I POETI DEL FARO D’ARGENTO
1995/96
CIRCOLO SOCIO-CULTURALE
"IL FARO" - RIPOSTO
INTRODUZIONE
Nel consegnare alla stampa il terzo volume de I POETI DEL FARO D’ARGENTO, dove sono inserite le liriche del Concorso Internazionale di Poesia Il Faro d’Argento, edizione 1995 e 1996, corre l’obbligo di ringraziare ancora una volta la Giuria, che, per entrambe le edizioni, è stata presieduta dalla Prof.ssa Angela Barbagallo e composta dal Cav. Aldo Italo Pagano, che ha redatto le motivazioni del premio, dal Prof. Giuseppe Piazza, dal Preside Prof. Aurelio Strano e dal Prof. Salvo Vasta.
Un grazie alla Segretaria, Prof.ssa Tina Belluzzi, al Presidente del Concorso, Prof. Salvatore Statello, che hanno coordinato tutti i lavori del Concorso, e all’Amministrazione Comunale di Riposto per la collaborazione.
Si ringraziano, infine, tutti i Poeti che, con le loro opere inviate, hanno dato ulteriore lustro alle attività di questo Circolo.
Si precisa ai lettori che, nella presente antologia, trovano soltanto le poesie la cui pubblicazione è stata espressamente autorizzata dagli Autori.
Inoltre, nel caso in cui un Poeta si sia collocato con più liriche nella graduatoria, la Giuria ha assegnato il premio alla poesia che ha ottenuto il punteggio più alto. Così si spiega la presenza nel volume di opere non premiate, ma altamente meritevoli.
Lucio Torrisi
PREFAZIONE
Scorrono gli anni e il vento porta con sé pollini e scarti di eventi che la memoria rifiuta, a volte per orrore, spesso per pudore nei confronti di ciò che serra nei meandri come tesori e come lievi odori da evocare all’anima per gratificarla. E lievi odori trasudano dai versi che il Circolo Socio-Culturale "Il Faro" si accinge a pubblicare, a testimonianza delle edizioni del Concorso di Poesia in lingua italiana, siciliana e straniera, svoltesi negli anni 1995 e 1996. Se la metafora risulta significante ed attagliata al senso che le si vuole dare, si può coniarla nell’offerta ai lettori di un armonioso bouquet in cui l’editore si è presa cura di ordinare poeticamente colori e suoni di parole in cui gli autori delle liriche premiate, organate nella rosa delle finaliste e contorniate in quella delle segnalate, hanno espresso, nei toni della malinconia, del ricordo, della speranza, delle emozioni, della disperazione, della fede e del sogno, il loro mondo, la loro luce interna, la loro volontà di lottare, di avanzare nel cammino della vita, rompendo la fredda quiete della morte con il fuoco dei valori che bruciano e purificano le scorie soffocanti della tentazione di scivolare nel nulla senza suono. Con una cadenza ritmata, a campata di ponte, al di sopra delle lingue e dei dialetti, le liriche componenti il volume si innestano in un substratum comune che privilegia le "voci" della Natura ed ora è il soffio del vento "il velo sonoro del tempo" interiorizzato metafisicamente a significare l’essenza dell’essere e dell’esistere, ora il tramonto a predisporre l’anima alla contemplazione, come è la "Timpesta" a scatenare nel grande seno del mare la paura e la pietà del cuore che si afferra alla fede per il raggio della salvezza.
Scorre il pensiero, a snodo di memoria, all’isola incantata e interroga senza un dialogante, "Dove nasce il mare?" nella disperazione di una terra "sospesa/ tra la vita e la morte/... di un fantasma che ingloba in sé "la casa del contadino,/ che s’insinua in ogni dove": La mia Sicilia!. E passa, greve, la parola della saggezza antica nella lirica in vernacolo, alla nostalgia di "All’ébbica" all’angoscia di preservare un figlio dai pericoli del mondo, in "Scuta li me’ paroli" mentre scorre il fiume dei dolci pensieri d’amore in liriche fresche come gocce di rugiada all’ombra in calde giornate di sole: (Realtà fiabesca", "Ti cercherò", ecc.). Poi... scavata come la pietra che da tempo immemore subisce l’offesa tormentosa dell’acqua e del sole, la poesia del dubbio, chiusa nell’ermetica della parola tesa al simbolo, come un muto ossimoro prosciugante la realtà nella tensione al nulla. E’ qui si incontrano poeti italiani, quali quelli di "Labirinti della solitudine", di "Dimensione", "Perché verde è il mare" e quelli stranieri di "Wiswa Geetan", di "Pilgrims" e di tanti altri. Ed infine, come a cingere di verde il bouquet della nostra metafora, le liriche "Voglio un figlio", "Speranza", "Bambina", come a dire , con delicate immagini, che la vita non può e non deve morire perché, Montale insegna, "quando morirà la vita, morirà la poesia, non necessaria perché la vita sia, ma valore perché la vita ‘viva’".
