I POETI DEL FARO D’ARGENTO 1998
CIRCOLO SOCIO-CULTURALE "IL FARO" - RIPOSTO
Proprietà letteraria riservata ai singoli Autori
EL FARO D’ARGENTO
El Faro d’Argento es una rica cencentración de la belleza que aflora en el libre impulso del pensamiento con profunda delicateza. Con diversas vibraciones del sentimiento en la lírica comunión de cosas comunes causas justas y valores escenciales la llama viva de la POESIA se hace organito de tradición popular, luz de ramillete de estrellas, gorjeo intuitivo de la conciencia, alianza tierna de la vida y voluntad sublime de la IDEA al servicio de la franqueza. A l r e d o r de los eventos transcurridos en el campo estético de la LETRAS UNIVERSALES el FARO DE ARGENTO con la bandera de la amistad a favor de la comunicación es como una infinita fuente de sensible grandeza. Teresa Nelide Marzialetti Mariani (San José - Uruguay)Si ringrazia vivamente la poetessa per l’attenzione e per la sensibilità mostrate nei confronti del Circolo Socio-Culturale "Il Faro" e per il Premio Internazionale di Poesia "Il Faro d’Argento".
INTRODUZIONE Parlare di poesia oggi potrebbe sembrare, agli occhi di molti, un puro esercizio di stile fine a se stesso. Pochi si fermano ad osservare gli innumerevoli mondi che la poesia ha sempre creato per l’animo umano, e tra quelli che lo fanno non sono molti quelli che riescono a trasmettere le sensazioni provate. Il Circolo Socio - Culturale "IL FARO" di Riposto, promuovendo il Premio Internazionale di Poesia "Il Faro d’Argento", giunto alla sua VII edizione, ha cercato di gettare un ponte tra il mondo della poesia e l’universo della vita quotidiana e questo volume è il frutto di questo sforzo costante. Un premio di poesia può essere tante cose. Può aprire la porta alla fama e alla celebrità oppure regalare attimi di effimera gloria destinati a perdersi nel mare della civiltà che tutto consuma, in un susseguirsi di riti e obiettivi da raggiungere. Può rivelarsi un foro dove mondi differenti si confrontano e si mettono in contatto, scambiandosi sensazioni e segni del loro esistere. E tanto altro ancora. "Il Faro d’Argento" ha sempre scelto la strada della poesia come punto di contatto tra mondi differenti. Mondi che hanno nei poeti i loro ambasciatori, ciascuno con il proprio bagaglio di esperienze, emozioni, sogni, delusioni e speranze, e che si incontrano per scambiarsi i loro frutti dell’animo. Poeti che regalano al pubblico pezzi della loro esistenza e che tengono accesa la fiammella del saper vedere con gli occhi del cuore il tutto ciò che ci circonda, senza lasciarsi avvolgere dal grigio manto della quotidianità. Ma un premio non può esistere senza i poeti ed a questi vanno i ringraziamenti più sentiti di chi vede nella poesia una via di fuga verso il nostro essere uomini. Ringraziamenti che raggiungono tutti i partecipanti, vincitori e non. Un ringraziamento particolare va ai quei poeti che hanno acconsentito alla pubblicazione delle loro opere premiate e per quelle non premiate, ma che hanno riportato un alto punteggio, dando così la possibilità al pubblico di incontrare i loro mondi e le loro emozioni. Un grazie ancora a tutti i membri della Giuria, che con spirito di sacrificio e amore per la cultura, ha collaborato alla realizzazione del concorso. Un grazie anche all’Amministrazione del comune di Riposto per il patrocinio e soprattutto nella persona dell’assessore alla Cultura, prof. Roberto Di Bella, per la collaborazione. Si ricorda infine, che le motivazioni delle poesie premiate sono state redatte da Linda Auditore, Graziella Carota, Daniele Spanò, Fulvia Toscano e Salvo Vasta. Mentre le poesie in lingua straniera sono state tradotte da Graziella Carota, Francesco Micalizzi e Pinella Puglisi Corrado Petralia
PREFAZIONE È mia convinzione che lo svolgimento di un premio letterario possa essere considerato un evento importante non solo perché attribuisce il meritato riconoscimento alle opere dell’ingegno ma anche perché rappresenta una occasione altrettanto importante per svolgere un discorso che non sia quello consueto della quotidianità e che inserisce in questa le luci e i bagliori di quella che potrebbe, ma difficilmente è, un’altra quotidianità nella quale i valori dell’arte non siano solamente occasionalmente vissuti ma costituiscano anch’essi elementi basilari e importanti del quotidiano svolgersi della vita. A conferma di quanto appena detto ho potuto esperire che adempiere all’incarico di presidente di un premio letterario o di componente della giuria è una esperienza fortemente arricchente sia dal punto di vista umano che culturale. E specialmente di un premio che si articola in molte sezioni come questo indetto dal Circolo Socio-Culturale "Il Faro", giunto ormai alla settima edizione, la qual cosa penso possa essere considerata testimonianza della sua vitalità. E’ una esperienza arricchente poiché necessariamente ci si mette in rapporto, cosa altrimenti difficile da realizzare, con una variegatissima gamma di testi quasi contemporaneamente, per cui le voci giungono in certo qual modo simultanee, ognuna con impronte e toni personali che denotano mondi interiori, esperienze artistiche, travagli del pensiero che si inseriscono in una contemporaneità nella quale i pensieri ed i comportamenti degli uomini sembrano sollecitati sempre più dalla materialità e i problemi da affrontare e risolvere, piuttosto che problemi che riguardano l’essere, risultano riguardare l’esistere nei suoi più immediati, banali e a volte anche più triviali aspetti. L’impressione che si ha allora, venendo a contatto con tanti poeti e scrittori che parlano soprattutto di altre cose, è di penetrare un’atmosfera diversa, di respirare un altro ossigeno, che non sia quello inquinato dal banale dell’esistenza ma quello purificato da un meccanismo che distilla i pensieri e poi li svolge in armoniose volute, sia che si affrontino i temi dell’esistere sia i temi che riguardano l’essere. E in questa tensione a trascendere la banalità dell’esistenza e a volerne dare testimonianza attraverso la scrittura e la partecipazione ad un premio letterario credo che consista una delle peculiarità alte del premio medesimo. E se poi le opere che pervengono, oltre all’aspirazione alla poesia e all’arte dello scrivere, possiedono anche contenuto e forma di poesia e di arte per cui ci si possa rammaricare, dovendo necessariamente operare una scelta, di non potere assegnare alla maggior parte dei partecipanti un riconoscimento, allora il premio acquista un valore che va oltre l’aspirazione alla poesia. Ma a prescindere dai riconoscimenti penso che sia meritevole di lode ogni tentativo di accedere, attraverso la scrittura, alla rarefatta atmosfera dell’arte. E allora se uno che scrive poesie o racconti o romanzi o saggi o altro, ad un certo punto, per pudore, per intransigenza, per deficienza di sopportazione del dolore che lo scrivere comporta, per sufficienza, per delusione:- ché tanto per quanto si sia geniali nessuno se ne accorge- per il sopravvento del quotidiano e del contingente, per l’equilibrio compromesso dal peregrinare della parola in spazi e luoghi nei quali è facile smarrirsi, dovesse prendere la decisione di smettere di scrivere, è bene che verifichi se questa sia una scelta equilibrata e saggia o non, al contrario, un errore castrante le proprie capacità creative, una perdita di identità generativa, una scelta di castità difficile da sopportare. A volte accade infatti che, pur avendo scelto di non più scrivere, l’impulso abbia il sopravvento e si trasgredisce e ci si perde nel peccato, travagliati da un contrasto interiore, per il fascino di ciò che si fa, per la dolcezza che se ne prova, come per un peccato d’amore, e nello stesso tempo percorsi e addolorati dall’incapacità di non mantenere il proposito di non più peccare di penna. E questo per significare quanto sia prepotente il desiderio dell’arte e quanto, nel contempo, sia difficile l’arte dello scrivere e quanta maestria abbisogni al poeta e allo scrittore per la produzione di opere aventi decoro e pregevolezza sebbene non ancora, o sempre, capolavori. E se aver avuto assegnato un premio letterario può essere motivo di soddisfazione, il non essere selezionati, a mio avviso, non dovrebbe essere motivo di scoramento e di frustrazione, poiché non è importante, a mio parere, vincere un premio quanto piuttosto produrre il meglio di cui si è capaci. Ed è già tanto avere ambizioni di arte nello scrivere, misurarsi con la parola che fin quando non