Il valore artistico: tra
rappresentazione sociale ed estetica
di
Laura Verdi
1. Un oggetto, molti
sguardi
Intendere il valore
artistico come una rappresentazione sociale è dato per scontato in sociologia
quanto in antropologia e in psicologia. Il riferimento all’oggetto artistico
rimane al tempo stesso sullo sfondo, mentre ciò che conta è la variabilità dei
giudizi che su di esso vengono espressi (in tempi e luoghi diversi) da individui
appartenenti a classi sociali diverse. Muta anche il rapporto affettivo-emotivo
con l’oggetto, a seconda dell’integrazione fra i quadri sociali di pensiero e le
norme di comportamento collettive, da un lato, e i dati della propria pratica ed
esperienza immediate, dall’altro. Quello che il soggetto costruisce sono
rappresentazioni legate ad esperienze che possono in seguito sostanziarsi
nell’immaginario collettivo. Ed è proprio in questo passaggio tra il farsi
soggettivo e il diventare patrimonio plurale e condiviso, che l’oggetto d’arte
rischia di far perdere le proprie tracce: disperdendosi in un rivolo di
significati sempre cangianti. Sta qui (come è noto) il rischio più grande
spalancato davanti all’ermeneutica.
Nella tradizione
occidentale la distanza tra il soggetto creatore e l’oggetto estetico è la
stessa che esiste tra soggetto pensante e natura pensata. Cartesianamente
sancita come irrimediabile deriva, la distanza della res cogitans dalla
res extensa era condanna di questa alla cosalità. Cosalità perenne e non
mutevole ai nostri occhi: che non consentiva, non mutando le cose, che lo
facessero i nostri occhi. Soltanto oggi abbiamo deciso che l’usignolo di Keats
resta lo stesso, come il gatto di Schopenhauer, dopo trecento anni[1].
Ma i nostri occhi no. Come ha scritto un critico d’arte americano, «all critics
are mortal»[2].
Nel senso che cambiano i punti di vista e cambia il risultato della visione;
restano le opere, muta la visione, grazie anche al nuovo spazio dato dalla
sociologia della conoscenza e dell’arte all’emergenza dell’irrazionale e della
relatività. Ma le cose si sono fatte alquanto più complesse nell’ultimo secolo.
Se i significati dell’arte (dell’oggetto estetico) sono divenuti da mono
plurireferenziali, in una proliferazione di riferimenti possibili, anche il
soggetto si è fatto meno rassicurante, moltiplicando la propria identità. Così
l’io si decentra in più soggetti, ovvero è anche il soggetto creatore (detentore
e dispensatore di cultura) a farsi plurimo rispetto all’oggetto (la natura o ciò
che di esso è sottoposto alla nostra volontà). Ma un siffatto soggetto ibrido e
scorrevole, costruito per immersione in una cultura globale,
cultura-laboratorio, può dirsi veramente creatore e fino a che punto?
L’incertezza della sua identità si riproduce in quella delle metropoli che egli
abita, fatte di luoghi dall’identità sempre più in pericolo, popolate da forme
d’arte ambigua e non più rassicurante. Sono le metropoli in cui «se [la folla]
lascia un segno, lo fa distruggendo qualcosa, sul proprio corpo col tatuaggio,
sul corpo di un altro con una ferita. Altrimenti non lascia tracce»[3].
Il rapporto direi quasi
schizofrenico instaurato dal pensiero occidentale tra soggetto e oggetto ha
pesanti ripercussioni su quello tra ragione e sentimento. Lo stesso Weber, ad
esempio, riconosce un legame tra emozioni individuali e interazione sociale, e
riserva un posto nei suoi studi al rapporto tra emozioni e sentimenti da un lato
e ordine sociale dall’altro[4]
La teoria dell’azione weberiana è dunque esplicita sull’importanza da assegnare
al significato soggettivo (Verstehen) il quale, nel caso dell’arte, è
inscindibile da un significato emozionale[5].
Nel caso delle comunicazioni di massa, al contrario, il significato soggettivo
dell’agire sociale è riassorbito all’interno del contenuto di ordine implicito
in ciascun messaggio, con finalità dichiaratamente globalizzanti.
Tra i classici della
sociologia, per tornare a questi, nemmeno Comte aveva negato un posto ai
sentimenti, come guida delle coscienze, insieme alla morale e alla religione, in
alternativa alla sola ragione di illuministica osservanza: e anche Pareto aveva
rinvenuto nei residui una specie di nocciolo emozionale e istintuale delle
derivazioni, sorta di rivestimento razionale dei primi.
Il processo di
razionalizzazione di emozioni e sentimenti in atto nella cultura occidentale in
genere e nell’arte in particolare consiste in sostanza nella tutt’altro che
insolita operazione di controllo sociale che mira ad una loro civilizzazione
nella vita sociale quanto individuale[6].
E’ infatti grazie alla diffusione di un potere ideologico derivante «dal
controllo sui significati corretti, da norme legittimate e dalla condotta della
pratica estetica rituale»[7]
che le pratiche estetiche medesime rientrano (forzosamente) nell’ambito delle
attività culturali istituzionalmente riconoscibili. Fin qui, le tesi weberiane
concordano quasi pienamente con quelle dell’epistemologia contemporanea, persino
con le correnti più avanzate del relativismo (detto, non a caso, estremo):
secondo il quale i criteri istituzionalizzati di razionalità vanno posti in
relazione con il capitalismo, lo sfruttamento e la repressione sessuale (quindi
anche dei sentimenti), e le istituzioni (non così però nella sociologia
classica) intese come un male in se stesse[8].
