LA POETESSA DI DIO: CRISTINA DI LAGOPESOLE

di Milly Bracciante



 

Una scelta di vita che nel vortice del nostro secolo potrebbe apparire anacronistica, quella che induce una donna erudita, una poetessa, a vivere nel silenzio di un eremo ai piedi del sacro Monte del Carmelo e del Castello federiciano di Lagopesole (Potenza) in Basilicata.

Poetessa del sacro innografico, omileta, scrittrice di filotee, socia onoraria della “Fondazione Federico II”  di Jesi , Cristina di Lagopesole che dal luogo elettivo, Lagopesole, ha tratto il nome distintivo, conduce studi biblici, patristici, teologici, innografici ed  iconografici ,collaborando con le Università di Monaco ed Helsinki. Ha prodotto più di venti pubblicazioni (tra saggi e libri di poesia oltre ad articoli su riviste nazionali ed estere)  delle quali vari  e prestigiosi premi letterari hanno riconosciuto il merito e la profondità di pensiero.

Eremita del duemila, Cristina di Lagopesole  vive immersa nella bellezza della natura mentre la sua anima ed il suo intelletto, in continuo esercizio speculativo, sono impegnati nella riflessione esistenziale e nella ricerca della verità.

 Anzitutto mistica, vede la vita come inesausta ricerca nel  dialogo con l’ Oltre, come frequentazione del dolore dei vissuti umani nella coscienza della morte che ricongiunge all’Eterno e come immensa gratificazione data all’uomo dal Creatore nella possibilità di poter fruire del meraviglioso della natura, laddove il  silenzio ed il raccoglimento sono elemento essenziale di elevazione dello spirito. Sicchè la sua parola, la sua poesia, le sue silenti pause, diventano preghiera nella dimensione delle Beatitudini, dove l’Amore divino parla al cuore dell’uomo ,e nella visione di una speculazione filosofica volta al sapere ed alla conoscenza come fonte di verità. Dove la poesia è vissuta come voce salvifica dell’esistenza, nel dialogo sublime con la pura bellezza della natura che è immagine di Dio.

Ne danno testimonianza l’eremo ed il tempio del Divin Crocifisso che l’eremita ha voluto costruire con i proventi delle sue fatiche letterarie riproponendo con la perfezione geometrica, il simbolo e l’allegoria, la Bellezza che è Dio . “Nella navicella dell’anima cerco la Via della Rosa,/ il numero magico della Porta/ gli otto petali dello Splendore/ .Sull’infinito mi abbandono e  ti cerco”  (“Canto dell’ otto “ pag 140 ,da il Libro del Pellegrino). Similmente, la poetessa ha curato che nei suoi libri “Il libro del Pellegrino” e  “ad Crucem” ( Piero Lacaita Editore Manduria, Bari, Roma), nell’attenzione alla raffinata veste tipografica, nella  scelta di preziose e splendide iconografie e nello snodarsi melodioso di un canto poetico, impregnato della migliore tradizione innografica delle Chiese d’Oriente e d’Occidente, ed al tempo stesso rilucente di personale impronta creativa cadenzata dalla cifra otto, fossero simbolicamente legate all’infinita perfezione divina e rispecchiassero il Suo infinito Amore. “ Cerco   tuo Figlio e l’Origine/ il Verbo luminoso, il fiore e l’aroma./ Scrivo per te otto versi/ per sentirli cantare nel silenzio” (“Canto dell’otto” da “Il libro del Pellegrino” pag. 140).

Si tratta  di un Hymnarium come sottolinea Enzo Bianchi, priore di Bose, nella sua prefazione a “Il libro del Pellegrino”, “capace anche in un mondo efficientista e distrutto, di suscitare la  gratuità della bellezza, di destare la lode che da ogni creatura, anche dal più piccolo fiore, sale al creatore”.

E “siano questi inni, rotolo dolce nella vostra bocca” augura Cristina di Lagopesole ai suoi lettori e specifica in versi: “Nell’anima, dove miele d’Imetto/ è la Parola,versi liquido dolce,/ scorri in musica, sbocci bianco/ screziato di rosso, luminoso trascorri/ Non c’è dolcezza più grande/ della tua Parola ,Signore!” (“Canto della Parola” in “Il Libro del Pellegrino” pag.141.