L’insufficiente della variegata tematica accennata per esemplificazione, mentre si spera solleciti il lettore a cogliere ciò che non poteva essere contenuto in una prefazione, consente di poter concordare con la critica sul valore positivo delle risultanze del Concorso di poesia portato avanti già per cinque anni dall’Associazione "Il Faro" e induce ad invitare sempre più numerosi poeti ad inserirsi nel dialogo senza frontiera che amanti della poesia offrono con questo concorso, al solo fine di gratificare ciò che di più nobile e di più puro c’è nell’animo umano.
Angela Barbagallo
IV EDIZIONE 1995
Sez. A
- Poesia in lingua italiana di Poeti italiani o stranieri, tradotti nella nostra lingua:1° - Non chiedetemi chi sono di Salvatore Leone, Delia (CL);
2° - I vecchi di Salvatore Puglia, Taormina (ME);
3° - I labirinti della solitudine di Sergio Barbieri, Voghera (PV);
3° - Voglio un figlio di Elena Cimino, Gela (CL);
4° - Tramonto di Nino Cirrincione, Bagheria (PA);
4° - Ulivi di Eliseo Pisinicca, Panicarola (PG);
5° - Amo, amo di Filippo Belfiore, Piedimonte Etneo (CT).
Sez. B
- Poesia in dialetto siciliano:1° - Scuta li me’ paroli di Franco la Pica, Taormina (ME);
2° - Lampari di Salvo Tucci, Catania;
3° - A me’ matri di Piera Lojacono, Cefalù (PA).
Poesie finaliste:
Mi manchi
di Roberto La Paglia, Catania;Nebbia Signora di Franco Gobbetti, Desenzano del Garda (BS);
La terra che amo di Carmelita Randazzo Nicotra, S. Pietro Clarenza (CT).
Premio speciale, fuori concorso, a Rino Giacone, Catania.
SEZ. A
POESIE IN LINGUA ITALIANA
I VECCHI Curvi con la testa china sul braciere sanno ascoltare nel buio le parole del silenzio sanno vedere la luce oltre quelle quattro mura e carpire i segreti al mondo che non li vuole più curiosando come bambini...
Parlano con frasi fatte intrise di proverbi e vorrebbero rubare alla gioventù, il tempo per sconfiggere la rabbia che li assale.
Parlano, parlano sempre per ingannare il tempo, per non sentirsi soli e pregano, quasi imprecano perché non è finita ancora...
Hanno occhi umidi di pianto anche se non piangono mai e mani rugose, tremule che aspettano una carezza invano.
Curvi senza speranze vivono senza più voglia
e nel silenzio si staccano dal ramo e se ne vanno come foglie, col vento... Salvatore Puglia (Taormina - ME) |
Se è vero, come è vero, che gli anziani sono i depositari della saggezza è, purtroppo, altrettanto vero che i giovani, in particolar modo ai giorni nostri, sentono poco il desiderio di accostarvisi per essere illuminati dai loro consigli.
E loro, i vecchi, si rendono perfettamente conto della indifferenza che li circonda e, nella loro saggezza, passano le giornate "con gli occhi umidi di pianto" nella speranza che qualcuno li degni di una parola, un gesto, una carezza, convinti come sono che l’unica carezza da cui certamente verranno sfiorati, è quella della fredda mano che li porterà verso il capolinea.
Argomento antico quello dei "Vecchi", ma sempre di grande attualità, che non poteva sfuggire all’attenta osservazione di un poeta dall’animo nobile e generoso come Salvatore Puglia, il quale, con versi di pregiata fattura e ricchi di sentimento, spinge, quasi inconsciamente, il lettore, ad una profonda e serena meditazione.