In questa direzione,
seguendo il solco tracciato da Weber, si avviano anche gli studi di Habermas,
che ritiene complementari processi di modernizzazione e razionalizzazione del
mondo. Essi operano attraverso una continua riduzione della complessità della
realtà da parte dei meccanismi d’ordine messi in funzione dal soggetto[9].
E tuttavia qui, ai principi generali e astratti di Weber, si sostituiscono
«relazioni sociali [...] regolate solamente attraverso il denaro ed il potere».
La fede nella ragione (visibilmente forte in Habermas) lascia trasparire che,
dietro lo stabilirsi di un’azione comunicativa come interazione orientata da
norme verso il raggiungimento (mai coercitivo) di un’intesa, stia una
giustificazione più razionale che emotiva. Ciò nonostante, gli esiti della
razionalizzazione nelle società neocapitaliste (ad esempio asiatiche) sono molto
diversi da quelli precedentemente osservati da Habermas in occidente; ciò non
toglie che le analisi del sociologo tedesco pretendano di far conseguire esiti
simili (l’”urbanizzazione” dei sentimenti, appunto) da condizioni
socio-culturali diverse.
Nella tradizione di studi
che va da Weber a Habermas si sarebbe dunque venuta costituendo a poco a poco
una sorta di ideale contiguità fra modernità, capitalismo e razionalizzazione. E
il soggetto pare uscirne, tutto sommato, in posizione di assai discussa
prevalenza.
Ad una lettura
ravvicinata, in effetti, sia Max Weber sia Habermas, quando si riferiscono al
processo cumulativo di razionalizzazione proprio della cultura capitalistica,
non possono esimersi da una continua denuncia degli esiti logici nefasti che
esso produce. Esiti, in primo luogo quanto mai limitanti per l’arte e le istanze
del soggetto, soprattutto per via della vecchia pretesa delle scienze umane di
seguire il metodo (tutto positivistico) delle scienze della natura: tese, come
si sa, a spiegare (Erklären) piuttosto che a comprendere (Verstehen). Sicché la
denuncia weberiana sortisce l’enfatizzazione del concetto di Verstehen, nei
termini sopra citati[10].
Fin qui ho citato solo
teorie occidentali (estetiche e sociologiche) relative alla contemplazione
dell’arte. Esse appaiono tutte basate sull’antitesi di soggetto e oggetto,
mantenendo la determinazione dell’oggetto estetico da parte del soggetto. Ad un
confronto con tali teorie, quelle estetiche orientali (cinesi in primis) ci
pongono di fronte ad una del tutto diversa concezione del buono, del giusto e
del bello. Valori positivi non legati, come in occidente, all’opposizione
soggetto/oggetto, uomo/natura: l’antico pensiero taoista, ma anche confuciano e
buddista, per esempio, sostengono l’unità di uomo e natura e, al tempo stesso,
la possibilità di contemplare oggetti estetici in piena conformità con la
natura. Tale conformità è raggiunta grazie alla predilezione per i caratteri
privi di un orientamento determinato, così negli uomini come nelle loro
creazioni: siano esse espressioni musicali, poetiche o pittoriche, financo
culinarie, il non-gusto ispira l’estetica cinese[11].
Esso si regge sull’indifferenza, sull’impassibilità di fronte alla differenza,
che è, al contrario, il criterio di discriminazione occidentale del gusto (come
insegna Bourdieu). L’assenza di orientamenti di gusto determinati caratterizza
tanto la cultura cinese quanto poco quella occidentale, ma in entrambi i casi
ciò che costruisce (in positivo come in negativo) l’identità culturale si
costituisce poi come confine, barriera che delimita una comunità socioculturale[12].
E nelle comunicazioni di
massa dove vada a finire il significato soggettivo di ciascun messaggio è presto
detto: esso è riassorbito all’interno della funzione sociale e commerciale per
la quale è stato creato, che è anche quella di riduzione della complessità (dei
significati soggettivi) in senso luhmanniano più ancora che parsonsiano. Ecco
allora che l’aspetto di «replicazione dell’uniformità» prevale su quello di
«organizzazione della diversità» culturale di cui parla Hannerz, rendendo
«indefiniti i confini delle culture e delle società»[13].
Si potrebbe anche dire, con Anthony King, che le prospettive dell’originalità in
cultura seguano due strade: l’una, quella più negativa indicata da I.
Wallerstein, che implica «la creazione di processi che suscitano opposizione e
resistenza culturale»; l’altra, quella di Robertson, che suggerisce che «la
consapevolezza o esperienza della globalità esacerberà la differenza culturale,
fornendone addirittura nuove varianti»[14].
In una cornice come quella
che ho tentato di descrivere sin qui, quale può essere l’importanza rivestita
dagli oggetti d’arte, a meno che essi non si riducano a nudi simulacri?