si fa poesia, racconto, romanzo, saggio od altro, è pur sempre materiale grezzo ed inerte. La parola di per sé insensata che però nel contesto si fa forma e contenuto, significando il pensiero, lo stato d’animo, la condizione interiore dell’artista che della parola aspira ad essere il padrone ed a conoscerla in tutte le sue infinite sfumature, a signoreggiarla, a renderla arrendevole al sua pensiero, a collocarla, come in un mosaico al posto in cui emani il massimo della luce o del contrasto, o a velarla, a nasconderla, a smussarla ad incastro, ad inserirla come pietra di base od apicale, ornamentale, a bugnato o rustica, poiché ogni parola può essere lastra di marmo o sasso terroso, pietra nera di basalto o pietra bianca e tenera, impasto di bassa lega o nobile metallo, pietra dura o gemma rilucente con cui costruire un’opera che urge dentro. E allora, se la letteratura, la poesia, l’arte generalmente intesa concorrono a trasportare ad una condizione più elevata di sentire e di vivere, ben vengano gli appuntamenti con la poesia e con l’arte, ed in questa attività di promozione, le istituzioni si facciano carico di apportare il loro contributo, assecondando anche le iniziative delle associazioni e degli artisti e promuovendo, anche autonomamente, occasioni di inserimento di eventi artistici e culturali nello svolgersi della vita della comunità. Enrico Carbone
POESIE PREMIATE: Sez. A (POESIE IN LINGUA ITALIANA): 1) Il cielo oscurato di Nicola Martino(Veroli -FR); 2) Rosa d’Alzheimer di Maria Grazia Landi (Viterbo); 3) Le notti d’inverno di Gennero De Falco (Napoli); 4) Chiara la luna di Marcello Amico (Messina); 5) Muti indizi di Elena Cimino (Gela -CL). Poesie Segnalate: - Sete che non si spegne di O. Barbagallo (Mascali - CT; - La giostra di A. Campisano Cancemi (Caltagirone - CT); - Ho imparato a vivere di Franca Fusco (Trieste); - La mia sorgente di Tanya Guzzardella (Sciacca - AG). Sez. B (POESIE IN LINGUA STRANIERA): 1) Testamento di Nelsa Paz (Uruguay); 2) Ritratto del pianeta-testa di Ferit Lamaj (Albania); 3) Third movement di Kim Yong Pal (USA); 4) Llevar o ser llevado di Santiago Miguel Bao (Argentina). Sez. C (POESIE IN DIALETTO SICILIANO): 1) A ‘n amicu ca parti pi l’Australia di Vito Tartaro (Ramacca - CT); 2) Patri di Paolo Salamone (Palagonia - CT); 3) Belle di notte di Michele Lizzio (Roma); 4) Vecchia campana di Diana F. Ferraro (Palagonia - CT); 5) Mi piaci pinzari di Salvatore Puglia (Taormina - ME). Poesie Segnalate: - Patri di Mario Bonanno Conti (Messina); - A na cumpagna ‘i scola di Silvana Parente (Roma). Sez. D (SILLOGE INEDITA): 1) Collezione di attimi di S. Cardellini (Monteciccardo - PS);) 2) Vocativi filiali di G. Samperi (Castel di Judica - CT); 3) Acqua frisca di Wanda Melfa (Enna). Sez. E (SILLOGE EDITA): 1) Moltitudine sola di Franco Gobbetti (Desenzano - BS); 2)) Vespero di Vittoria Gigante (Messina); 3) Convito di ninfe di G. Bevilacqua (Piazza Armerina - EN). Sez. F (RACCONTO INEDITO): 1) Il ritratto di Giuseppe Risica (Tonnarella - ME); 2) Il sogno d’un manichino musicista di Letizia Santanna (Prato).
Premio speciale fuori concorso a Clelia Rol.
GIURIA: Prof. Enrico Carbone (Presidente) Prof.ssa Linda Auditore Prof.ssa Clorinda Bartoccioni Prof.ssa Graziella Carota Dott. Francesco Micalizzi Prof. Giuseppe Pavone Dott.ssa Pinella Puglisi Sig. Daniele Spanò Prof. Aurelio Strano Prof.ssa Fulvia Toscano Prof. Salvatore Vasta Prof. Vincenzo Vasta Sig. Corrado Petralia (Segretario)
SEZ. A POESIE IN LINGUA ITALIANA
IL CIELO OSCURATO Il cielo oscurato si sbriciola addosso il tuo cuore è con me, una grata di meridiane inchioda la luna negli occhi il cuore è da me. Cerca un taglio d’acqua voglio essere il cristallo che fissa il mondo. Tu trasparente a tutto ottica obliqua prospettiva implicata contieni l’orizzonte aperto e chiedi al mare ali smisurate per nuotare abbracciati. Nicola Martino (Veroli - FR) L’amore costituisce il fondamento della ricerca della lirica intera che assume così il valore d’una dichiarazione stridula e sofferta, quasi spezzata nel ritmo incessante dell’invocazione all’amata, figura più ideale che reale. Un desiderio di appartenenza ad un tutto totalizzante e smisurato.Il poeta, quindi, si compenetra nelle cose fino a diventare materia inerte. Nicola Martino, ingegnere, è nato e opera a Veroli (FR)
ROSA D’ALZHEIMER Ieri, impalpabili stille di buio si posaron leggere negli intimi anfratti ove pasce il pensiero; nelle polle azzurine ove zampillano chiare parole d’amore; nelle gole profonde ove i bianchi cavalli del tuo desiderio arditi galoppano senza morso né briglie. Oggi, quel buio s’è fatto più denso. I suoi fiotti pesanti forman laghi, cascate, gorghi di Mälstrom che vanno a sommergere le torri più alte della tua conoscenza, le vette più acute delle mete sognate. E in quell’Atlantide ormai inabissata, io t’ho perduta, sorella mia. Ora è Alice che affiora dall’abisso del Tempo e ignara s’aggira in un mondo impossibile, senza un prima né un dopo, senza un verbo sensato, senza mare né cielo. Solo rupi di roccia indurita solo canyons profondi ove indiani agguerriti fanno scempio dell’ultima rosa. Maria Grazia Landi (Viterbo) Il male che attanaglia la sorella è la spinta profonda a comporre versi di struggente rimpianto in cui l’affermarsi giorno dopo giorno del morbo assume la forma d’una pioggia leggera e impalpabile e che a poco a poco diventa lago, cascata, gorgo, fino a trasformarsi in Atlantide. Quella terra inabissata e perduta, come lo spirito e la coscienza, per sempre. Maria Grazia Landi, già direttrice didattica, è nata e vive a Viterbo
LE NOTTI D’INVERNO... a F.F. Le notti d’inverno ti farò caldi mantelli con le pieghe del vento E come antico fabbro d’amore ti costruirò anelli incastonati di stelle E sarò felice modulato come in un palpito nel tuo cuore Mentre mi piegherò sull’erba morbida per baciarti, come se fossi di Terra E il profumo della tua pelle sarà come granoturco dorato di primavera. Gennaro De Falco (Napoli) Il coinvolgimento amoroso porta l’autore a costruire immagini vibranti e leggere, in cui prevale una sorta di panismo dal sapore dannunziano. Un effondersi del canto dentro la natura e le cose, fino a piegarle a nuove forme e ad uniformarsene poi egli stesso, rendendo il proprio corpo e quello della donna granoturco dorato. Gennaro De Falco, nato a Napoli nel 1976, studia giurisprudenza all’Università Federico II. Da circa un anno partecipa a concorsi letterari: poeta già finalista al "Faro d’Argento 1997", al XXI Premio Letterario "Marco Delpino", "Premio Age Bassi 1997" ed al "Meliusum 1998. Il suo interesse si focalizza sulla poesia del Novecento. Principi fondamentali della sua esperienza poetica sono la solitudine e l’incomunicabilità dell’artista, la poesia come un "dover essere", dimensione da consumare nell’individualismo e nell’irrepetibilità dell’ispirazione.
CHIARA LA LUNA Chiara la luna sguscia tra lo scuro e sveglia a un’ora la mia notte Mi è dolce abbandonarmi al tuo tepore dolce carezza di parole mute Ma pallida t’incenerisci al sole e il sonno mi riprende nell’albore. Marcello Amico (Messina) L’apparizione della luna sembra quasi assumere il significato di un risveglio dell’animo verso nuove o perdute sensazioni. Un vano simulacro di desideri riemersi, ma destinati poi a disperdersi con la luce del giorno. Ed è come se l’autore, infine, ricadesse impotente in quel letargo dello spirito. Marcello Amico, nato a S. Filippo del Mela, vive e opera a Messina.
MUTI INDIZI Rintocchi sospesi nel vento ultimativo d’un giorno Una chiesa a qualche passo e Dio immerso nella voce del tramonto Respirare è difficile dentro questo silenzio Incontrando l’ultimo autunno negli occhi imbruniti di una vita che muore E sognando fino alla radice del cuore che una vita mi nasca Tutto ondeggiando nel tempo d’una foglia che si stacca... Elena Cimino (Gela - CL) Il giorno che volge al termine, una stagione finita sotto gli occhi stanchi di chi avverte la fine dell’esistenza o ne sente il presagio ed ogni fede, ogni illusione, ogni spiraglio dell’umano sapere si svuota di significato, per lasciare posto al silenzio che pervade tutte le cose. Elena Cimino, nata a Gela (CL) nel 1968, vive ed opera a Milano. Poetessa pluripremiata a "Il Faro d’Argento", "S. Normanno", "Gela Nostra", "Città di Avellino", "Torre di Ligny", "Comune di Pieve di Soligo", "Surrentinum", "La Poesia del 1996" della rvista "La Nuova Tribuna Letteraria", è presente in diverse antologie e riviste.