VOGLIO UN FIGLIO Voglio un figlio che mi si sgrani dall’anima che s’inoltri da questa carne
In un sacro silenzio si crei Da una goccia del cosmo m’attraversi Voglio un figlio che albeggi nel mio respiro Voglio occhi nascenti da cantare Un cuore gemmi dentro al mio cuore fino a sbocciare Una perla affiori sull’onda lasciato il guscio in fondo al mio mare un essere si formi da ogni mia piaga fatta dolcezza Un piccolo germogli dalle mie vittorie Per lui rinascano beati i miei inverni Voglio un figlio da trastullare Prenderà le mie fiabe e le allungherà aggiungendo le sue Ho cercato il più bel campo dove guardarlo giocare dove affidargli il vento adunargli tutto il sole e tinte odorose e verdi braccia e ali festose Il sussurro dell’erba che cresce e dell’erba che muore Voglio un figlio da cullare Per lui sarò nenia e parola Gli porgerò le stelle il volto di luna d’accarezzare Gli offrirò l’immenso ventre della notte per sognare Voglio un figlio da nutrire nella mia più viva essenza un figlio nuovo amore nuova forza da sentire da lasciare per toccare il giorno che continua Elena Cimino (Gela - CL) |
L’amore materno è, senza ombra di dubbio, il sentimento più bello di cui è dotato il genere umano. Per una donna, divenire madre, rappresente la massima aspirazione perché vede, nel figlio, non solo la continuazione della propria esistenza fisica, ma anche e soprattutto, il perpetuarsi dei propri sentimenti, delle proprie gioie, dei propri pensieri.
E quando questo dono del Signore, per un motivo o per un altro, tarda a venire, il desiderio della sua realizzazione diviene sempre più forte fine a spingere la donna a chiederlo nelle forme più accorate, come del resto fa, in modo mirabile, Elena Cimino.
"Voglio un figlio" dice, candidamente e senza sotterfugi, l’autrice, e lo ripete, con sfumature diverse, e con versi ricchi di sentimento, in una serie di splendidi quadretti, che danno, in modo inequivocabile, l’idea del suo desiderio: "...per toccare il giorno che continua".
I LABIRINTI DELLA SOLITUDINE I mondi di sogno, le infinite lontananze, le ambigue alternative, le arcane scatole cinesi, i polverosi graffiti che hanno lacerato un cuore:
sono soltanto vuote parole e vane frasi che galleggiano imputridite sull’immoto stagno della mia mente...
Un piccolo fiore bianco ed un minuscolo fradicio passero stanno aspettando da sempre che qualcuno
- per interrompere il "monotono languore" -
li scagli in quella stagnante distesa di avverbi di luogo e di tempo che più non riflette né bianchi alcioni né nuvole candide
che si sfioccano nell’infinito...
Resta solo il cardellino accecato che si pulisce e lima il becco contro le sbarre della sua gabbia dorata
e seguita a cantare lo strazio dell’ora o la struggenza dell’attimo che è passato senza lasciare traccia...
Sono parole, sono frasi che, pur con i colori del sole, non lasciano ombre. E non c’è alcun bambino che lascia orme di piedi nudi nell’accostarsi allo stagno.
E non c’è nessun ragazzo che getta la sua rosellina appassita per rompere la staticità di quella melma ricoperta da un palmo di acqua di speranza concentrica.
C’è solamente un uomo solo che attende immobile.
E nello specchiarsi in un vetro d’acqua riconosce la sua infinita labirintica solitudine. Sergio Barbieri (Voghera - PV) |
La solitudine è, senza dubbio, uno dei mali peggiori che affliggono l’animo umano. E quando ad essa si assommano i ricordi di una vita vissuta nella sua pienezza, il male diventa tanto atroce da spingere l’essere umano alla ricerca di quel quid che possa lenire, se non del tutto eliminare, i suoi effetti deleteri.
E Sergio Barbieri, poeta dall’impianto classico, nella sua lirica I Labirinti della solitudine ci indica, con una sequenza di versi meravigliosi e suggestivi, l’unica alternativa possibile: la rassegnazione. Quella rassegnazione che permette di accostarsi al presente in sintonia con il passato fino a fondere "presente e passato" in un immobile simbiosi d’attesa.
AMO, AMO Io amo, amo, amo il sole delle vette su cui il cielo s’impallidisce; la nenia, che tra i rami degli alberi accende fresco il Maestrale.
Amo il mare increspato, e tutto a colombelle, i cavalloni bellicosi che inseguono inverosimili fantasmi, gl’isolotti che emergono dal mare, le montagne che si spingono sino agli altipiani del cielo.