Una poesia, quella della poetessa lucana, che accompagna la salita di ciascun pellegrino, di ciascun essere vivente della terra, verso il Monte Sion, meta del pellegrinaggio ebraico al Dio di Abramo. Pellegrinaggio che è anzitutto “viaggio interiore” di ciascun uomo alla ricerca di se stesso e della  verità; cammino che si avvia dal buio del silenzio che è lode a Dio, spazio in cui può manifestarsi la sua Gloria alla luce del Cristo. “E’  nel silenzio – commenta Jorge Luís  Borges- che è possibile sentire i passi di Dio”. Similmente la parola poetica di Cristina di Lagopesole, come voce d’angelo venuta dal cielo accompagna il lettore di “ad Crucem” dalle tenebre dello spirito, dal “kaos” quotidiano, “ad lucem per crucem”, aiutandolo ad assaporare in un cammino che parte dai Vespri e termina alle Lodi, in unità di stadi, di vie, di gradi, di ore, di sensi e di virtù che conducono all’estasi attraverso la fede , la gioia della pace che viene da Cristo attraverso la Grazia e la Carità.  “Giunge nelle mani un filo santo/ su cui, liquida scende la carità/ E’ un filo immacolato che allaccia l’uomo,/su cui passa una musica soave/ uguale a nessun’altra./Nel cammino ascolta gli Angeli,/la musica del cosmo,/ il canto dei Luminari, il Soffio celeste,/ la gioia dell’unità:/ è sostanza di Dio”. (“Jugum suave caritatis” da “ad Crucem” pag.42) Partendo da una posizione squisitamente mistica che si richiama alla “scura notte” di Giovanni della Croce, al “castello interiore” di Santa Teresa D’Avila, Cristina di Lagopesole dimostra che la vita in tutti i suoi momenti, in tutte le sue stagioni è una liturgia da celebrare, essa riflette le Beatitudini del “Discorso della Montagna” che riguardano soprattutto la coscienza ed il cuore dell’uomo. E come i mistici medioevali orientali e come Rabibdranath Tagore ,che afferma “-che la gioia dell’arte consiste nella libertà di volare lontano a piacere della fantasia, poi anche dopo ritornati entro la prigione del mondo, un’eco permane nell’aria, un’esaltazione nella mente;- che la natura diviene realmente e sicuramente intima nei luoghi ignoti e solitari;- che l’individuo solo e l’infinito sono in termini uguali degni di guardarsi a vicenda ciascuno dal proprio trono” ( R.Tagore “Visioni Bengalesi” Fratelli Melita Ed. La Spezia 1992 pagg. 81,67,72) , anche la mistca lucana  sembra convenire  sullo stesso tono, nel “Canto della parola” (da il Libro del Pellegrino pag.141): “Nell’anima,dove miele d’Imetto/ è la Parola, versi liquido dolce/ scorri in musica,sbocci bianco/screziato di rosso, luminoso trascorri./ Non c’è dolcezza più grande/ della tua Parola ,Signore!”  Ed ammettere nel “Canto di meraviglia”(ib .pag.144) “ Ho cercato Dio che era in me/ fuori di me ,e in tutto l’ho trovato./ Egli, che la mia anima aveva, in ogni luogo/ si manifestava./Quel che più mi soggiogava/ mi teneva e gioia mi dava,/ era l’armonia incredibile che tutto/ allacciava e, in tutto, a lui rassomigliava/ Principio e Forma, in forma moltiplicata”. Nella visione cristiana della vita è evidente come la poetessa sottolinei, nei suoi versi, la possibilità data all’uomo,  creato ad immagine e somiglianza di Dio, di rispecchiarsi totalmente ed immergersi nell’infinita bellezza della Luce del Creatore: “Ad Isopata e vicino a Cnosso/ tra due mari, uomo e Dio/ si guardano e si riconoscono./ La Bellezza è con loro/ l’essenza del cielo e della terra/ un canto alternato.”,(”Canto di Letizia” ib. pag. 159)

Ringraziando i suoi maestri , da Angelus Silesius a Romano il Melode, Gregorio di Nazianzo, Cosma di Gerusalemme, da Andrea di Creta a Efrem il Siro, Eucherio di Lione, Callisto Xanthopouli, da Gregorio Magno a Guglielmo di Saint-Thierry,  a Giovanni della Croce, da Climaco a San Bonaventura, l’autrice dimostra di possedere e padroneggiare le strategie per diffondere la parola di Dio che nel biblico “Cantico dei Cantici” e nel francescano “Cantico delle Creature” trova l’exemplum per eccellenza dell’eloquenza sublime ed umile nella sua ricca povertà, a testimonianza diretta della sapienza di Dio, laddove l’allegoresi teologica riesce ad individuare dietro la realtà del senso immediato della scrittura gli archetipi di una verità di grado superiore e riesce ad operare una esegesi analogica per rappresentare verità astratte, con immagini paraboliche che si dispiegano contemporaneamente in una trama di sensi letterali, allegorici, morali ed anagogici. E’ così che lo stile apparentemente umile, semplice nella scelta semantica, proprio perché portatore di verità somme, risulta essere il più sublime. Fu proprio Dio il primo retore ad avere usato nei Salmi l’elegante “transuptio” “ex omni ligno paradisi comede” . E la sineddoche rivolta ad Adamo ed Eva diventa significativo esempio di figura poetica. Il convento, l’eremo, luogo deputato alla meditazione, protegge dalla sonorità della parola imponendo il silenzio nella “custodia oris” e nella “disciplina oris”. Ma l’individualità e la creatività dell’anima umana invitano al ritorno alla retorica classica dove il “citaredo” era capace di fare risuonare le corde del suo strumento “dissimiliter”, con piacevole “modulatio”.