POESIE SEGNALATE
HO IMPARATO A VIVERE Non ti conosco, nostalgia di cose perdute, di amori finiti, di gioventù trascorsa. Vivo al presente, di quotidianità di sensazioni, affetti. Assorbo stille di gioia che il Ciel mi manda come rugiada sul prato della vita. Ciò ch’è stato è lontano. Ho attraversato più vite ed ogni volta ho ben chiuso la porta. Forse, questa sarà l’ultima stanza. Al di là dell’ultima porta, la felicità. Franca Fusco (Trieste )Franca Fusco è nata e vive a Trieste nel 1946. Si è classificata al primo posto nei seguenti concorsi: "S. Paolo (Treviso), "Brontolo" (SA), "G. Ungaretti" (Roma), "Club La Fonte" (Trieste), "Solofra" (AV), "C. Pavese- M. Gori" (CN).
LA MIA SORGENTE Fluenti giornate come gocce, lavano dense reminiscenze. Il dimenarsi di un’essenza, è gorgoglio costante nella sorgente. Osservo sul mio volto l’accaduto ed il mutato e... scorgo l’attesa. Tanya Guzzardella (Sciacca - AG)
SEZIONE B POESIE IN LINGUA STRANIERA
TESTAMENTO Dopo che l’ultimo marciapiede calpesti nell’ultima scala del viaggio che senza ritorno sto intraprendendo con la mia anima, voglio che sia Kiyú a ricevermi nelle sue acque. Non voglio essere uno spettro né un’ombra né un fantasma in posizione orizzontale prigioniera nel sudario. Voglio restare a Kiyú per sempre fra le sue acque... che le mie sottili ceneri si confondano colle acque e che facciano ronde nelle onde quando accarezzano le spiagge. Voglio giocare nel tempo più in là della speranza; al mare che mi diede nel suo canto con liriche serenate infinità di leggende delle epoche arcane, voglio dargli le mie ceneri che vogando fra le sue acque restino qui nel mio Kiyú, vibranti e liberate affinché abbia un’altra storia da raccontare nelle mattine e quando si prolungheranno le sere nelle notti stellate... Nelsa Paz (Uruguay) Per aver saputo dar voce al bisogno, insito nella natura stessa dell’uomo, di superare i limiti della transitorietà, rifiutando il potere devastante della morte e affidando alle acque limpide di un fiume le proprie speranze di eternità. L’invocazione al fiume Kiyú ad accogliere le sue ceneri "vibranti e liberate" non è che l’espressione di un’anima che vuole "giocare nel tempo/ più in là della speranza", confondersi con gli elementi della natura, diventare natura essa stessa. Nelsa Paz, nata sotto il segno dell’acquario a San José de Mayo in Uruguay, insegnante in pensione, è stata insignita della medaglia d’argento per i suoi meriti culturali. "Avida di conoscenza", si è interessata di relazioni umane, dinamica della personalità e arte del ben parlare, di filosofia e di scienze esoteriche. Oltre una diecina sono le sue pubblicazioni in prosa e in versi, tradotte anche in altre lingue. Innumerevoli sono i premi nazionali e internazionali conferitele. Più volte premiata anche al concorso "Il Faro d’Argento". È membro della IWA (International Writher and Artists Association). TESTAMENTO Después que el último andén pise en la postrer escala del viaje que sin retorno voy emprendiendo con mi alma, quiero que sea Kiyú quien me reciba en sus aguas. No quiero ser un espectro ni una sombra ni un fantasma en postura horizontal prisionera en la mortaja. Quiero quedarme en Kiyú para siempre entre sus aguas... que mis sutiles cenizas se confundan con las algas y hagan rondas en las olas cuando acarician la playa. Quiero jugar en el tiempo más allá de la esperanza; al mar que me dio en su canto con líricas serenatas infinidad de leyendas de las épocas arcanas, quiero darle mis cenizas que bogando entre sus aguas queden aquí, en mi Kiyú, vibrantes y liberadas para que tenga otra historia que contar en las mañanas y al prolongarse las tardes en las noches estrelladas...! Nelsa Paz (Uruguay)
RITRATTO DEL PIANETA-TESTA Pianeta-testa, che testa hai! Super-Stati, mini-Stati. Stati-Labbra, labbra a labbra Stato-Lingua, chiacchierano con la febbre. Stato-Bocca, guai a te! Tu mordi per una volta! Lo Stato-Naso si pulisce un po’, Ovunque esso può. Con la pace gli Stati-Giochi Si baloccano, si baloccano! Lo Stato-Fronte è rugoso, Com’è pesante il suo pensiero! E tu, chioma dello Stato-Bosco Che hai dentro, lupi, gatti, porci o cosa? Gli Stati-Orecchio, orecchio a orecchio, "Questo pianeta come scoppia, OK!" Gli Stati-Occhi sono proprio due, La loro vista dipende veramente da essi!? Questo Pianeta-Testa, una testa a parte, È una vera Superstar Ferit Lamaj (Albania) GLOBI - KOKË Globi - Kokë glob më vete, supershtete, minishtete. Shtetet - Buzë buzabuzë, shteti - Gjuhë pjell akuzë. Shteti - Gojë, shteti - Gojë po u hap, diç do kafshojë. Shteti - Hundë shfryn ku mund. Shtetet - Faqe lypin paqe. Shteti - Ballë rrudhat palë. Thellë ç’ fsheh pyllshteti-Flok: derra, ujqër a maçokë? Shtetet - Veshë vesh më vesh: "Koka... glob apo përshesh!" Shtete - Sy na qenkan dy, kanë sy a s’kanë sy!? Globi - Kokë djeg si furrë. ... Deri kur? Deri kur? (testo originale) Per l’originalità con cui ha saputo trattare un tema di per sé scontato, evitando la retorica e il facile moralismo e dimostrando che il gioco e l’ironia riescono a creare accordi melodiosi sulle note della verità. Una verità spesso difficile da accettare - "e tu, chioma dello stato Bosco,/ che hai dentro, lupi, gatti, porci, o cosa?" - dice il poeta; quello che sembra inequivocabile, non sempre lo è ma "la loro vista dipende veramente da essi?" dice ancora, riferendosi al pianeta occhi; eppure la voglia (o il bisogno?) di giocare con le parole è l’espressione di un ottimismo che sopravvive in questo pianeta "che scoppia", su tutto e nonostante tutto. Ferit Lamaj, 43 anni, nato a Corça (Albania), oltre che poeta, è il più originale e produttivo tra i favolisti albanesi. Ha già pubblicato 35 volumi contenenti oltre 1000 favole. È vincitore di premi nazionali (in Albania) e internazionali, tra cui si ricorda il premio :"La Fontaine" e il premio alla Carriera. Al momento della premiazione del presente concorso era borsista in Germania, presso la Biblioteca Nazionale di Monaco, per degli studi sulla favolistica europea.
TRASPORTARE O ESSERE TRASPORTATO Indica la caparbia geometria dell’esagono la sopravvivenza dell’ape o tutto finirebbe per loro in cellette triangolari? Il nostro destino è una trama inalterabile o la andiamo tessendo nodo dopo nodo ogni giorno? Quando penetriamo nelle correnti di un fiume, quanto sarebbe meglio: cambiare il suo corso un istante o lasciarsi trasportare dall’acqua? Ci ferma l’esistenza o il nostro pensiero mette in evidenza il tempo? Per sopravvivere Dovremmo trasportare o essere trasportati. Miguel Santiago Bao (Argentina)
LLEVAR O SER LLEVADO Indica la terca geometría del exágono la supervivencia de las abejas o todo acabaría para ellas en celdillas triangulares? Nuestro destino es una trama inalterable o lo vamos tejendo nudo a nudo cada día? Cuando penetramos en la corriente de un río, que será mejor: cambiar su curso un istante o dejarnos llevar por el agua? Nos arrastra la existencia o nuestro pensamiento pone en evidencia al tiempo? Para sobrevivir: tendremos que llevar o dejarnos llevar? Miguel Santiago Bao (Argentina) Per aver riproposto uno degli interrogativi che più hanno assillato l’umanità, senza cadere nella tentazione di dare a tutti i costi una risposta. Agire o lasciarsi trascinare dagli eventi? È l’uomo artefice del proprio destino o una semplice pedina destinata a seguire mosse obbligate sulla scacchiera del tempo? Il poeta non dà risposte, non pretende di averne; il suo potrebbe sembrare un puro esercizio stilistico o un invito a riflettere sul significato della nostra esistenza. Ci piace, però, vedere, nell’immagine della trama tessuta "nodo dopo nodo ogni giorno" o nella "caparbietà" con cui le api costruiscono "cellette triangolari", il desiderio di asserire il valore e la dignità del nostro operato, al di sopra e al di là del suo potere di incidere sul nostro destino.Santiago Miguel Bao è nato a S. Fernando (Buenos Aires) nel 1936 e vive a Villa Gesell (Argentina). Ha compiuto studi di antropologia. È presente in molte antologie internazionali. Ha ottenuto vari premi, tra cui si ricordano quelli dell’Associazione Interamericana degli Scrittori, della rivista Intento, del Centro Culturale Bernardino Rivadavia-Ituzaingó. Ricordiamo, infine, la sua silloge: "Lavori forzati".