Amo le vallate come stese su un magnifico arazzo, l’opulenza delle cascate, bella la luna che valica le montagne.
Amo le cose semplici, la prima alba, i chiarori antelucani, il linguaggio dei bambini, puro e arcano perché non sanno dire bugie; amo la deifica natura. Amo tutto quello, che coincide col desiderio umile del mio cuore. Filippo Belfiore (Piedimonte E. - CT) |
Sembra quasi da non credere! Eppure, in questo mondo già alle soglie del 2000 in cui l’arroganza e la prepotenza sembrano farla da padroni, esiste ancora qualcuno che si ricorda dell’esistenza del vocabolo "umiltà" scrivendo di sentirsi trasportato da un amore profondo per tutto ciò "che coincide col desiderio umile del suo cuore".
E non si può non plaudire per quest’amore di Filippo Belfiore per le cose semplici di cui nella lirica Amo, amo con versi di raffinata fattura, fa una splendida elencazione che ci porta con il pensiero, sotto certi aspetti, al Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi.
Sezione B
POESIE
IN DIALETTO SICILIANO
SCUTA LI ME’ PAROLI Scuta li me’ paroli figghiu da luna è a luci du jiornu cca ti crisci penza a ddu suli quannu abbrisci grida a llu cièlu li to’ cuntintizzi e iddu t’arriàla u villutu di lla peddi ccussì comu alla natura duna li pinneddi sparannu a ritta e a manca li biddizzi, godini sinnò ti ‘mputrinisci.
Scuta li me’ paroli, non pinnicari troppu a giuvintù è na fulàta i ventu io stissu ‘nfina ‘eri avia vint’anni e oggi mi nni sentu cchiù di centu, forsi è stu carrucu i pinseri st’attentu, non ti nnimmicàri vali cchiù u cantu di n’acèddu cca è liburu i bulari cca di rricchizzi ‘ncòfunu, ‘mmunsèddu.
Scuta li me’ paroli, ci passai u puzzu da miseria, a fami nira ma jiancu d’intra comu nu linzolu e quannu arriva u scuru di lla sira rripòsu li me’ ossa senza dolu.
Scuta li me’ paroli, a ll’età toi visti lu ‘nfernu di lla guerra ma sugnu vivu e senza malatia ringraziu a Diu e baciu puru ‘nterra, ma u ne’ pinseri si rivorgi a tia.
Tirulu fora tuttu stu curaggiu, cchi valuri po’ aviri ‘mbàcchittùni, unu cca non fa nenti e n’òmu mortu, puru na rròsa ‘nsarbàggia ‘nto sarbàggiu.
L’amici è veru aprunu li porti ma sunnu pronti a chiudiri ‘mpurtùni e a to’ famigghia è chidda ccà si ‘mpùni tuttu lu pisu di lli to’ pinseri dannuti amuri e n’mari di cunfortu.
Forsi è l’età si pensu comu stai criscennu stortu, lu cori mi nni doli, figghiu da luna pirchì non ‘voi scutari li me’ paroli? Franco La Pica (Taormina - ME) |
Il periodo della giovinezza è, senza dubbio, la parte più bella dell’esistenza dell’essere umano, ma, sotto il profilo della lealtà, dell’onestà e della correttezza, è anche la parte più vulnerabile.
E Franco La Pica, uomo dotato di grande saggezza, anche perché ha avuto modo, suo malgrado, di formarsi all’ombra delle vicissitudini della Seconda Guerra Mondiale, come egli stesso scrive, ne è perfettamente consapevole.
Tanto ne è consapevole che, con la sua lirica Scuta li me’ paroli rivolge un accorato appello ad un giovane, che chiama metaforicamente "figlio della luna", perché si faccia coraggio e si allontani dalle cattive compagnie da cui è circondato.
Sono versi magnifici, vergati in ottimo siciliano, che danno l’esatta dimensione di un poeta dall’animo nobile e generoso che ha raggiunto il massimo della perfezione sia nei contenuti sia nello stile, spesso costellato da magnifiche similitudini "... puru na rròsa ‘nsarbaggia ‘nto sarbàggiu" (...anche una rosa diventa selvatica se cresce nel selvaggio).
LAMPARI Notti stiddata! Canticu di pùlichi e lampàri rassumigghianti a un novu coru d’Angili! Li piscaturi cantunu piscannu a largu mari.