L’oggetto d’arte comunica sempre emozioni e sentimenti (dell’autore, di altri
fruitori) o viene soltanto presentato e poi abbandonato a se stesso, entro una
cornice autoreferenziale? Già con Gauguin, Picasso, Matisse, Gris, la tradizione
della prospettiva quale legge dominante rispetto all’ordine degli oggetti era
stata fieramente avversata, mentre si era proposta l’esistenza di una nuova
relazione tra oggetto e sfondo. Con Mondrian e Klee gli oggetti perdono la loro
riconoscibilità, e ciò che domina la pittura è un gioco ritmico di linee e
colori, mentre le superfici dipinte, insieme al loro supporto, si costituiscono
come oggetti sul muro. Grazie ai collages e agli assemblaggi di Picasso e Kurt
Schwitters, le opere sono insieme oggetti e rappresentazioni di oggetti, poiché
l’arte viene creata attraverso il ricorso ad oggetti reali.
Con Duchamp, invece, si
compie una vera e propria rivoluzione, per cui l’oggetto diviene esso stesso
arte, legittimando il ready-made come forma d’arte. L’oggetto viene ora più
presentato che rappresentato, e tuttavia la sua nudità autoreferenziale contiene
ancora forti implicazioni culturali e non meno evidenti elementi di critica
sociale. Lo stesso tentativo, da più parti compiuto, di costruire un’opera
d’arte totale, in cui lo spettatore possa trovarsi nelle stesse situazioni in
cui si trova l’artista (perciò, al tempo stesso, scopritore e fruitore, bambino
e adulto, disposto a giocare e a ragionare) è il segno di una volontà di
penetrare nel cuore della vita e delle sue contraddizioni. Fatichiamo invece a
trovare quegli stessi elementi di critica sociale presenti nei ready-made nell’autoreferenzialità
iconica di tanta arte mediatica di oggi. Qui i simulacri continuano a dispensare
appagamento comunicativo nonostante l’assenza di riscontri oggettivi e
l’abbassamento dell’orizzonte del godimento estetico a quello del consumo
dozzinale come unico riferimento e forma di interrelazione con l’ambiente.
2. Conoscenza e meaning shif
La percezione del mondo è
dunque cambiata per l’artista come per il fruitore d’arte e l’identità dell’uno
e dell’altro si fanno sempre più labili. Negli ultimi decenni l’artista si è
trasformato ora in critico ed esegeta di se stesso (come nella Nouvelle peinture
francese degli anni settanta) ora in giocoliere dalle scarse risorse
linguistiche (come nel New pop) ora in mutante (come alcuni artisti che
traducono con tecniche diverse lo sguardo sulle contraddizioni culturali, senza
cercare una visione descrittiva e fissa ma stabilendo un rapporto tra paradosso,
finzione e realtà). Complessivamente ciò che riusciamo con sempre maggiore
difficoltà a mettere a fuoco è proprio l’esistenza di un’arte (l’Arte!) ancora
in grado di rimandare a caratteristiche universali: sorretta, cioè, da
preferenze estetiche innate, piuttosto che culturalmente costruite. E questo
proprio in forza della capillare diffusione dei processi di globalizzazione, che
rendono sempre più invisibile l’aspetto localistico dell’arte, ovvero le forme
del suo manifestarsi come differenziazione non indotta.
La relazione tra soggetto
artistico e mondo è incerta anche per via della nuova inconsistenza del
principio di non-contraddizione di Aristotele. Oggi infatti l’oggetto d’arte si
può studiare soltanto come processo sociale, che non può escludere la
coesistenza di un oggetto con il suo contrario.
Tra il vero e il falso, da
qualche tempo, c’è di mezzo il fuzzy, traduzione contemporanea dell’antica
categoria dell’eikos respinto dai platonici come probabile opposto al vero[15]:
in quella zona incerta in cui la luce sconfina nell’ombra, il giorno verso la
sera, il bello verso il brutto, il giovane verso il vecchio, l’utile verso
l’inutile, l’amore verso l’indifferenza: precisamente là compare il fuzzy di
oggi, l’antico eikos..
Del vecchio modus ponens
aristotelico, la cui influenza in quanto modello logico contrario all’eikos si
era dispiegata in molti campi, il positivismo logico del nostro secolo
rappresenta l’ultima espressione, e persino matematica, medicina, logica e
tecnologia in genere ne sono tuttora influenzati. Alla radice dei nostri sistemi
razionalistici, stanno, ancora una volta, impianti categoriali di stampo
classico, che ci hanno trasmesso una doppia e assai controversa eredità: da una
parte si è venuta costituendo un’epistème, ovvero un modello di conoscenza
impostato sulla ricerca di una verità perfetta e non ambigua, fondata
ontologicamente sull’idea dell’essere presente che però presuppone un passato
come un futuro[16];
dall’altra una gnosi ermetica, in cui il pensiero oscilla tra verità oscure e
segrete, facendosi barbarico e multivalente. E’ questa conoscenza perfettibile,
quella che ispira la cosiddetta ragione metica,[17]
ad aver segnato l’amor cortese, trapassando nel neoplatonismo rinascimentale e
via via sino al romanticismo e all’esistenzialismo.