SEZIONE C
A ‘N AMICU CA PARTI PI L’AUSTRALIA Pòrtiti canzuni di l’aria sapuri di vasuni di matri ciavuru di finocchiu rizzu Sàrbili boni dintra la mimoria E su resta largasìa silenziu nutturnu quagghiatu di sciroppu di luna e vucilizziu di carusi sgriddati di la scola Sàrbili boni cà quannu varchìa la saluti e pinìu parturisci lammicu ti fannu parìri rijuncu la via pi l’eternu silenziu Portitilla na fogghia di tinnirumi di vita. Vito Tartaro (Ramacca - CT) Con spessore semantico rilevante, innervato a costrutti metaforicamente e linguisticamente propri della lingua di Sicilia, il poeta riesce a "superare" esteticamente distanze fisiche oltremodo incolmabili. Esaltando del vissuto la spiccata ed inespungibile valenza memoriale. Vito Tartaro, fine poeta dialettale, già funzionario amministrativo, è nato e vive a Ramacca (CT). Ha pubblicato varie opere poetiche e storiche. Oltre una quarantina sono i premi conferitegli. Più volte è stato premiato a "Il Faro d’Argento".
PATRI Stasira, rapiennu u suttascala, visti li to robbi do travagghiu: a to scuzzetta co piddicuddu ‘n centru, i causi ‘nfangati ne viloni, i scarpi che lazzi chini e ruppa… e sintiu ‘n sciauru di campagna di suduri mmiscatu a erba e terra. Circaiu no tascappanu na ficudinna senza spini ‘mpinta a la so pala, ‘n panispagnu tennuru, n’aranciu fora tempu nuci virdi ppi iucari a Dovianu… (luntanu sù li siri quannu, turnannu a pedi, do travagghiu sudatu e filici lassava cumpagni e iocu e ti satava ‘ncuoddu) vi truvaiu ‘n cuteddu spirnatu d’inzitari cu na lama rrusicata do mmulari, e tra muddichi amari e sicchi… a tò foffici di rimunnari. Su ott’antanni, ora, ca riposi ‘npaci e no mentri pur’iu divintaiu patri, ma ddi mumenti priziusi, fatti di nenti, li portu cu mmia finu a quannu lu me suli nun si stuta… cancillannu ddi vampi d’amuri co ‘ngnornu m’addumasti accussì vivi Paolo Salamone (Palagonia - CT) Il ritorno al passato non è soltanto memoria. Ma giustifica con il suo percorso la condizione esistenziale del presente. Anche per un solo particolare dell’"essere stato" è possibile ricercare e trovare molte ragioni per contrarre un debito mai estinguibile. Paolo Salamone è nato a Palagonia (CT) nel 1954, ed ivi risiede ed opera. Numerosi sono i premi vinti: Si ricordano: Concorso Internazionale di Agrigento per la tesi di laurea su Pirandello, Medaglia della rivista "Logos" per l’articolo: "La poesia di Eugenio Montale". Altri: "Angolo del Poeta", "Rinascita", "Solarium", "Surrentinum", Federico II di Svevia", "Golfo di Patti", "Festa dell’Anziano", "Ignazio Russo", "Turi Zappalà", "Terra d’Agavi", "Ninfa Kamarina", "Città di Marineo", "Meliusium", "Rocco Certo", "S. Teodoro", "Rosario Piccolo", "Cava de’ Tirreni", "Carlo Goldoni".
BELLE DI NOTTE ‘Na brutta sira umida e friddusa Patri Carmelu, pi’ ‘na via sulagna, si ‘nni turnava versu la so’ casa: ‘na chesiceddha ‘mmenz’a’ la campagna. Mentri camìna, ‘nta ‘na cantunera, vidi ‘na povireddha scunsulata adddhitta, avanti a ‘n focu di braciera cu ‘i cosci ‘i fora, tutta scullacciata. Prova a ddha vista, granni cumpassioni, poi s’avvicina a chiddha svinturata e dici cu prufunna cunvinzioni: Tu ti sei messa su una brutta strada! Iddha vaddànnulu ci dici: Patri, pi quantu è veru Diu avi raggiuni, pirchì stu postu non s’addici a nuatri! Non è indicatu pi’ ‘sta prufissiuni. Difatti, si cci ll’e cuntari tutta Javi ddiversi jorna chi ci provu ma non c’è versu, a strada è propriu brutta non passa nuddhu, non si batti un chiovu! Michele Lizzio (Roma) I figuri della religiosità e della mondanità appartengono di diritto alla tradizione poetica di Sicilia. Ispirandosi ad un "locus" proverbiale noto, il poeta ne rende apprezzabile la traduzione estetica conseguente al loro immaginario incontro. Michele Lizzio, nato a Messina, è ingegnere e svolge la sua attività a Roma, dove risiede. È Consigliere dell’Associazione Culturale "Antonello da Messina" di Roma. Solo da quest’anno partecipa a concorsi letterari, tra cui: "Poesia da Contatto" e "Il Faro d’Argento" di Riposto, città che ha dato i natali ai suoi Genitori, e alla quale si sente legato da devoto affetto filiale.
VECCHIA CAMPANA Azzittìti ssa campana da lu sonu lamintusu! Mi fa vidiri malati gnuni gnuni ppi li strati, monichi senza facci ‘n prucissioni, puzzi di jaleri comu notti senza sonnu e carnuzzi senza vattiu sippilluti ne’ cummenti o ‘nta li criesii... Azzittìti ssa campana da lu sunu llammicusu! Mi fa sèntiri canti di fidili comu vuci d’appistati, schigghi di li streghi, fetu di brusciatu cu l’incenzu ristagnatu... Azzittìti ssa campana da lu sonu piniatu! Mi fa pinzari a tempi senza lustru di cannili, a vucchi muti ppi timuri di na fidi ca nun c’era senza li nirbati a na scienza, ‘nfini, suffucata da turturi... Diana Franca Ferraro (Palagonia - CT) All’ombra della memoria analogica la poesia diventa pensiero storico del ricordo. Ad ogni "tocco" la realtà emerge e si rende epifania tragica di una dimensione religiosa tante volte scientemente stravolta nella sua essenza. Diana Franca Ferraro è nata a Mineo, ma vive e insegna lingua francese a Palagonia. Poetessa pluripremiata, si è sempre classificata ai primi posti a: "Angolo del Poeta", "Meliusium", "Turi Zappalà", "Rinascita", "Luigi Pirandello", "Rosario Piccolo", "Bizzeffi", "Rocco Certo", "Vann’anto’ Saitta", "Antonino Noto". "Vecchia campana" fa parte della silloge Le Maschere, in via di pubblicazione dall’Editore Greco & Greco di Milano. Si ringrazia l’editore per l’autorizzazione.
MI PIACI PINZARI... Certi siri mi camulìa a testa na dumanna: "dopu la morti, chi nni resta si lassu tuttu cca bbanna?..." A mmia, però, mi piaci pinzari ca dda u munnu iavi autri culuri ca non ci su ricchizzi, né dinari e ognuno è riccu di lu so amuri! Mi piaci pinzari ca dda ci su campagni virdi, di ciuri macchiati un celu chinu ‘i luci, sempri blu ciumi chini ‘i acqua, assai puliti... Dda nuddu cianci, è tristi iavi duluri nessunu si po pirmettiri ‘i disturbari chiddu ca cunta è sultantu l’Amuri ca umanu non è, e non po' mai passari A mmia mi piaci assai pinzari ca chiddu è rinasciri, non muriri!... Salvatore Puglia (Taormina - ME) La dimensione esistenziale dell’uomo è proiettata al superamento; ad oltrepassare il limite della necrosi progressiva del proprio pensiero nella morte fisica. Letterariamente è però un illusorio convincimento a strappare progressivamente quel nuovo essere al nulla e ad assicurargli un’esistenza estetica. Salvatore Puglia è nato a Graniti /ME) e risiede ed opera a Taormina. Ha pubblicato Il futuro della speranza e C’era na vota... cu c’era. Numerosi sono i premi ricevuti.