Tra ‘na calata e nautra, c’è cu cuntenti rudi e si ‘ncannola; li masculini ammagghianu, si jinchinu casciola... e dumani si mangia pani friscu!...
Lu scuru cedu a la chiaria d’Albura ca lenta s’avvicina; Gesù, quanta abbunnanzia, di quanta grazia la varcuzza è china!
E supra li casciola chini di pisci, odurusi d’albura e di mari, lu primu suli d’oru astuta li lampari.
Mentra lu marinaru, ‘nostanti la fatica, e lu bruciuri di lu salamastru, si rimetti a vucari pi turnari a lu scaru. Salvo Tucci (Catania) |
Sin dai tempi più remoti, la pesca è stata una delle attività più praticate dal genere umano e non è difficile, anche ai giorni nostri, assistere, specie nei mari della nostra Sicilia, ad una notturna battuta di pesca in cui il tremolio delle lampare misto al tremulo luccichio delle stelle, si fonde, quasi in simbiosi, con il canto meraviglioso del pescatore.
Quello che, invece non è facile, è riuscire a coglierne la suggestiva sequenza delle immagini per tramandarle ai posteri. Per fare ciò occorre la sensibilità di un poeta! E sembra che Salvo Tucci non ne sia affatto privo se, nella sua lirica Lampari, riesce, in modo mirabile, con una serie di meravigliosi quadretti, in perfetta lingua siciliana, a dare al lettore, non solo una stupende visione del luogo e del tempo in cui si si svolge l’azione, ma anche e soprattutto, l’immagine dei pensieri, dei desideri, delle speranze del pescatore. Già, la speranza di chi sa che solo da un’ottima e abbondante pesca dipende, per alcuni giorni, il sostentamento suo e della sua famiglia: "... dumani si mangia pani friscu".
V EDIZIONE 1996
SEZ. A - POESIA IN LINGUA ITALIANA:
1° - Solo il soffio del vento di Ivano Mugnaini, Massarosa (LU);
2° - Al tramonto di Elena Cimino, Gela (CL);
3° - Pescatori di Giuseppe Risica, Tonnarella (ME);
4° - Il carrubo di Carmelita Randazzo Nicotra, S. Pietro Clarenza (CT);
5° - E quando ... di Alba Arcidiacono, Carlentini (SR).
SEZ. B - POESIA IN LINGUA STRANIERA:
1° - Instante gris di Nelsa Paz (Uruguay);
2° - Viswa Geetan (Mounam) di Mangalam Ramamoorthi (India);
3° - Hoy yo no se di Nelide Teresa Marzialetti Mariani (Uruguay);
4° - Espera di Emma Villarreal de Comacho (Messico);
5° - non assegnato.
SEZ. C - POESIA IN LINGUA SICILIANA:
1° - La causanza di Vito Tartaro, Ramacca (CT);
2° - Culura di la me’terra di Giovanni Noto, Aci S. Antonio (CT);
3° - U bisognu di Franco La Pica, Taormina (CT);
4° - Timpesta di Salvo Tucci, Catania;
5° - All’ébbica di Giovanni Bonaccorso, S. Tecla (CT).
POESIE FINALISTE:
Teresa di Calcutta di Angelo Manitta, Verzella (CT);
Dove nasce il mare? di Domenico Turco, Canicattì (CL);
Dov’è Dio? di Tina Giampaolo, Fiumefreddo di Sicilia (CT);
Lontano di Laura Maria Gabrielleschi, Grosseto;
Lode a Riposto di Rosario Leotta, S. Alfio (CT);
Attisa di Salvatore Cambria, S. Filippo del Mela (ME);
Autunnu di Salvatore Puglia, Taormina (ME).
SEZIONE A
POESIE
IN LINGUA ITALIANA
SOLO IL SOFFIO DEL VENTO Solo il soffio del vento il velo sonoro del tempo che sfiora orecchie stordite da stagnanti silenzi rimpiangerò davvero quando con scricchiolio breve la mano beffarda del buffo sicario pietoso serrerà l’ultima porta spalancando all’anima le lande brulle di un animoso, anodino vuoto,
solo il soffio del vento non discorsi e sentenze sagge catene di fonemi legate ai polsi della vita appese al collo di libere pulsioni, non frasi irritate o irridenti di ringhianti arringatori che sferzano la pelle morbida dell’armonia,
solo il soffio del vento rimpiangerò quel giorno assieme al ricordo di una voce o alla voce di un ricordo che è diventato vento forse per colpa mia. Ivano Mugnaini (MASSAROSA - LC) |
Non sempre ciò che sembra superbia è arroganza!