Ma la crisi del Novecento
non è soltanto logica: in fisica la scoperta della relatività (Einstein), della
meccanica dei quanti (Heisenberg) e delle teorie del caos (Lorenz)
destabilizzano i paradigmi della vecchia scienza. Ricacciato dalla porta, l’eikos
si ripresenta vivo alla finestra delle vecchie Naturwissenschaften non meno che
a quella delle Geisteswissenschaften. E si ripropone dunque sotto la specie di
unificazione epistemologica ancor prima che metodologica.
Il problema restava
-resta- tuttavia quello di non rinunciare alla razionalità insieme al realismo
pretensioso del positivismo, di salvare, in altre parole, il realismo nonostante
il relativismo culturale. O ancora: di salvare il bello in arte nonostante il
fuzzy.
La vecchia ragione
epistemica, fondamento di tutte le epistemologie, e perciò anche dell’idea del
bello come pilastro dell’estetica, replica se stessa anche in quelle positiviste
come neopositiviste: senza riuscire a distaccarsi da quei modelli di causalità
lineare e astratta propri delle scienze della natura. Se non rinuncia ad essere
thick description (Geertz), secondo una visione cumulativa della conoscenza, la
scienza deve almeno, alla comparsa di ogni nuova teoria, concedere un meaning
shift, uno spostamento di significato (come suggeriscono Kuhn e Feyerabend)
rispetto alle posizioni raggiunte da teorie o, ancor meglio, da paradigmi
precedenti[18].
Alle stesse conclusioni
era del resto arrivata anche la fenomenologia, che tendeva a sospendere la fede
nel mondo esterno e nei suoi oggetti, per considerare la realtà semplicemente
come un fenomeno. Lo spostamento di significato di Kuhn ci appare allora
assimilabile, per alcuni aspetti, all’epoché di Husserl, che riteneva la
sospensione dell’assenso quale facilitazione rispetto alla comprensione del
Lebenswelt: il soggetto esercitava così il proprio dubbio radicale nei confronti
della scienza oggettiva e dei saperi dati per scontati[19].
Come avventurarsi allora
oltre i mondi dominati dall’ordine della civiltà e dal dispotismo del soggetto?
Il disagio della modernità nasceva, secondo la lettura di Freud, da un eccesso
di ordine[20].
E tuttavia, come fondativo di civiltà, l’ordine è sempre da rinegoziare, come
principio logico (nomotetico) quanto sociale, pena la sua trasformazione in
repressione (del principio di piacere in nome di quello di realtà). Se questo
non è mai stato tanto evidente come al volgere del XIX secolo, si deve anche
all’urgenza assunta dalle istanze relativistiche non solo nell’espressione
artistica, ma anche nelle scienze umane quanto e soprattutto in quelle esatte.
Le une e le altre si sono
dovute alla fine convincere, come ci ricorda Mary Douglas, che «i problemi
difficili e le buone soluzioni hanno convissuto per secoli e se qualcuno
effettua una scoperta non dovrebbe meravigliarsi nell’apprendere che non è il
primo [...]. In un lungo saggio ironico, On the Shoulders of the Giants, Merton
dimostra l’inutilità di chiedersi chi ha detto una cosa per primo»: il che
coincide con l’idea di Borges sulla dimenticanza: «I do not know which of us has
written this page». Il problema della conciliabilità dei punti di vista
sull’arte di due discipline diverse come la sociologia e l’estetica, sembra
potersi ridimensionare (almeno parzialmente) come un falso problema. Secondo
Vera Zolberg «non è che gli studiosi di estetica differiscano completamente dai
teorici sociali, ma laddove la scienza sociale si basa sul fondamento
scientifico secondo cui qualsiasi scoperta è provvisoria e può venire rovesciata
da studi seguenti, una forte tradizione dell’estetica si basa su idee
intellettuali che in parte si fondano su premesse mitologiche riconosciute.
Tuttavia, tali idee sono divenute talmente centrali nella tradizione delle loro
discipline che il modificarle costituisce una minaccia. Tali premesse sono che
un’opera deve essere compresa in quanto oggetto unico e che in definitiva è
fatta dal genio del singolo creatore»[21]
«La cosa ovvia è che la
scienza è un’impresa collettiva», scrive ancora Mary Douglas, anche se dobbiamo
riconoscere che ancora manca «una teoria sociologica della percezione». Senza
dimenticare, ella avverte, che, per fondare un’epistemologia sociologica, sono
indispensabili alcuni requisiti intellettuali, sociali e morali: a questo punto,
però, costruita una macchina per pensare e prendere decisioni in loro nome, che
funziona alla stessa stregua del linguaggio (come un pilota automatico), gli
individui dovranno sopportarne anche gli inevitabili automatismi: ancora e
sempre quei criteri di classificazione, sempre così parziali e provvisori, che
non potranno, in qualunque disciplina, risparmiarci la ricaduta nelle vecchie
tassonomie[22].
Lasciamo a Borges di
suggerirci una conclusione aperta, intorno all’essenza di ciò che abbiamo
cercato di circondare con strumenti scientifici come la sociologia e l’estetica:
«La musica, gli stati di felicità, la mitologia, i volti scolpiti nel tempo,
certi crepuscoli e certi luoghi, vogliono dirci qualcosa, o qualcosa dissero che
non avremmo dovuto perdere, o stanno per dire qualcosa; quest’imminenza di una
rivelazione, che non si produce, è, forse, il fatto estetico»[23].