In equilibrio tra il silenzio e la musica, la poesia di Cristina di Lagopesole, nella solitudine dell’eremo immerso nella natura tra bianchi roseti e ciliegi, trasforma il silenzio, il raccoglimento dell’anima in armonie del verso, denso di metafore ed allegorie, figure poetiche ed enjambement in un susseguirsi ritmico gustoso e ricercato nella proprietà lessicale dai richiami teologici e letterari. Una poesia “culta”, dunque che pur nella scelta del verso libero che vibra di un ritmo interno, non viene meno ai canoni della tradizione classica  nel richiamo alla poesia greca del verso alessandrino ed a quella poesia quantitativa dei ritmi dell’esametro mediolatino su cui i “clerici” della Gallia medioevale sperimentarono la possibilità espressiva del volgare, creando il metro di un poetare sillabico computativo –accentuativo,rimato, cesurato. Ed in effetti la “poetessa di Dio”, con l’eleganza di stile composito della sua produzione, sembrerebbe confermare l’intuizione critica del D’Ovidio per cui la ritma volgare e la latina “sono come due strisce di cui l’una scende dall’antichità verso di noi, l’altra sale da noi verso l’antichità, ma le loro estremità non s’incontrano così bene da combaciare in tutto”, mentre “ I versi corti sono in fondo membri o frammenti di un ritmo lungo, divenuti apparentemente autonomi o riusciti da ultimo ad una vera autonomia”( F. D’Ovidio “Sull’origine dei versi italiani”pagg.221-223 in “Versificazione romanza” Guida Napoli  1932).

 Autonomia che, ad esempio, nel verso libero delle ottave di Cristina di Lagopesole ne “Il libro del Pellegrino”, deve leggersi come armonia che si dipana come canto ,  come alchimia della parola che, nell’intrecciarsi nascosto di endecasillabi e settenari, quinari e novenari, decasillabi sdruccioli e piani, spezzati e fusi, ricorre alla magia dei numeri per entrare con una sequenza di segmenti metrici ben orchestrati, nei misteri dell’Universo e per rispondere alle esigenze dell’animo .

E il verso libero di Cristina canta “ Come pioggia bianca scende la Parola:/bianca stella dell’Ottavo Cielo, bianca nota./ La mia veste è tutta bianca sul petto fiorito/ di rosso. Sono luce i giorni.Luce spiegata/ tra stella e stella con al centro il sole,/ improvviso scampanio nella notte, smeraldo/violamaranto lillà,olio di papavero,mantello/ di Frisia, rossogiallo d’argilla, terra ruggine/” (“Canto dellOttavo Cielo” da il Ilbro del Pellegrino pag .33) 

Ed ancora “ Il mio Coppiere ha coppe di zaffiro fuso/ dove versa balsami d’iris e di aloe/..Con delicato passo a sé conduce/ l’alto e il lontano, lo specchio e la luce” “Canto estatico”( ib. Pag.31.)

Dove il “topos” della materia descritta risponde a due ordini di motivazioni, da una parte all’idea del bello legata all’armonia ed all’ordine, dall’altra all’assunto che l’essenza della bellezza derivi dalla luce divina. Tutte le metafore adoperate dall’autrice, allora si rifanno al principio della luce e tutte le descrizioni estetiche ricalcano il concetto di proporzionalità.