SEZIONE D
da: Collezione di attimi IL BANCHETTO DEL RE Le tue parole: sono guglie conficcate sul mio petto, sono un frenetico sbattere di ali che mette farràgine nei miei sentimenti; parole decorate da menzogne saporose. Vedo ancora brùma sui tuoi occhi. È forse colpa mia se sei guitta e parolaia senza corte e cortigiani? Ho te per esser me ma non ci basta. Che arlecchinata! Che farsa! Che pagliacciata il nostro insulso mugugnare e allora, per favore, eclissa il tuo sguardo capeggiato. Non ho più balìa del tuo angariare, quindi: ti abbandono lentamente, sopra lenzuola di fiori e lame perché tu possa meglio urlare, del tuo sadismo dichiarato e smarrito, dentro una fiera di uomini e ladri che vendono impronte di Dei. Le "Isole dei Beati" sono aggrappate all’orizzonte di ogni leggenda e tu, ingenua di fede, hai confuso il vestito di una sirena con un groviglio di alghe. Ora si che puoi accettare l’invito per il banchetto del Re. Serse Cardellini (Monteciccardo - PS) Un sottile minimalismo permea la pièce poetica. Che riconduce se stessa a "parole decorate da menzogne saporose". Il rifiuto della formale apparenza dei gesti, dei luoghi, delle essenze è motivo della incipiente simbolizzata "anarchia dell’essere" che appartiene al poeta. Serse Cardellini vive a Monteciccardo (PS). Diplomato alla Scuola d’Arte "F. Mengaroni" di Pesaro, attualmente è iscritto al corso di laurea in filosofia all’Università di Urbino. da: Vocativi filiali LE MORTI Come presunti profeti enfatizziamo l’Eterno come eterei ladroni di carne. O forse le morti bestemmiando travalichiamo le sorti e ci imbeviamo di noi. E le morti stanno lì a portata di mano, e non abbiamo scudi ma stracci come barboni strafogati d’elemosine mancate. Così, ci sfaldiamo le forze finché il grande salto toccherà a noi. Giuseppe Samperi (Castel di Judica - CT) La poesia come richiamo, come appello lanciato nel vuoto, come senza eco ritorno. In una silloge proiettata alla sperimentazione ed alla scoperta estetica è la comunicazione e le sue inferenze esistenziali a costituirne le vertebre creative. Comunque condannate a sopportare inutili attese e risposte circa la qualità del proprio essere.
da: Acqua frisca AMARA LUNTANANZA ... e lu travagghiu all’esteru... Era malata gravi ‘a figghiaredda e la curcai cu mia nto lettu ranni mentri orazioni suspiri e chianti scurrivanu comu funtanedda. "Ma... Mamà... chi fa ... veni... papà..." ‘U dissi c’un filu di vuci strascicata e dilusa ca mi pirciò lu cori. "Sciatuzzu miu to’ patri sta turnannu! Addurmisciti ora e nun pinsari..." Appujai la testa a la so’ testa tinennu ddi manuzzi ‘ntra li mei e si durmiu comu ‘n ancileddu. Amara luntananza! Quantu pinsera vulavanu luntanu comu a sprisciari ‘u tempu! Ripigghiai a prigari quannu, ‘un sacciu comu, Maruzza di bottu si vutau e... c’un suspiruni, trimannu... ‘ntra la vrazza mi spirau. Wanda Melfa (Enna) Il quarto elemento esemplifica la condizione di un uomo travolto dai ricordi e dagli eventi. Nel suo fluire porta con sé le amarezze e le speranze, luoghi poetici "tipi della poesia di Sicilia", qui evocate in un costrutto linguisticamente denso ed aderente alla lingua isolana Wanda Melfa, nata a Bengasi, vive ed opera a Enna. Ha pubblicato diverse opere di poesia e ha vinto numerosi premi letterari.
SEZIONE E
da: Moltitudine sola, Guido Miano Editore - Milano, 1997 RAZZA DI FIUME Della pioggia sei figlia surgiva discendente diretta dei nubi razza di fiume che in palude s’illude d’acque, di terre, di campo. Dormi, di fango, un refluo lento, vallivo letto di fosso che porti d’acqua sovrana l’anima e il cuore a sognare, turbati. Nell’ombra tua dei fondi, meraviglia il riflesso verde, color d’emozione, dell’erbe di vita dei rivi nell’acqua che sempre si specchia, grande, un pavimento di cielo. In carezza sensuale inonda, irrora d’azzuro la pancia, la schiena, le vene dei solchi, aperti pugnali. Di zolle d’aratro punite, selvagge, rapite, ferite terre seccate. Private, riarse di libertà vostra d’oziare di umida vita. Progenie palustre di limi, sublime di lidi, ricordo ormai d’andato passato, oggi a bonifica speso. Discendenza d’acqua smarrita, stirpe antica asciugata, cieca ora s’interra in contadini raccolti la tua vita passata. Sogni interrotti di fossi vecchi, d’eterno. Franco Gobbetti (Desenzano - BS) La ricchezza di un’eco poetante viva e voluttuosamente insinuata tra le parole e i fonemi, in canora antifona con la memoria culturale dei poeti, ci consente di apprezzare e leggere intertestualmente questo libro come un dialogo avvincente con la tradizione delle poetiche novecentesche. Il trattamento visivo, a tratti visionario del paesaggio, riesce a restituire una immagine metropolitana sublimata in suono e, oltre le rumorose città, ci consente un consolante approdo alla natura. Franco Gobbetti è nato nella Bassa Veronese, ma vive e lavora a Desenzano. S’interessa di linguaggio visivo e delle sue possibililtà per esprimere la contemporaneità , soprattutto nella parte più oscura, simbolica, meno immediata e visibile. Ha pubblicato: Transanima, Maremmi Editore, e Moltitudine sola. Numerosi sono i riconoscimenti ottenuti. da: Vespero, Edizioni "Il Gabbiano", Messina
A BASSA QUOTA Minata da un male sottile l’anima di chi ha subìto troppi rifiuti. Non sa più giocare con la sua ombra che si riflette labile sul muro rasentandolo a bassa quota. Puoi inventare per lui un gioco nuovo rovesciando le carte e le regole ma egli rifiuterà la partita sapendo già di risultare perdente. Ti chiede di lasciarlo alla sua pena ma nessuno più di lui vuole essere smentito. Vittoria Gigante (Messina) Vespero possiede la semplicità di un approdo che si lancia dietro la complessità e il tormento. La certezza di una fede acquisita si tramuta in una precisa scelta formale orientata verso l’ essenzialità. Come essenziale è il dialogo con l’assolutamente altro che palpita in queste pagine. Vespero può essere letto come viatico di fine secolo alla ricerca di un approccio "puro" con l’Io e l’altro che trova nella parola poetica scarna e pulita la sua più consona forma di comunicazione. Vittoria Gigante, vive e opera a Messina. Già insegnante di lettere al liceo classico, ha pubblicato: La sardana della solitudine, Gastaldi, Milano, 1967; Il fiore del silenzio,1989, Storia di Lia,1990, e Pièces giovanili, 1992, Carbone Editore Messina; Sapevo una storia, 1991, e I poeti dell’estasi, 1992, Edizioni Akron, Furci Siculo. da: Convito di ninfe, Il Lunario, Enna, 1996
NEL VERDE E NEL MARE... Le cose non stanno che a ricordare . Pian piano i minuti vissuti, fedelmente li ritroveremo... (V. Cardarelli) 1 Nel verde e nel mare biciclette e mulini; tulipani e case di legno. 2 Dal luogo più a ovest d’Europa osservo l’oceano. 3 Come un quadro fiammingo dipinto sull’acqua. 4 Soave solitudine in compagnia di anitre e tordi. 5 Da una chiatta sul fiume giungono chiare le note d’un valzer di Strauss. 6 La "promenade dei filosofi" mi mette soggezione. 7 Dalle rive dei piccoli laghi migliaia di uccelli volano. Giuseppe Bevilacqua (Piazza Armerina - Enna) Con lo spirito del wanderer, ora incantato ora attento e lucido osservatore, Bevilacqua in questa raccolta ci offre affreschi di realtà, vicine e lontane, al confine tra mondo vissuto e mondo immaginato, ove gli occhi vedono dentro e fuori dalle cose, ove il poeta si muove per ridare "il nome", per ricomprare in cifra letteraria composta, il divenire incessante delle immagini. Giuseppe Bevilacqua lavora e vive a Piazza Armerina, in Sicilia, dove è nato nel 1949. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Convito di ninfe, Il Lunario, 1996; Erba e pietre, Il Lunario, 1998. Inoltre ha partecipato alla realizzazione di plaquettes in collaborazione con artisti visivi, e s’interessa, a scopo divulgativo, di tematiche ambientali.