Mai del tutto afferrabile, appunto.
Misurandosi sul comune
terreno della problematicità del valore dell’arte, estetica e sociologia del XIX
secolo arrivano a conclusioni epistemologicamente opposte. Il disaccordo degli
assunti teorici viene tuttavia stemperato dall’emergenza contemporanea
dell’ermeneutica, grazie alla quale la realtà va vista come «il risultato di uno
scambio comunicativo tra le diverse rappresentazioni e interpretazioni degli
attori sociali tra loro» (circolo ermeneutico) e interpretata quindi come
costruzione sociale, secondo la lezione che va da Schütz a Berger e Luckmann e
oltre[24].
Ma ormai anche l’estetica
non è più intesa solo come disciplina filosofica. «La storia dell’estetica»,
scrive W. Tatarkiewicz, «non è soltanto una storia delle idee sul bello e
sull’arte, ma è anche una storia dei termini “bello” e “arte” e la storia dei
due generalmente non coincide»[25].
Seguendo le indicazioni dell’ermeneutica, infatti, anche la vecchia arte
monoreferenziale, definita dall’omoglossia in quanto leggibile per secoli come
sua sottospecie culturale, si avvia verso la pluralità linguistico-espressiva
dell’eteroglossia e della polisemia. La nuova estetica si fa allora analitica ed
empirica, «riferendosi a cosa in una data epoca era pensato, creduto, sostenuto
dagli uomini, piuttosto che riferendosi a una astratta verità/falsità delle idee
per sé»[26].
Il rischio degli eccessi
ermeneutici (il dissolversi del testo nel mutare del significato) e l’emergere
dei processi di globalizzazione (che, dall’economia, giungono ad investire tutte
le forme della cultura) conducono anche l’arte ad un bivio tra localismo e
globalizzazione (cross and global art) in cui sia implicito il concetto di
erranza culturale ed etnica, nonché una curiosità intellettuale non di maniera.
Risolvere i dubbi e l‘incertezza derivanti da questa impasse può condurre in
molte direzioni: una è quella indicata dalla soluzione jüngeriana ai cambiamenti
del mondo e della libertà (non nella sua natura, ma nella sua forma): la via del
bosco. Soluzione non lontana da quella fornita da Heidegger con gli Holzwege. In
entrambi i casi, infatti, vale il principio della «“viaticità” del pensiero, del
suo essere continuamente “in cammino” per “sentieri interrotti”»[27].
E’ questa la via che
consente la compenetrazione di mondi culturali diversi e l’instaurarsi di una
comunicazione al loro interno. Una via che si rivela insieme emotivo-percettiva
più che razionale. Gli eccessi razionalistici, se non alle Scienze dello spirito
e all’arte, non hanno giovato nemmeno all’informazione, in cui molti elementi
finiscono per produrre solo “rumore”: evitabile forse con il ricorso a forme
comunicative non eccessive, al punto che creare forme di arte popolare, musica,
teatro e poesia incastonate in una nuova cornice di silenzio (non rotto da
messaggi stereotipi) potrebbe dare nuovo risalto all’arte.
E tuttavia si deve evitare
di cadere nel facile tranello di identificare l’esperienza estetica con il
manifestarsi di “emozioni forti”, le stesse con cui, secondo Bergson, «l’arte ci
imprime dei sentimenti, piuttosto di esprimerli». Questo vale per l’arte di
avanguardia, ma, come ricorda Tatarkiewicz, «non risponde però ad altri tipi di
arte, in particolare a quella che chiamiamo classica»[28].
Le teorie estetiche dunque sono costrette, a loro volta, a moltiplicarsi
(tenendo conto del mutare del gusto insieme con il mutare dell’uso dei
significati artistici) per accostarsi alla complessità del reale. I rigidi
criteri di classificazione della vecchia estetica (poco attenti alle
oscillazioni dell’oggettività, e più alle costanti che alle variabili culturali)
trovano un correttivo adeguato nell’adozione del concetto di tipo come quello di
Tatarkiewicz: più indicato a raggruppare i fenomeni per le loro caratteristiche
anche solo parzialmente simili. Così egli può scrivere che «il nome di un
oggetto viene usato in modo elastico e viene allargato ad altri oggetti, aventi
una qualche parziale somiglianza con l’oggetto dato. Per esempio il nome x,
spettante agli oggetti che possiedono le caratteristiche a e b, viene a volte
dato all’oggetto A perché possiede la caratteristica a, come pure all’oggetto B
perché possiede la caratteristica b. Allora gli oggetti A e B hanno un nome
comune, ma possono non avere caratteristiche comuni. In questo caso esiste il
nome x, ma non vi è la classe degli oggetti X. Questo modo di procedere, proprio
del linguaggio ordinario, e in più di un caso anche delle scienze che non
dispongono di un elevato livello di precisione concettuale, si potrebbe chiamare
“a domino”; esso è infatti simile al modo di procedere nel gioco a domino, dove
si aggiunge tassello a tassello in base a una somiglianza parziale ottenendo
così una serie nella quale i tasselli contigui sono tra loro simili, ma non
possono avere nulla in comune con gli altri»[29].