Eppure accade spesso che, questo vocabolo, viene gratuitamente utilizzato all’indirizzo di questa o di quell’altra persona colpevole solamente di espletare delle funzioni per le quali è necessaria una buona dose di impegno e di buona volontà.
A coloro che confondono la personalità con l’arroganza si può, senza tema di smentita, rispondere che i peggiori arroganti sono proprio loro perché si permettono di esternare dei giudizi senza averne alcun titolo e, nel contempo, si suggerisce una attenta lettura di questa lirica che è la fotografia sovrapposta di due momenti della vita di un essere umano: in questo caso quella dell’autore.
Con questi versi, di incommensurabile fattura, infatti, Ivano Mugnaini riesce, in modo mirabile, a fondere le due entità di cui si compone la sua esistenza: da un lato, la personalità che è spesso frutto di grandi soddisfazioni, e dall’altro, l’umiltà che lo spinge a dichiarare che, quando sarà giunto il momento, non glorie ed onori rimpiangerà, ma solamente "il soffio del vento assieme al ricordo di una voce, diventata vento, forse per colpa sua".
Un amore perduto? Può darsi!
AL TRAMONTO Lasciatemi così col cielo disteso sull’anima i desideri che svolazzano nel sole squarciato tra i colori che carezzano la pelle dell’infinito Pronti gli occhi per il velo precipite della sera tra i cinguettii che sfumano in mormorii di lunghe chiome d’ombra e remoti profumi che s’insinuano a sorsi di pace Elena Cimino (GELA - CL) |
Quanti sono coloro che, almeno per una volta, nonsi sono soffermati ad ammirare, in una tiepida serata d’autunno, la bellezza incontaminata di un tramonto?
Forse pochi! Forse nessuno!
Comunque, al di fuori di questa constatazione, è certo che, tale fenomeno, non è, quasi mai, sfuggito alla attenta osservazione dei poeti italiani e stranieri di tutti i tempi che ci hanno regalato pagine di incommensurabile valore letterario.
Ed Elena Cimino, che non ha nulla da invidiare ai grandi cantori dei fenomeni naturali, non poteva non cadere nella "trappola dorata" che madre natura si diletta a predisporre per tutti coloro che hanno il privilegio di essere dotati di spirito di osservazione e di grandi capacità descrittive.
Al tramonto è, infatti, una lirica magnifica che porta il lettore a toccare, quasi con mano, i suoi magnifici colori, trasportandolo, quasi inconscientemente, ad immergersi in una sorta di tranquillità celestiale ytra profumi di pregevole e ricercata fattura.
E QUANDO... Fluirono i giorni quando il tempo avrà un’acre sapore e il silenzio invaderà del limitato spazio le indefinite ore.
Rallenterai allora la tua corsa inerpicandoti sui minuti che prima parevano eterni;
risalirai i ricordi sfiorando tra le righe dimenticati versi che cullarono l’incolmabile malinconia, fedele amica dell’inquieta solitudine.
E il chiarore velato della luna, quando dell’inverno giungerà la sera, ti condurrà per l’incerto sentiero e lo spirare lieve del vento scompiglierà, come carezza, i tuoi capelli argentati. Alba Arcidiacono (CARLENTINI - SR) |
Quanti sono coloro che, in questa vita fatta di affanni, sacrifici, delusioni e speranze, riescono a fermarsi, almeno per un attimo, per rivolgere il pensiero al futuro e con esso ai giorni della propria vecchiaia?
Forse pochi! E tra questi pochi non poteva mancare Alba Arcidiacono, poetessa dotata di un alto grado di sensibilità e di grandi capacità espressive.
Nella lirica E quando... essa mriesce, infatti, ad evidenziare, con versi di pregiata fattura, la differenza sostanziale esistente tra il pensiero umano di un giovane e quello di un anziano. Per il primo, il tempo non scorre maied è sempre primavera; per il secondo, scorre troppo velocemente e fa sempre freddo, preludio dell’inverno che incalza: la sera eterna!
SEZIONE B
POESIE
IN LINGUA STRANIERA
VISWA GEETAM (Mounam) Song of the Universe (Silence) Can mounam (the silence) be The song of the universe! Penetrating like the gold Thongings through the Rainbow beads of Clamour!