SEZIONE F
IL RITRATTO Mi dispiace, disse con tono impersonale il professor Martinez, ma non c’è alcuna possibilità di recuperare la vista, nemmeno con un intervento chirurgico, la sua è una malattia sconosciuta per cui non c’è ancora alcuna terapia valida. Juan Ramon non parlò, ma una onda gelida si abbatté in ogni anfratto del suo corpo facendolo barcollare, mentre i muscoli del volto si contraevano fino allo spasimo, in una smorfia di sofferta incredulità. Il consulto col professore, oftalmologo di fama mondiale, costituiva anello di una catena di visite e relative terapie, tutte senza alcun esito, a cui Juan Ramon si era sottoposto, ininterrottamente, dal momento in cui si era accorto che la sua vista, da un giorno all’altro, aveva preso a diminuire rapidamente ed in modo drammatico. Che strani scherzi gioca il destino! Proprio a Juan Ramon che avrebbe potuto fare a meno di tutto ma non della vista, a lui che con i suoi occhi sapeva catturare ogni particolare di ciò che vedeva, anche quello che a tutti gli altri sfuggiva. Era successo proprio a lui , al più grande pittore spagnolo vivente. La moglie cercò di sorreggerlo ma, con fare brusco, le allontanò la mano che, con tenerezza e decisione, l’aveva afferrato al braccio. Finì di parlare col medico, quindi si fece accompagnare a casa in assoluto silenzio. Juan era un pittore straordinario, ogni suo quadro emanava, insieme ad una bellezza tangibile, un senso di assoluto, di sublime capace di toccare anche l’animo più duro. Così i suoi paesaggi, le scene di vita, i ritratti, qualsiasi cosa dipingesse, veniva come trasfigurata sulla tela. Egli riusciva, con assoluta naturalezza, a riprodurre ogni soggetto, non come era realmente, ma proprio per come i suoi occhi di artista l’avevano visto. Però, come la luna, misteriosa regina della notte che spesso amava dipingere, anche lui aveva due facce. Così a quella sensibilissima, quasi mistica dell’artista, si contrapponeva l’altra ruvida, spesso inespressiva dell’uomo. In effetti, aveva sempre concesso molto poco a chi gli stava vicino. scarsamente incline alle tenerezze, estraneo al sorriso, viveva la sua vita sociale come un fastidio che l’allontanava da quella che era la sua vera ragione d’esistere: l’arte. La sua rigidezza lo faceva apparire come privo di quelle emozioni che, al contrario, rendevano unici i suoi quadri. Era come se due personalità si agitassero, tenacemente intrecciate, nello stesso individuo. Il suo atteggiamento davanti al pianto, era addirittura di rabbia. Gli capitava, a volte di assistere alle lacrime, di gioia o di dolore, della gente e questo, non riuscendo a comprenderne il significato, provocava in lui un senso di profondo disgusto per un atto inutile, che gli sembrava, altresì, incompatibile con la vera essenza di un uomo. Le persone che gli stavano vicino, sua moglie, glia mici, avevano imparato a convivere con queste sue caratteristiche che gli impedivano di essere un uomo veramente speciale. Solo per la sua unica figlia, Alma, aveva degli slanci d’amore impetuosi. Lei era bellissima, i lunghi capelli, neri come la notte, incorniciavano un volto espressivo, su cui, come fiaccole, ardevano due occhi incredibilmente simili a ai suoi. Aveva voluto che sin da piccola studiasse il pianoforte. Le sue mani, sottili ed eleganti, carezzavano la tastiera, regalandogli sensazioni sublimi e, spesso, amava dipingere mentre lei suonava. Unicamente lei aveva il permesso di assistere mentre lavorava. Ora, seduto nel suo studio, avvolto in una coltre greve di silenzio, pensava che non avrebbe più dipinto. Si sentì per la prima volta nella sua vita, inutile. Non riusciva ad accettare tutto questo. Ogni cosa gli appariva insopportabile, ogni strada sbarrata. L’angoscia montava sinuosa in lui come una marea, soffocando ogni residuo di vitalità. La speranza, era una luce che annegava nel fondo scuro dei suoi occhi di ghiaccio. Si vide inerme, costretto a ricorrere agli altri per ogni sua necessità, sentì la voglia di vivere, fuggire veloce, come il giorno al calar del sole. Pensò ad Alma, che tra meno di un mese si sarebbe sposata. Non l’avrebbe vista splendere nel suo abito bianco, non avrebbe potuto accompagnarla all’altare e soprattutto, non sarebbe riuscito a farle il regalo che lei gli aveva chiesto per le nozze: un ritratto insieme ai genitori da portare con sé. Si strinse la testa tra le mani, appoggiando i gomiti alla scrivania, le dita affondate tra i riccioli grigi dei suoi capelli, perennemente scompigliati. Il respiro era lievemente affannato di ansia sottile, ma non una lacrima solcò il suo viso. L’ombra della sconfitta si stagliò immensa tra i vicoli della sua mente e desiderò morire. Aprì il cassetto al centro della scrivania, vi infilò la mano destra e cercò a tentoni. Sentì subito il freddo contatto col metallo della pistola e gli sembrò di carezzare la morte. Stette così, immobile, per un tempo interminabile, quasi sospeso in una atmosfera surreale, in bilico tra l’incubo e la realtà, mentre oceani di immagini gli inondavano i pensieri. Tra queste, improvvisa, si fermò quella di Alma ed il suo cuore stanco ebbe un sussulto. la vide nel suo candido abito da sposa. Bella come sempre, ma il suo volto esprimeva un dolore indicibile, la malinconia colorava la sua pelle di un pallore profondo, le sue labbra senza sorriso socchiuse in una espressione stranita, deformate da uno stupore senza voce. Si scosse di colpo, riaffacciandosi alle porte della vita, mentre fitte gocce di sudore si posavano sul suo viso tormentato, come brandelli di pioggia dopo una tempesta sulle foglie ferite degli alberi. Non avrebbe dato a sua figlia questo dolore, non avrebbe colorato col nero della morte un giorno che doveva unicamente essere di gioia. Decise che avrebbe vissuto e che Alma avrebbe avuto il suo regalo di nozze. Nel più assoluto segreto fece montare al suo maggiordomo una tela sul cavalletto, facendo, poi raggruppare i colori ed i pennelli e disponendoli in un ordine ben preciso che impresse nella sua mente lucidamente. Ogni notte si alzava, in silenzio, recandosi nello studio, dove, come sempre, nessuno aveva il permesso di accedere. Le prime volte avanzava con fare incerto, come il volo di un uccello ferito. Urtava gli oggetti barcollando, inciampava, si rialzava, ma non si fermava, spinto da una forza inarrestabile prima sconosciuta, la forza dell’amore. Poi, divenne sempre più abile. Si muoveva con la precisione di un pipistrello, agile come un felino. Nello studio, seduto davanti alla tela, che ogni tanto controllava con le mani, dipingeva con un fervore instancabile. Con gli occhi della sua anima, prima completamente chiusi, riusciva a vedere perfettamente ogni cosa. I particolari, i colori, la luce. Tutto gli era molto chiaro adesso. Il quadro prendeva forma sempre di più. Il volto di sua moglie, Dolores - che lo aveva sempre amato totalmente, soffocando dentro di sé la sofferenza per la sua indifferenza - a sinistra, Alma al centro, il proprio volto a destra. Un insieme che di rado la realtà aveva visto. Notte dopo notte lavorava con tenacia, mentre la data delle nozze si avvicinava e i preparativi fervevano, pur nel tangibile dispiacere per il dramma del maestro, che aleggiava pesante sulla casa. Fu spesso sul punto di abbandonare tutto, ma non si arrese. Quando sentiva lo sconforto assalirlo, serrava i pugni, stringendo forte i denti, mordendosi, a volte, le labbra fino a bagnarle di sangue, ma non pianse mai. Giunse il giorno tanto atteso. Impeccabile nel suo tight, con passo sicuro, accompagnò Alma all’altare della cattedrale, dove l’attendeva lo sposo. Era come se la vedesse distintamente al suo fianco, orgoglioso dei sussurri di ammirazione che udiva passando tra due ali di folla. Al sorriso che lei gli rivolse rispose sorridendo felice. Nel mezzo del pranzo nuziale, quando i festeggiamenti erano al culmine, si alzò in piedi, invitando i musicisti a fermarsi. Tutti si guardarono incuriositi, pensando forse a qualche sua scenata. Juan fece un cenno con la mano ed il maggiordomo avanzò al centro della grande sala portando un oggetto coperto da un drappo di velluto rosso. Nel silenzio totale, si fece accompagnare lì vicino dalla moglie e dalla figlia, poi, mentre Dolores gli stringeva forte la mano singhiozzando, disse ad Alma: "questo è il mio dono per te". Lei si avvicinò lentamente, scoprì con fare quasi timoroso l’oggetto ed apparve il quadro. Un mormorio denso di ammirazione si alzò dai convitati, quasi paralizzati dalla meraviglia. Un’immagine straordinaria perfezione si mostrò improvvisa. I volti dei due genitori con la figlia al centro, sembravano quasi proiettarsi fuori dalla tela. Ogni particolare era riprodotto con assoluta perfezione ma quello che colpiva di più, era la serenità assoluta, il senso di una pace ritrovata che accendeva i loro visi. Alma strinse Juan in un abbraccio senza fine al quale si unì la madre, per dare vita ad una dolcissima scultura di sentimenti. Poi, tornò vicino al dipinto per sfiorarlo con una carezza con la sua mano delicata e si accorse stupita di un minuscolo riflesso di luce sul volto del padre, che prima, ne era certa, non c’era. Guardò con attenzione e, mentre il suo cuore, incredulo, palpitava di gioia, vide scorrere, lentamente, sulla tela, la prima lacrima della sua vita. Giuseppe Risica (Tonnarella – Me) L’equazione luce = speranza pervade interamente "Il ritratto", racconto di intenso respiro. I sentimenti celati, le emozioni segrete di Juan Ramon "il più grande pittore spagnolo vivente" uomo apparentemente freddo e distaccato, incapace di comunicare il proprio essere se non attraverso la pittura, si trasfondono in un dipinto forse l’ultimo, sicuramente il più faticoso. Giuseppe Risica, nato a Messina nel 1955, vive e opera a Tonnarella come cardiologo. Si è classificato al primo posto in diversi premi letterari, tra i quali: "Surrentinum" 1995 e 1997, "Contea di Modica" 1996, "Città di Trapani" 1996, "Danilo Chiarugi" 1996, "Colapesce" 1996, "Beniamino Joppolo" 1997, "Meliusum" 1998, "Città di Leonforte" 1998. Ha pubblicato le sillogi: Oltre l’orizzonte, 1996, Mare dentro mare, 1998, Le passate stagioni, 1998. Cura articoli su giornali e riviste specializzate.