Ma non basta, perché questo procedimento “a domino” fa «venire in mente il
concetto di “somiglianza di famiglia” introdotto anni dopo da Wittgenstein e da
Tatarkiewicz ricordato in Storia di sei idee». Mi è difficile, a questo punto,
non provare a ricollegare queste ultime citazioni con una mia proposta di
“provincia finitima di significato”, dove l’ordine si crei e si distrugga
all’insegna di paradigmi finalmente rivedibili.
3. Sulla non
dispensabilità di un accordo tra sociologia ed ermeneutica
Per tentare una
ricapitolazione di quanto ho esposto fin qui, vorrei ricordare alcune condizioni
secondo le quali il significato di un’arte inscritta in mondi sempre più
complessi diventa sociologicamente leggibile. Esse potrebbero essere così
sintetizzate: 1) che si rinunci alla pretesa euristica di un ordine unificatore,
cui appellarsi per dare ad ogni opera un’etichetta precisa: che soddisfa meno le
esigenze ermeneutiche legate alle opere che i criteri delle vecchie estetiche
idealistiche; 2) che si metta da parte la certezza di poter contare ancora
sull’esistenza di province finite di significato e ci si disponga ad andar
oltre: non per finire alla deriva, quanto per cercare nuovi territori di
incontro-incrocio, le già proposte province finitime di significato; 3) che si
adotti una logica fuzzy, con la sostituzione del bianco o nero con il grigio o
il chiaroscuro e si passi dalla bivalenza alla polivalenza[30];
4) che la creazione si concepisca finalmente anche come ri-creazione, apertura a
nuove possibilità.
Queste condizioni
diventano anche più interessanti quando si consideri la loro pressoché identica
validità nella sfera della sociologia della conoscenza scientifica. Come si
diceva sopra (accennando al meaning shift rispetto a paradigmi scientifici
precedenti) la relativizzazione del sapere ha coinvolto anche la scienza,
moltiplicandone i metodi e le procedure[31].
Al punto che Mary Douglas, seguendo la tradizione di Durkheim e Wittgenstein, ha
potuto scrivere che «Oltre alle altre verità, anche la verità matematica viene
stabilita dal processo sociale e protetta mediante convenzione»[32]:
essa non è più sostenuta da criterio alcuno di indiscutibilità, al pari delle
metafisiche scientifiche, che possono sempre «essere fatte oggetto di dibattito
critico»[33].
E che dire della scoperta dei numeri irrazionali, vera minaccia al credo
pitagorico della razionalità della conoscenza? La loro esistenza ha costituito
di per sé una sfida al concetto stesso di ratio: quel rapporto razionale
esprimibile in forma matematica attraverso rapporti numerici[34].
Persino lo studio dei
fenomeni atomici non si collega più, secondo Heisenberg, lo scopritore del
principio di indeterminazione, «a processi oggettivi che hanno luogo nello
spazio e nel tempo, ma solo a situazioni osservative. Possiamo derivare leggi
empiriche solo relativamente ad esse. I simboli matematici con cui descriviamo
queste situazioni osservative rappresentano, più che fatti, possibilità. Si
potrebbe dire che rappresentano uno stadio intermedio tra il possibile e il
fattuale»[35].
Affrontando queste
problematiche, riappare di continuo in tutta la sua pregnanza la centralità del
problema sociologico che riguarda, quale interrogazione che va molto vicino alla
libertà del pensiero, il condizionamento sociale di questo in termini solo
formali (come proponeva Scheler) o anche contenutistici (come preferivano Marx e
Mannheim). E si ripresenta anche il vecchio problema degli a-priori, mai del
tutto liquidato e semmai ripreso dalla fisica.
La relativizzazione degli
a-priori kantiani conduce Heisenberg a riconoscere il delinearsi anche per la
fisica atomica di «una situazione epistemologica del tutto nuova», che mette in
crisi persino «i termini con cui descriviamo l’esperienza [...] concetti quali
“cosa”, “oggetto della percezione”, “momento”, “simultaneità”, “estensione”
eccetera»[36].
La conclusione del fisico non è però nichilistica: egli ci spinge a considerare
anche gli a-priori kantiani non come conoscenza non vera, quanto come categorie
non sufficienti a spiegare la realtà contemporanea. E dal momento che «la
struttura stessa del pensiero cambia nella storia, la scienza avanza non solo
perché ci permette di spiegare nuovi fatti, ma anche perché ci insegna ogni
volta nuovi significati della parola “ragione”».