Can mounam be the loud Lament when the sweet Desires fell apart or The pent-up fury couldn’t know The way to bubble and overflow?
Can mounam be din of pride When the heart could tongue it No more? And the brimming Joy is afraid lest the sound would steal it away!
Can mounam be the sympathy In the court of sorrow When words fail to show? When weeping dry what else be there? Yeh, all these and more! Yet the silence, the real mounam Is bliss, Aananda when I am within myself! Mangalam Ramamoorthi (Madras - India) |
Dice il dizionario: "Silenzio è l’assenza di suoni, di rumori, di voci", ma, per la mente feconda e ricca di fantasia del poeta, il silenzio può essere molto di più e può identificarsi, all’infinito, con tutte le sensazioni dell’animo umano che sono infinite.
Silenzio "... può essere l’inno dell’universo..." dice Mangalam Ramamoorthi, con i magnifici versi di questa lirica! Può essere lamento, può significare orgoglio! Ed ancora, può essere comprensione che giunge fino al profondo del cuore: "... il vero silenzio è beatitudine...", lasciando intendere che, nel silenzio più assoluto, ogni essere umano può raggiungere, idealmente, le mete più ambite.
HOY YO NO SÉ Hoy yo no sé si he andado lenta. No sé si he andado poco, regular o mucho.
Si yo sé que en la escalera opaca del cansancio acumulado un extraño silencio entra y sube por mi arterias arañando la banquina de mi existencia.
Una aguja perfora a mi alma. En otras almas. En otros senderos. En otrodestino.
Naufragando en una playa sensitiva de tangible crudeza y de secretas marejadas...
Hoy yo no sé como he andado. No lo sé bien. Y no me importa. Si yo he caminado por surcos soleados o por brumas macizas.
Si se que al fin soy yo, solamente yo... Duende, ojos, corazón, luz y ola... Y que igual sigo esperando cualquier cosa ilusionada en el puerto puntual de la nada... Nelide Teresa Marzialetti Mariani (S. José - Uruguay) |
ESPERA Cuando creas que todo ha terminado que no tengas esperanzas ni illusiones en tu vuda piensa que todavía hay milagros que sin saber por qué en la extrañezas germinan
Cuando todo en ti no tenga ensueños y tu pasos cansados nunca terminan piensa en tus bonitos recuerdos y déjalos que sean tus dueños
No los dejes nunca y verás que de nuevo, poco a poco brillan.
No te agobies por las cosas de este mundo, cada quien puede vivir su vida tú alégrate si tu sufrimiento es profundo, podrás ofrecerlo a Dios siempre en la día.
Así mientras otros no tienen nada qué ofrecer de gran valía tus penas serán un cántaro que llevas a los justos allá arriba. Emma Villarreal De Comacho (Messico) |
Se è vero come è vero che l’essere umano si distingue per le sue capacità intellettive è anche vero che egli ha il dovere di fare maggiormente uso del proprio intelletto nei momenti di particolare difficoltà! Se poiil ragionamento è supportato da un pizzico di fede, le difficoltà possono anche dissolversi nella "speranza" di un miracolo o lasciandosi cullare dai "bei ricordi" del passato.
Anche le sofferenze hanno il loro lato positivo, dice Emma Villarreal De Comacho, perché quando sarà giunto il momento, serviranno da credenziali per poter godere della gloria del Signore!
Una lirica dai contenuti religiosi? Può darsi, ma ricca, in ogni caso, di molta umiltà e di tanta, tanta personalità!
Sezione C
POESIE
IN DIALETTO SICILIANO
TIMPESTA Era Dicembri, l’ura di la basciura.
‘Na varca a largu mari; li piscaturi stanchi, avviliti di la jurnata di ‘na misira pisca, sistemunu li conzi... vogunu pi riturnari...
‘Ntuttuna lu Celu si fa ammarazzatu: di n-tràntulu li piscaturi su’ pigghiati vidennu ca lu mari si tramuta...
Nuvula agghiummarati si fannu chiù vicinu... Lampi, trona, acqua a diruttu... si scatinaru l’unni, nfrunta la dragunara ca n-ogni cori metti chiù paura. Lu Celu si ‘ncucchiava cu lu mari: li marinara, spersi ammenzu a l’unni, gridanu e si chiamanu fra d’iddi... guardannu ‘ncelu mannanu prijeri.
Salvatini! Salvatini o Signuri! E siddu lu peggiu duvissi accadìri... li nostri figghi non ti li scurdari!