IL SOGNO DI UN MANICHINO MUSICISTA Nel borgo più antico della città, in una stretta viuzza, la nostra storia ebbe inizio. Tra file di case anonime e qualcuna ogni tanto in foggia monumentale con portoni di legno, arcate e stemmi in pietra serena, dove tutto richiamava ad un antico passato, c’era una vecchia bottega artigiana in cui si respirava una densa suggestiva atmosfera. Qui nacque il personaggio di cui vi narreremo. La sua, fu una nascita fuori dal comune perché fu creato, plasmato, dalle abili e amorevoli mani di un artista artigiano. Le sue forme furono tornite con grande precisione nei particolari, la testa poteva assumere qualunque posizione, gli arti, snodabili, ogni possibile movimento, tanto che le dita delle mani sembrava volessero muoversi da sole da un attimo all’altro. Sì, stiamo proprio parlando di un manichino, molto speciale però. Era stato commissionato dal direttore del grandioso Teatro Massimo che si ergeva nella piazza poco distante. Il nostro manichino doveva essere partner della protagonista di un balletto, doveva simboleggiare l’uomo con le sue passioni, le sue sofferenze ed in ragione di ciò doveva essere in grado di mutare atteggiamenti. Fu così che appena finito, egli poté varcare la grande soglia del tempio dell’arte tra le braccia del suo creatore. Attraversò saloni, ampie scalinate, pavimenti coperti da tappeti rosso vermiglio, dove in religioso silenzio i passi degli addetti sfioravano il suolo. Attraverso pesanti tendaggi, intravide appena l’interno della platea e gli ordini dei palchi, fu abbagliato da scintille di luce che da lampadari di prezioso cristallo si sprigionavano e intrecciando danze si rifrangevano sulle dorate decorazioni provocandone lo sfavillare. Poi inoltrato attraverso un lungo corridoio a semicerchio, appena rischiarato, giunse infine nello spazio delle quinte, fu posto dentro un camerino dove regnava un disordine sparso di cose a lui sconosciute ed un intenso profumo inebriante. Dietro le quinte il via vai di persone era continuo, frenetico, in netto contrasto con ciò che aveva conosciuto al suo ingresso. Voci maschili e femminili s’intrecciavano in un crescendo di toni, davano ordini, facevano richieste, si esortavano o s’interrompevano a vicenda. Il manichino si guardò attorno, strane cose lo circondavano, ceste di fiori, bambole, nuvole di tulle dai mille colori, una specchiera illuminata con una mensola dove poggiavano boccette di profumi, spazzole e cosmetici. Uno sgabello era posto davanti alla specchiera ed al fianco, un paravento di nero ebano, lucidissimo, intarsiato di candido avorio che rappresentava splendidi fiori, giardini dagli alberi contorti e pavoni con la coda a ventaglio. Ad un tratto, mentre cercava di prendere confidenza con quel mondo nuovo, il frenetico trambusto e le voci concitate si zittirono, tutto fu silenzio, un dolcissimo suono riempì l’aria, tutto si trasformò, perfino il disordine sembrava avesse acquisito un’anima. Le note di un violino vagavano per tutto il teatro, trasmettevano vibrazioni silenziose che penetravano attraverso le molecole della materia di persone e cose giungendo fino all’intima essenza. Durò un tempo incalcolabile, tutto sembrava essersi fermato al suono della melodia, poi di nuovo giunse il silenzio ed il cicaleccio ricominciò, la porta del camerino si aprì ed una figurina esile in calzamaglia entrò sicura guardandosi attorno. Venne verso di lui, lo squadrò dal capo ai piedi e disse a se stessa: "Peccato, se avessi immaginato che già era qui, avrei provato con lui sulla scena. Però! È stato veramente ben fatto! Be’, domani lo porterò sul palcoscenico, e sarà una prova completa". Il manichino capì che si trovava di fronte alla ballerina cui era destinato e forse ancora commosso dalla musica appena ascoltata si sentì turbato dallo sguardo con cui ella lo valutava, pensò alle mani del suo creatore, alle pareti della piccola bottega, agli attrezzi con cui era stato plasmato e si sentì meno solo. Riuscì a sua volta a guardare la figuretta che aveva dinanzi, non gli parve bellissima, però il suo sguardo lucente bruciava, dai suoi occhi sprizzavano bagliori. Giunse l’indomani, un inserviente lo portò sulla scena, fu posto in un punto prestabilito, l’attività frenetica degli operatori era al massimo, chi correva a destra, chi chiamava a sinistra, poi improvvisamente ad un cenno del regista, il silenzio regnò. Il violino diffuse la sua musica creata per gli Dei, ed essa s’insinuò in ogni animo, in ogni fibra di persone viventi o cose inanimate, l’intensa emozione ancora una volta trasmise la vita. Sul palcoscenico, come una libellula giunse la protagonista, al suono delle note volteggiava intorno al manichino, ora accarezzandolo, poi abbandonandolo, tornando di nuovo ad abbracciarlo ed infine respingendolo con sdegno e derisione. In tutta questa coreografia, ella con destrezza riusciva a muovere le sue membra portandolo ad assumere atteggiamenti di gioia, di dolore, di esaltazione, di sofferenza, di tormento ed infine d’amore e distruzione, tutto al suono, ora struggente, poi esaltante ed infine tragico che scaturiva dall’archetto del magico strumento. Il manichino rimase sconvolto, ubriaco dal volteggiare della ballerina, stordito dal suo profumo, dal tocco delle sue mani sulle sue membra snodate, incendiato dai suoi occhi che come stelle lanciavano dardi di luce. Un torrente di sentimenti travolse il suo cuore di legno che pulsava, fremeva, come fosse un cuore di sangue. Le sue mani, le sue dita erano irraggiate da scariche elettriche e avrebbero voluto afferrare la silfide danzante, oppure avere tra le mani lo strumento prodigioso, suonarlo all’infinito con l’anima e la maestria di un Paganini, per vederla danzare e sentire le sue carezze per l’eternità. Finita la prova, il manichino fu riposto. Venne la sera della "Prima", in platea il movimento ed il brusio del pubblico rendeva la compagnia ancora più eccitata, poi le luci incominciarono ad abbassarsi, il brusio ad affievolirsi, era il segnale dell’inizio. Il buio pervase il teatro, tutto si tacque, il sipario si aprì, un riflettore si accese sul palcoscenico e la musica incantata, magicamente diffuse le sue note, sulla scena "il rito" ebbe inizio e la storia d’amore del manichino il suo svolgersi. Così andò per tutto il periodo che lo spettacolo fu tenuto in cartellone per la stagione di quel teatro. Il manichino ogni sera trovava la vita attraverso la musica, la danza di "Libellula" e le sue carezze ma, poiché tutti i sogni prima o poi finiscono anche questo fu destinato a svanire. La ballerina fu scritturata da un teatro di fama internazionale, avrebbe interpretato altri temi, altre coreografie, il manichino si rese conto che il suo sogno ormai era giunto al termine. La sera dell’ultimo spettacolo mentre tutto si svolgeva nell’atmosfera di magia, sembrò agli spettatori che qualcosa di insolito stesse accadendo sul palcoscenico. Il volteggiare della protagonista rendeva ancora più reali gli atteggiamenti del manichino, anzi, più volte sembrò che si muovesse davvero, che realmente gioisse, soffrisse, e poi, ancora, vibrasse al culmine di una gioia immensa, per infine ricadere esausto, schiacciato da tutto il dolore del mondo, per l’abbandono ormai reale e imminente. Un brivido percorse tutto il teatro e forse per un gioco di luci sembrò che due lacrime brillassero sul sofferto volto di legno. La rappresentazione finì, un applauso senza fine salutò i protagonisti, il sipario si chiuse, le luci si riaccesero ed il pubblico visibilmente commosso, pian piano uscì dalla platea e dai palchi, gli artisti partirono per il loro destino, il teatro tornò nel silenzio. Si dice che, nel cuore della notte, dall’edificio si era elevata appassionata e travolgente una musica. La mattina dopo gli inservienti trovarono in un camerino un manichino di legno con fra le mani un archetto, accasciato sotto la mensola di una specchiera, su cui poggiavano una rosa rossa ed un violino con il suo spartito. Sul volto del manichino scorrevano due gocce di resina lucente, come fossero due lacrime. Letizia Santanna (Prato) L’arte capace di scatenare forze, passioni e istillare la vita è alla base di questo racconto che si svolge in una dimensione fantastica. Il protagonista, un manichino, si muove in uno spazio che è quello della fantasia e del sogno riuscendo a provare sentimenti ed emozioni verso la ballerina con cui dovrà danzare, la "vera" protagonista che tuttavia, nelle coordinate fantastiche del racconto sembra quasi irreale, "legnosa" e priva di vita. In un balletto, su una melodia mai udita da essere umano, si annebbia la percezione comune dello spazio e di ogni cosa: mirabilmente, in un’abile danza giostrata dalla narratrice perfino il disordine sembra possedere un’anima. Letizia Santanna, autodidatta, è nata ad Aidone (Enna), ma vive ed opera a Prato.