Per quali vie allora la
sociologia e la sociologia della conoscenza e dell’arte in particolare possono
attingere all'universalità e all'oggettività? Per sfuggire al relativismo
scettico che si autoannulla, Nagel[37]
avverte che «la ‘neutralità valutativa’ che sembra essere così totale nelle
scienze naturali è [...] spesso considerata irraggiungibile nell’indagine
sociale» e le “leggi” sociologiche hanno mostrato chiaramente la loro portata
relativa; esse infatti non sanno essere universali né transculturali (cioè
valide in società e culture differenti) né predittive. Come Nagel stesso
chiarisce, anche se, in una prospettiva di filosofia della scienza, «il
carattere ‘storicamente condizionato’ dei fenomeni sociali non è un ostacolo
intrinseco per la formulazione di leggi transculturali generali», i tentativi
compiuti finora in questo senso si sono risolti nell’espressione di leggi
sociali che «enunciano gli ordini dei mutamenti sociali supposti inevitabili e
asseriscono che la società o le istituzioni si succedono una dopo l’altra in una
certa sequenza fissa di stadi di sviluppo» ricorda la soluzione classica di
Mannheim, che all'immobilità del relativismo opponeva l'abile escamotage del "relazionismo"
prospettivistico, in grado di fornire la dignità di una almeno provvisoria
oggettività ai risultati delle indagini delle scienze sociali. Il prospettivismo,
infatti (anche nella versione ermeneutica di Gadamer) rimanda ad ulteriori vie
di fuga rispetto alle visioni uniche e totalizzanti della realtà: esso consente
di arrivare alla conoscenza di un oggetto attraverso più strade, quindi di
saperne di più anziché avere di fronte l'assetto unitario di un ordine che è
«sempre approssimativo e vulnerabile, costantemente mutevole»[38].
La considerazione del fatto che il cambiamento di forma della conoscenza
consenta il beneficio di «una conoscenza differente (più vera) di ciò che è
oggetto di trasformazione» (ibidem) ci pone in grado di analizzare i
comportamenti di tipo disordinato e caotico con una nuova serenità, ignota al
nostro passato prossimo.
Bibliografia
Balandier G., Il
disordine. Elogio del movimento, Dedalo, Bari, 1991.
Bauman Z., La società
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[1]
Mi riferisco alle splendide pagine dedicate da J. L. Borges, in Otras
Inquisiciones, Buenos Aires, Emecé, 1960, trad. it. Altre
inquisizioni, Milano, Feltrinelli, 1973, a L’usignolo di Keats,
pp. 120-123.
[2]
Di Alfred Kazin, uno dei più brillanti critici letterari americani, ricordo
Writing was everything, Harvard University Press, Cambridge,
Massachussets. London, England, 1995.
[3]
F. Colombo, La città profonda. Saggi immaginari su New York, Milano,
Feltrinelli, 1992, p. 39.
[4]
Teorizzazioni in forza delle quali la salvazione cristiana, la produzione di
merci, un sistema competitivo di stati territoriali, la stampa e la
navigazione su mare aperto costituivano le precondizioni per qualunque
processo di modernizzazione e di razionalità.
[5]
Riferendosi ai compiti specifici della disciplina, Weber scrive che «la
sociologia [...] deve designare una scienza la quale si propone di intendere
in virtù di un procedimento interpretativo l’agire sociale, e quindi di
spiegarlo causalmente nel suo corso e nei suoi effetti. Inoltre, per “agire”
si deve intendere un atteggiamento umano [...] se e in quanto l’individuo
che agisce o gli individui che agiscono congiungono ad esso un senso
soggettivo. Per agire “sociale”si deve intendere un agire che sia riferito
[...] all’atteggiamento di altri individui, e orientato nel suo corso in
base a questo». Cfr. M. Weber (1922), Wirtschaft und Gesellschaft,
Mohr, Tubingen; (1961), Economia e Società, Edizioni di Comunità,
Milano, p. 4.
[6]
Sull’argomento della civilizzazione affettiva sono sempre di grande fascino
le tesi di Norbert Elias, allievo di Karl Mannheim.
[7]
D. Golblatt, (1995), «Power, Modernity and Morality in the Long Nineteenth
Century», Theory Culture & Society, Sage, London, XII, 1, recensione
a M. Mann (1993), The Sources of Social Power, Volume II: The Rise of
Classes and Nation-States, Cambridge UP, Cambridge, p. 158.
[8]
Mi riferisco qui alle tesi provocatorie di H. Putnam (1989), in Reason,
Truth and History, Cambridge University Press, 1981, trad. it.
Ragione, verità e storia, Il Saggiatore, Milano, p. 137, laddove vengono
posti in discussione i contenuti estremizzanti del relativismo di Kuhn,
Feyerabend e Foucault in particolare.
[9]Cfr. J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo,
Laterza, Bari, 1975.
J. Habermas, Theorie des
kommunikativen Handelns, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1981 (trad.it.
Teoria dell’agire comunicativo, II, Critica della ragione
funzionalistica, Il Mulino, Bologna, 1986).
[10]
I concetti di Verstehen (comprendere) e Erklaren (spiegare)
prima che a Weber sono da ascrivere a J Droysen (1868) e a W. Dilthey
(1883).
[11]
Si veda di F. Jullien, Elogio dell’insapore, Cortina, Milano, 1999.
[12]
E’ quanto spiega doviziosamente Mary Douglas nel suo Questioni di gusto.
Stili di pensiero tra volgarità e raffinatezza, Il Mulino, Bologna,
2000, riferendosi a quelle distinzioni culturali che scolpiscono insieme i
tratti della nostra identità. Al tema assai affascinante quanto poco
dibattuto della enfatizzazione della differenza nella cultura occidentale
vs. la non-enfatizzazione in quella orientale andrebbe dedicato uno spazio
ben più ampio delle poche righe che ho qui a disposizione.
[13]
Cfr. U. Hannerz, La complessità culturale. L’organizzazione sociale del
significato, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 20, 42.
