analisi delle organizzazioni come culture, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996.

[7] Cfr. G. Lapassade, In campo. Contributo alla sociologia qualitativa, Pensa-Multimedia, Lecce, 1995, p. 18; oppure cfr. J. Madge, Lo sviluppo dei metodi di ricerca empirica in Sociologia, Il Mulino, Bologna, 1962.

[8] Cfr. G. Lapassade, op. cit., p. 27.

[9] Cfr. A. Coulon, La scuola di Chicago, Pensa-Multimedia, Lecce, 2001.

[10] Cfr. G. H. Mead, Mente, Sé e Società, dal punto di vista di un comportamentista, Giunti, Bologna, 1966.

[11] Cfr. E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1967.

[12] Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e Punire. Nascita della prigione, Einaudi Editore, Torino, 1977; M. Strazzeri, Potere, Strategie punitive, Controllo sociale, Manni editore, Lecce, 1990.

[13] In seguito chiarirò cosa significhi “C/2”.

[14] Il Quotidiano, 17 dicembre 1999, p. 6.

[15] Sulla spazio carcerario come punizione, vedi E. Gallo e V. Ruggiero, Il carcere immateriale. La detenzione come fabbrica di handicap, Sonda, Torino, 1989, ed anche V. Guagliardo, Dei dolori e delle pene. Saggio abolizionista e sull’obiezione di coscienza, Sensibili alle Foglie, Roma, 1997.

[16] Cfr. Di Gennaro-Breda-La Greca, Ordinamento penitenziario e Misure Alternative alla Detenzione, Giuffrè Editore, Milano 1997, p. 27, dove tra l’altro è scritto: “…la distinzione in questione è stata fatta con riferimento a cinque aree: di segreteria, educativa, sanitaria, di ordine e sicurezza e amministrativo-contabile…”.

[17]Ibidem, pagg. 1 e 21

[18] Ex art. 80  O.P., Legge n. 354/75.

[19] Cfr. E. Goffman, Asylums. Le Istituzioni Totali. La condizione sociale dei  malati di mente e di altri internati, Giulio Einaudi editore, Torino, 1968, pp. 44-5.

[20] Cfr. Alain Coulon, op. cit., p. 22.

[21] Cfr. ivi, p. 2.

[22] Cfr. Georges Lapassade, op. cit., p. 79: “…se descrivo una situazione, contribuisco alla costituzione della situazione che sto per descrivere”.

[23] Citato ivi, p. 34.  Per il concetto di “definizione di situazione” cfr. anche John Madge, op. cit., p. 117.

[24] Cfr. Kurt Lewin: Teoria e sperimentazione in psicologia sociale, Il Mulino, Bologna 1972,     p. 143: “…il comportamento (C) è funzione della persona (P) e dell’ambiente (A), ovvero C = F (P,A)”.

[25] Ibidem, p. 8: “Questo spazio di vita è costituito dalla persona e dall’ambiente psicologico così come esiste per essa”.

[26] Cfr. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali, op. cit., p. 67.

[27] Ivi, p. 82: “Gli adattamenti secondari sono, per l’internato, la prova del suo essere padrone di sé, capace di un certo controllo sul suo comportamento: talvolta un adattamento secondario diventa quasi un margine di difesa del sé”.

[28] I due soggetti appartengono alla categoria degli A.S., alta sorveglianza, perché appartenenti ad associazioni criminali.

[29] L’espressione mi è stata rivelata dalla detenuta S. M., ricevuta a colloquio, che da anni gira le carceri del sud, essendo siciliana. Cfr. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali, op. cit., pag. 82: “Nelle istituzioni totali esiste anche un sistema di quelli che possono definirsi << adattamenti secondari >>, cioè un insieme di pratiche che, pur senza provocare direttamente lo staff, consentono agli internati di ottenere qualche soddisfazione proibita… Tali adattamenti raggiungono – ovviamente – la loro maggiore fioritura nelle prigioni…”. Cfr. anche N. S. Hayner e Ellis Ash, The Prisoner Community as a Social Group, in << American Sociological Review >>, IV 1939, p. 364 sgg.   

[30] Chiaramente esiste un tipo di comunicazione formale, organizzata dall’amministrazione: telefonate, lettere, colloqui, modello n. 393, cartoline, telegrammi.

[31] Nel gergo criminale, soprattutto all’interno dei clan mafiosi, si definiscono così quei delinquenti che sono rispettivamente detenuti e liberi. È stato “Semilibertà” a riferirmi ciò.

[32] Diversi intervistati mi hanno parlato della sfoglia, dicendomi che si tratta di un biglietto molto piccolo, piegato più volte, facilmente trasmissibile anche attraverso un bacio. Il comandante è stato gentile a fotocopiarmene una, poiché l’originale costituisce un illecito.

[33] Per quanto riguarda il “Codice” si veda. D. L. Wieder, Language d social Reality, Mouton, Paris 1974.

[34] Cfr. E. H. Sutherland e D. R. Cressey, Criminologia, Giuffrè Editore, Milano 1996, pp. 114- 5.

 

[35] Cfr. G. Falcone e M. Padovani, Cose di Cosa Nostra, Fabbri editori, Milano, 1994, p. 5: «’A megghiu parola è chidda ca ‘un si dici».

[36] È un fenomeno spesso sottolineato dai detenuti intervistati e da qualche operatore, cominciato dal 1993.

[37] Cfr. Il Quotidiano, giovedì 14 dicembre 2001, che titola in primo piano Il Salento diventa terra di riciclaggio e Clan albanesi sulle macerie della Scu; ad un certo punto l’articolo riporta le parole del pm anti-mafia, Leone De Castris: «…i clan salentini hanno trovato estremamente vantaggioso stringere accordi con la criminalità albanese: offre gli stupefacenti a prezzi più che ridotti, si accolla i rischi del trasporto».

[38] Cfr. Il Quotidiano, 15 giugno 2000, il giornalista titola Dopo la scissione del clan una lunga scia di sangue. Una rissa in carcere dà il via alla “faida”, e il carcere è proprio quello di Borgo San Nicola.

[39] Per questi concetti si veda “Up & Down” – Mensile dell’Eurispes di politica, economia, cultura e società, Osservatorio permanente sui fenomeni criminali, La quarta mafia: percorsi e strategie della criminalità organizzata pugliese, numero speciale 7-8/94, Roma.

 

 


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