ALTRE POESIE
ALTO LIBRARSI Alto librarsi dell’aquila per morire Vento di polvere errante senza andare In te cerco il silenzio dove parlare non la tristezza che ti fai compagna Marcello Amico (Messina )
ACROBATI Nella grotta dell’incenso acrobati; nell’ostilità dell’abbandono: acrobati. Per riscattare dall’aria lo stare con lui, dell’acqua la carezza, del fuoco la purezza: acrobati; anche per saltare sui muri della monotonia. Sempre cuore aperto, carne viva, nervi a fior di pelle, acrobati. Luce negli occhi per dissipare e capire un po’ le ombre e questo mistero della vita. Canovacci, bussole, mappe, oroscopi che non riescono a spiegare perché in questo circo della realtà o del sogno siamo stati e saremo per un istante acrobati, senza cautele né reti (fango che cresce nel fuoco), senza orecchie, acrobati, per mancare all’appuntamento degli adii per sempre. Santiago Miquel Bao (Argentina) ACROBATAS En la gruta de incienso: acróbatas. En la hostilidad del abandono: acróbatas. Para rescatar del aire el estar en él, del agua la caricia, del fuego la pureza: acróbatas; también para saltar sobre los muros de la monotonía. Siempre corazón abierto, carne viva, nervios a flor de piel, acróbatas. Luz en los ojos para disipar y comprender un poco las sombras y este misterio de la vida. Tramas, brújulas, mapas, horóscopos que no alcanzan a explicar porqué en este circo de la realidad o del sueño fuimos o seremos por un instante acróbatas, sin cautelas ni redes (barro que crece en el fuego), sin orillas, acróbatas, para faltar a la cita de los adioses para siempre. Miguel Santiago Bao (Argentina)
SPECCHIO Finalmente, uno specchio in cui posso contemplarmi! Scruterò le linee più sottili del mio volto Voglia di morire col tramonto ... Taglierò le radici inaridite del mio cuore. Voglia di risorgere con l’alba ... Negli abissi marini non è mai notte. Giuseppe Bevilacqua (Piazza Armerina - EN)
SORRISO DI SPOSA Intrecciati con cura dalla maestria del tempo c’incontriamo in calde trame di respiro così fragili e felici nella ricchezza lieve dei silenzi E quando solo un velo di stelle veste la notte sempre giovane e viva rimango a sognare tra il velluto dei tuoi baci e il tuo volo che scioglie lune nella mia pelle Ha il fiato del cielo la mia gioia e frange di sole danzanti fra le tue parole Olezza il cuore di rosa che si offre alla festa del vento Come arpe s’intonano i nostri occhi nella magia mai stanca delle carezze Con sorriso di sposa vengo a porgere luce alle tue mani d’amore. Elena Cimino (Gela - CL)
Montagne inghirlandite ... Montagne inghirlandite di nebbia: in me si piega la vostra durezza. Cuore di pietra: in te più non scorre acqua di rosa se nelle notti di luna muto passa sui granai il vento d’Africa. Non ricordo più l’aria di vendemmia che qui d’ottobre mi dissuadeva. E il cavallo ansimante davanti alla locanda del borgo dove un vecchio mi sentiva nel cuore straniero. Sono come un uomo che ha paura delle ombre, eppure ombra del tempo vuole diventare. Gennaro De Falco (Napoli)
COMPIETA S’insinua la dolce preghiera della sera con il suo lento salmodiare nell’anima semiaperta sul vuoto tentata dalle languide spire di una triste sirena accidiosa - voluptas dolenti - o subdolo demone travestito mai ridotto definitivamente al silenzio. Mi libro sospesa tra il "sono" e il "non sono" - vanitas vanitatum - mentre mi pare di vedere ammiccare una luce lontana (o vicina?) che diventa richiamo un invito, un grido, un segnale talmente imperioso da darmi il coraggio di amare per prima sapendomi amata da prima. Vittoria Gigante (Messina)
Il lato sinistro Vivo nell’abito oscuro del freddo la guaina grigia del giorno. I raggi tenuti del sole sfiorano molli la pelle tirata su spenti stentati sorrisi. Il lato sinistro dell’ombra m’intreccia costante il tempo e la via tagliandomi addosso stracci continui pesanti di vuota angoscia stantia. Franco Gobbetti (Desenzano - BS)
Disoriente mattino Cade la luna come fendente trista tagliente spersa cupezza nel disoriente mattino che il giorno ravvia. Io porto l’ombra che opprime ed il suo buio mi sperde. Lontano. In me cupa, dentro, la bestia zoppa saltella il passo insicuro dei vinti. Franco Gobbetti (Desenzano - BS)
Cristallo notturno Soffia d’echi soffusi trasparente cristallo notturno d’aprile. Espanso è alto ventoso nel lungo sprofondo aereo lontano infinito. Contiene sconfino fresca tutta veloce la sera volante percorsa da luci traccianti. Vivida notte astrale in movenza aperta nell’ombra sui corpi si posa sui sonni riversi. Solenne, ricolme il tremore mistero brillante nel blu. Intermittenti presenze vagano lumi ronzanti in spazi sperdenti rombi motori. Fiati sospiri lontani moventi pacati silenzi girano d’uomini mute rotte natanti. Alate filano slitte stive, persone nel volo viaggio cullante. Sciano vomeri carghi scafi affollati nel perdimento spaziale deserto oblio totale del cielo bluastro nero, imperfetto. E a terra veleggia nel basso fermo pesante d’un cuore negli occhi acuto un bisogno di volo. Franco Gobbetti (Desenzano - BS)
RISACCA Sciabordano arcane le antiche parole, appena alitate da labbra materne, fra i miei neri capelli, mentre mani intrecciate trasudano fluidi stillati dal cuore; mentre vividi specchi, i miei occhi, rincorrono i bianchi unicorni della mia fanciullezza. Sciabordano nitide sull’arido lido dell’anima mia ove il dito impietoso del tempo lascia graffi di dure geometrie: angoli acuti di sordo dolore, linee spezzate d’eterne incertezze, e cerchi e cerchi del mio vano girare, e coni d’ombra dell’eclissi d’amore. Sciabordano ardite e, per qualche momento, tutto pareggiano là sulla sabbia. Dolce risacca in cui fronde di stelle annegano liete. Maria Grazia Landi (Viterbo)
Sipari d’organza Quando Sirio lucente scavalca il Cimino, e la luna contende alle ombre l’abbraccio ai reconditi anfratti, agli arcani dirupi tufacei, ai vicoli angusti dove ancora agonizza vecchio, il medioevo, allora il Silenzio scava e rimuove zolle indurite del mio territorio e arriva furtivo agli aridi uadi che segnano a fondo l’anima mia; allora sipari d’organza alzati dal vento mostrano scene lontane e felici offerte al mio desiderio d’essere fragile che ancora anela carezze di mani sicure, e scarne parole d’amore; allora cristalli di lacrime di giorno stipati negli occhi pian piano si sciolgono; allora nei grigi crateri sopiti del vecchio mio cuore, ribollono insieme cocenti passioni, amori ricordi, chimere inseguite, assurde speranze. Ma basta un rumore, un fioco sospiro ed ecco apparire di nuovo il nenfro del mio quotidiano. Maria Grazia Landi (Viterbo)
L’ISPIRAZIONI Si patri Danti avissi cunusciutu, inveci di Beatrice Portinari, donna Cuncett’a figghia i’ Saru Sciutu putissuvu scummettiri dinari chi li ‘ddivini cantici, pi’ ‘ccertu, lu Vati non l’avissi mai pinzatu di scriviri, pirchì di prim’acchittu donna Cuncetta cci l’avissi datu! di consiguenza la nazioni mia ‘nn’ avissi avutu modo di svittari ‘nto firmamentu di la poesia e l’arti d’Alighieri cilibbrari. Pi’ chistu cu lu’ gnegnu chi v’illumina, putiti cunviniri puru vui ch’è propriu veru chi ‘nu pilu i’ fimmina tira ‘cchiosài di na parigghja i’ boi! Michele Lizzio (Roma) |