[14]
Si tratta di alcune tra le possibili derive della globalizzazione secondo A.
King, «L’architettura, il capitale, la globalizzazione», in M. Featherstone,
Cultura globale. Nazionalismo, globalizzazione e modernità, Seam,
Roma, 1996, p. 230 [Global Culture. Nationalism, Globalization and
Modernity, Sage, London, 1990]. La teoria di R. Robertson è esplicitata
ivi in«Mappare la condizione globale: la globalizzazione come
concetto centrale», p. 73 e segg.
[15]
A. G. Gargani, Introduzione a Y. Elkana, Antropologia della conoscenza,
Laterza, Roma-Bari, 1999. p. XXII.
[16]
Cfr. M. Ferraris, L’ermeneutica, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 90.
[17]
A parlarne è ancora Y. Elkana, in op. cit., p. 139: «La novità
centrale dell’illuminismo greco del V secolo fu che non c’era più nulla di
scontato. Ne seguì una sperimentazione in tutti i campi, e la ragione, con
uno slancio nuovo di fiducia in se stessa, si volse a “cercar di far luce su
di sé”. La metis mise a punto una combinazione di ragione ed
esperimento come nuova fonte di sapere».
[18]
Cfr. A. G. Gargani, Introduzione a Y. Elkana, op. cit., p. XIII. Kuhn
e Feyerabend insistono sulla relazione di incommensurabilità reciproca e
intraducibilità dei vocabolari delle teorie scientifiche. La “thick
description” è tale in quanto si appella ad una ragione epistemica piuttosto
che intercontestuale: cfr. C. Geertz, The interpretation of Cultures,
Basic Books, New York, 1973.
[19]
Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia
fenomenologica, Einaudi, Torino, 1974 (1913).
[20]
Il riferimento trasparente è a S. Freud, Il disagio della civiltà, in
Opere, Torino, Boringhieri, 1967-80 (1929), vol. 10. Sul rapporto
modernità/ordine/libertà si veda anche Z. Bauman, La società
dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999, passim.
[21]
V. Zolberg, Sociologia dell’arte, Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 85,
86. Qui l’A. riesce a mantenere una perfetta equanimità tanto rispetto alle
teorie esogene (verso le quali propende la sociologia) quanto rispetto a
quelle endogene (care agli storici dell’arte e agli estetologi).
[22]
Cfr. M. Douglas, Come pensano le istituzioni, Il Mulino, Bologna,
1990, pp. 110, 111, 130, 102. La
citazione da R. Merton è tratta da On the Shoulders of Giants: a Shandean
Postscript, New York, Harcourt, Brace, New York,
1965, quella da J. L. Borges è tratta da Borges and I.
[24]
La citazione è tratta da F. Crespi-F. Fornari, Introduzione alla
Sociologia della Conoscenza, Donzelli, Roma,
1998, p. 124.
[25]
W. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, Torino, 1979, premessa al vol
I. In quest’opera monumentale, l’A. sostiene che l’estetica moderna sia
divenuta effettivamente tale solo a partire dal XVIII secolo, con la
«concezione soggettivistica dei valori estetici».
[26]
W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo, 1997,
presentazione di C. Jaworska, p. 20.
[27]
L’osservazione è contenuta nella introduzione di F. Volpi Itinerarium
mentis in nihilum a E. Jünger-M. Heidegger, Oltre la linea,
Adelphi, Milano, 1998, p. 27.
[29]Ivi, p. 13, cit. nella presentazione, così come la cit. successiva.
[30]
Il termine “fuzzy” rimanda a quello coniato dal logico Lofti Zadeh negli
anni Sessanta e ripreso da uno dei suoi più brillanti allievi, B. Kosko, ne
Il fuzzy-pensiero. Teoria e applicazioni della logica fuzzy, Baldini
& Castoldi, Milano, 1995 (1993).
[31]
I cosiddetti anarchici del “relativismo estremo” -Kuhn, Feyerabend e
Foucault- si oppongono a ogni forma di conoscenza istituzionalizzabile come
male in se stesso. Negando la possibilità di qualunque tipo di “giustezza
oggettiva”, essi costruiscono un universo popolato da concetti come quello
di non commensurabilità e non condivisibilità culturali: in altre parole, di
intransitività dei valori di un tempo e uno spazio culturali in quelli di un
altro. Il loro atteggiamento complessivo è all’insegna del del “tutto va
bene”. Mi permetto di rimandare, in generale, a P. Feyerabend, Contro il
metodo, Milano, Feltrinelli, 1981 e al mio «Il valore che sfugge: la
sociologia tra arte e scienza», Metis, Cleup, Padova, 1998, pp.
181-202.
[32]
M. Douglas, Implicit Meanings, p. XIX, cit. in Y. Elkana, op. cit.
,p. 237, nota 71.
[33]
E’ quello che sostiene Y. Elkana, op. cit., p. 233, nota 15.
[34]
Cfr. P. Odifreddi, «Lo zoo dei matematici», La Repubblica, 13 giugno
2000, p. 51.
[35]
W. Heisenberg, Fisica e oltre. Incontri con protagonisti. 1920-1965,
Bollati-Boringhieri, Torino,1984, pp. 134.-136.