 “Fu usata come pietra di confine ma lei ne fece/la pietra di Giacobbe e su di essa innalzò la sua Beth-el./ Incise un mandala nel mezzo, con otto raggi, bianco/ Poi affrescò le camere segrete. Piantò orti di parole e alberi/ con frutti e foglie. Di notte disegnò cerchi tra ramo e ramo”

 “Canto della pietra di confine” (ib. Pag. 42)

Principi orientativi, questi, costanti, che nascono  dalle strutture psichiche prelogiche del profondo e dalla multiforme e ricercata sovrastruttura culturale dell’autrice. Ma soprattutto derivano dall’idea teologica che la produzione della materia da parte di Dio Creatore sia stata un atto di Parola, laddove Rivelazione e Creazione si fondono in un unicum. La Parola, allora, anagogicamente è qualsiasi oggetto della Creazione divina e, inversamente, qualsiasi oggetto creato richiama alla Parola :”Sacro il cuore dove tu entri/e spargi la parola antica/ Gode di te, quel cuore: è in te, con te/ sa di te. Congiunge mandorla e scorza/ albero e casa, terra rotonda e Sfera celeste/ ciò che nella mente si forma” (“Canto apofatico” ib. Pag151). Data l’equazione cosmo-scrittura, la scrittura può essere un inno, un poema,una musica, come vuole la tradizione patristica e come dimostra il parallelismo fra Bibbia e Natura  “Gode di te quel cuore:è in te, con te/ sa di te. Congiunge mandorla e scorza”( “Canto Apofatico “ ib pag 151).

 Stabilito il rapporto causa-effetto, creatore – creatura, autore-libro, poeta-verso, anche la pagina miniata può essere pittura di Dio ed è Verbo fatto carne a rappresentarne la magnificenza:  “In una icona, un pittore cretese, un giorno/ chiuse la gioia e la custodì nel tempo/.. Dall’Eternità sgorgarono ruscelli di grazia/..L’eco della Luce giunse su un foglio esatto/.. un uomo la trasformò in esatta simmetria, in ruscelli/ di note che si sparsero sulla terra, con frutti e foglie” (“Canto della gioia fondamentale” ib. Pag. 162).

Con un sapiente giuoco di allargamento semantico, la poetessa, poi, opera un processo di contiguità e dettagliamento delle figure analogiche, che non è semplice uso di metafora continuata, ma segue la via di estendere la motivazione che lega il figurante ed il figurato a tutte le possibili proprietà del sema, ad esempio “mani-festazione”, “rosaceleste”, “spittinio”, oltre  a richiamarsi a significanze teologiche, esoteriche, mitologiche.

Una produzione letteraria, quella di Cristina di Lagopesole, che potrebbe sembrare, a prima vista, soprattutto finalizzata al bello ed alla sua fruizione edonistica, rivolta ad una società culturalmente elitaria, attraverso un dialogo le cui retoriche presentano un codice ermeneutico per iniziati, abilmente strutturato in un neosofistico gioco intellettuale che richiede al lettore un ruolo attivo di comprensioni e collegamenti, in una stesura dei testi che risulta costellata di simboli speculari di una realtà ultraterrena il cui ordito metafisico è da ricostruire con l’allegoresi teologica. Viceversa, a ben osservare, la tessitura delle opere creative della poetessa lucana, realizzate sull’asse paradigmatico con l”ornatus difficilis” e sull’asse sintagmatico con l”ornatus facilis”, espandendosi e contraendosi orizzontalmente con operazioni di “amplificatio” e “breviatio”, così come  , architettonicamente, similmente si sviluppa , una cattedrale gotica nell’arditezza di guglie e pinnacoli e grande numero di fregi ornamentali decorativi come libro aperto di simboli liturgici, risulta essere struttura di eleganti equilibri e di trasparenti chiarezze.

Ed è soprattutto il “sermo umilis” dell”ornatus facilis” che la poetessa adopera prendendo a modello i Padri della Chiesa, linguaggio biblico semplice, rivolto a tutti, persuasivo, accessibile e piano, come pietra dura delle cattedrali, parola nel tempo che si fa pietra viva nel Tempio da lei costruito accanto all’eremo, che affascina e trascina a testimonianza di un Dio che si è fatto uomo tra gli uomini, per diventare ecumenico messaggio cristiano, Luce di significativa pregnanza, specie perchè a formularne lo splendore è un’anima femminile che traduce in parola il silenzio e la solitudine e non fa mistero della sua scelta di vita: “ Non so, Dio, quanto miele tu mi donasti:/certo,dalla coppa,tutto lo bevvi./Quando ogni goccia era finita/sentii che un’ape m’era entrata in petto./Da quel giorno mi colorai, mi spuntarono ali:/ divenni aria.Mi accordai col vento,le note,/gli Splendenti. Punti luminosi e brillanti/ diventarono musica,corpo inebriato,canto.”  (”Canto della metamorfosi” in “Il libro del Pellegrino”  pag.27).