Ma a l’intrasatta, comu ad un cumannu, s’ammaciò lu ventu e l’unni si cuitaru: li marinara ‘ncrocianu li rimi pi ringraziari lu Ridinturi.
Turnau la rema calanti... e mentri lu suli va pi tramuntari tinci di russu lu celu e lu mari, ridannu gioia e amuri a li so’ cori. Salvo Tucci (Catania) |
Basta sfogliare, anche con disinvoltura, una qualunque antologia per rendersi cinto che il lampo, il tuono, l’uragano, il terremoto, la tempesta sono argomenti che non sfuggono alla sensibilità del poeta che ne fa, spesso, oggetto delle proprie liriche.
E anche Salvo Tucci, poeta siciliano dall’impianto classico, non poteva non cantare uno di questi eventi della natura: la tempesta (timpesta).
Egli ha, però, la grande capacità di trattare l’argomento non già come un avvenimento a sé stante, ma nel contesto più ampio di una battuta di pesca.
Alcuni uomoni di mare, trovandosi in serie dofficoltà, si rivolgono a Dio perché li salvi (...Salvatini o Signuri...) e, se ciò non fosse possibile, per affidarGli i propri figli (...li nostri figghi non ti li scurdari!...).
Ed avviene il miracolo: il vento si placa e le onde si acqiuetano (...s’ammaciò lu ventu e l’unni si cuitaru...)
Quanta dolcezza in questi versi e quanta fede!
ALL’ÉBBICA All’ébbica, ‘nu vecchiu -cunta mo nannu Janu- ‘n campagna e nte cità era stimatu "sacru"; ‘n primisi comu omu e po’ comu anzianu: omu di spireienza di sennu e umanità riccu ‘i prudenza... Cuntava ‘n sucità cuntava e comu! Tinennu nta ‘na manu dui, tri famigghi; e lu rispettu ad iddu nta ddi civirtà da parti ‘i tutti niputeddi efigghi era "naturali".
Oggi n’è chiù cussì! Semu ora "sperti" ‘struiti, chiù civili, cussì dicemu e c’è cu’ n’u fa cridiri. E ‘ntantu l’anzianu vali nenti, non lu putemu vìdiri, cu d’iddu cumpurtannini di vili! "Ci havi l’arterii" " ‘ddivintau matusa" "è pisu p’a famigghia"... Chistu si dici! Vuliti a viritati? Semu nui cangiati: "Cosafitusa" semu ‘ddivintati.
Dicissi: "Figghia, i sacrifici ca pi tia, nica e finu a granni to patruzzu fici ti li scurdasti?". "E tu, so figghiu, chiù non pensi ô pani ca pi tant’anni a sbafu ti mangiasti, c’ora lu tratti comu fussi ‘n cani".
Dicitimi si sbagghiu. Sichitannu ‘i stu passu ‘n jornu l’avemu ‘i Diu cu l’ogghiu e l’agghiu!
Di tanti cosi putemu oggi vantarini ma tant’autri semu veri rei.
Picciotti e giuvineddi, amici miei arrifrittemu: " ‘n jornu ni sarà fattu zoccu all’autri facemu"! Giovanni Bonaccorso (Acireale-CT) |
Sì, è proprio così! Un tempo, l’uomo aveva molto rispetto per la terza età! L’anziano era stimato, rispettato e tenuto in grande considerazione! A lui, il giovane si rivolgeva per chiedere consigli e per essere illuminato!
Oggi, alle soglie del 2000, l’anziano è considerato uno sclerotico, un matusa, unpeso per la famiglia (...è pisu p’a famigghia...) del quale se ne farebbe volentieri a meno.
E questa realtà non poteva non cadere sotto l’attenta osservazione di un poeta dall’animo nobile e generoso come Giovanni Bonaccorso che, fra l’altro, ha fatto dell’altruismo la sua principale ragione di vita essendo un sacerdote molto attento alle problematiche della società moderna.
All’ébbica è una magnifica lirica, in versi siciliani, con la quale l’autore evidenzia, in modo mirabile, non solo la sua preoccupazione per un problema di così grande portata, ma con cui lancia anche un accorato monito alla nostra e alle generazioni future: ...’n jornu ni sarà fattu zoccu all’autru facemu!" (un giorno sarà fatto a noi ciò che oggi facciamo agli altri!).
Le poesie finaliste e segnalate sono presenti in questa pubblicazione, anche se qui non sono visualizzate.