I POETI

DEL FARO D’ARGENTO

1998

 

 

CIRCOLO SOCIO-CULTURALE

"IL FARO" - RIPOSTO

 

 

 

Proprietà letteraria riservata ai singoli Autori

 

 

 

 

 

 

 

EL FARO D’ARGENTO

 

El Faro d’Argento

es una rica cencentración

de la belleza

que aflora

en el libre impulso

del pensamiento

con profunda delicateza.

Con diversas vibraciones

del sentimiento

en la lírica comunión

de cosas comunes

causas justas

y valores escenciales

la llama viva de la POESIA

se hace

organito de tradición popular,

luz de ramillete de estrellas,

gorjeo intuitivo de la conciencia,

alianza tierna de la vida

y voluntad sublime de la IDEA

al servicio de la franqueza.

A l r e d o r

de los eventos transcurridos

en el campo estético

de la LETRAS UNIVERSALES

el FARO DE ARGENTO

con la bandera de la amistad

a favor de la comunicación

es como una infinita fuente

de sensible grandeza.

Teresa Nelide Marzialetti Mariani (San José - Uruguay)

Si ringrazia vivamente la poetessa per l’attenzione e per la sensibilità mostrate nei confronti del Circolo Socio-Culturale "Il Faro" e per il Premio Internazionale di Poesia "Il Faro d’Argento".

 

 

INTRODUZIONE

Parlare di poesia oggi potrebbe sembrare, agli occhi di molti, un puro esercizio di stile fine a se stesso. Pochi si fermano ad osservare gli innumerevoli mondi che la poesia ha sempre creato per l’animo umano, e tra quelli che lo fanno non sono molti quelli che riescono a trasmettere le sensazioni provate. Il Circolo Socio - Culturale "IL FARO" di Riposto, promuovendo il Premio Internazionale di Poesia "Il Faro d’Argento", giunto alla sua VII edizione, ha cercato di gettare un ponte tra il mondo della poesia e l’universo della vita quotidiana e questo volume è il frutto di questo sforzo costante. Un premio di poesia può essere tante cose. Può aprire la porta alla fama e alla celebrità oppure regalare attimi di effimera gloria destinati a perdersi nel mare della civiltà che tutto consuma, in un susseguirsi di riti e obiettivi da raggiungere. Può rivelarsi un foro dove mondi differenti si confrontano e si mettono in contatto, scambiandosi sensazioni e segni del loro esistere. E tanto altro ancora.

"Il Faro d’Argento" ha sempre scelto la strada della poesia come punto di contatto tra mondi differenti. Mondi che hanno nei poeti i loro ambasciatori, ciascuno con il proprio bagaglio di esperienze, emozioni, sogni, delusioni e speranze, e che si incontrano per scambiarsi i loro frutti dell’animo. Poeti che regalano al pubblico pezzi della loro esistenza e che tengono accesa la fiammella del saper vedere con gli occhi del cuore il tutto ciò che ci circonda, senza lasciarsi avvolgere dal grigio manto della quotidianità. Ma un premio non può esistere senza i poeti ed a questi vanno i ringraziamenti più sentiti di chi vede nella poesia una via di fuga verso il nostro essere uomini. Ringraziamenti che raggiungono tutti i partecipanti, vincitori e non. Un ringraziamento particolare va ai quei poeti che hanno acconsentito alla pubblicazione delle loro opere premiate e per quelle non premiate, ma che hanno riportato un alto punteggio, dando così la possibilità al pubblico di incontrare i loro mondi e le loro emozioni.

Un grazie ancora a tutti i membri della Giuria, che con spirito di sacrificio e amore per la cultura, ha collaborato alla realizzazione del concorso.

Un grazie anche all’Amministrazione del comune di Riposto per il patrocinio e soprattutto nella persona dell’assessore alla Cultura, prof. Roberto Di Bella, per la collaborazione.

Si ricorda infine, che le motivazioni delle poesie premiate sono state redatte da Linda Auditore, Graziella Carota, Daniele Spanò, Fulvia Toscano e Salvo Vasta. Mentre le poesie in lingua straniera sono state tradotte da Graziella Carota, Francesco Micalizzi e Pinella Puglisi

Corrado Petralia

 

PREFAZIONE

È mia convinzione che lo svolgimento di un premio letterario possa essere considerato un evento importante non solo perché attribuisce il meritato riconoscimento alle opere dell’ingegno ma anche perché rappresenta una occasione altrettanto importante per svolgere un discorso che non sia quello consueto della quotidianità e che inserisce in questa le luci e i bagliori di quella che potrebbe, ma difficilmente è, un’altra quotidianità nella quale i valori dell’arte non siano solamente occasionalmente vissuti ma costituiscano anch’essi elementi basilari e importanti del quotidiano svolgersi della vita.

A conferma di quanto appena detto ho potuto esperire che adempiere all’incarico di presidente di un premio letterario o di componente della giuria è una esperienza fortemente arricchente sia dal punto di vista umano che culturale. E specialmente di un premio che si articola in molte sezioni come questo indetto dal Circolo Socio-Culturale "Il Faro", giunto ormai alla settima edizione, la qual cosa penso possa essere considerata testimonianza della sua vitalità.

E’ una esperienza arricchente poiché necessariamente ci si mette in rapporto, cosa altrimenti difficile da realizzare, con una variegatissima gamma di testi quasi contemporaneamente, per cui le voci giungono in certo qual modo simultanee, ognuna con impronte e toni personali che denotano mondi interiori, esperienze artistiche, travagli del pensiero che si inseriscono in una contemporaneità nella quale i pensieri ed i comportamenti degli uomini sembrano sollecitati sempre più dalla materialità e i problemi da affrontare e risolvere, piuttosto che problemi che riguardano l’essere, risultano riguardare l’esistere nei suoi più immediati, banali e a volte anche più triviali aspetti.

L’impressione che si ha allora, venendo a contatto con tanti poeti e scrittori che parlano soprattutto di altre cose, è di penetrare un’atmosfera diversa, di respirare un altro ossigeno, che non sia quello inquinato dal banale dell’esistenza ma quello purificato da un meccanismo che distilla i pensieri e poi li svolge in armoniose volute, sia che si affrontino i temi dell’esistere sia i temi che riguardano l’essere.

E in questa tensione a trascendere la banalità dell’esistenza e a volerne dare testimonianza attraverso la scrittura e la partecipazione ad un premio letterario credo che consista una delle peculiarità alte del premio medesimo.

E se poi le opere che pervengono, oltre all’aspirazione alla poesia e all’arte dello scrivere, possiedono anche contenuto e forma di poesia e di arte per cui ci si possa rammaricare, dovendo necessariamente operare una scelta, di non potere assegnare alla maggior parte dei partecipanti un riconoscimento, allora il premio acquista un valore che va oltre l’aspirazione alla poesia.

Ma a prescindere dai riconoscimenti penso che sia meritevole di lode ogni tentativo di accedere, attraverso la scrittura, alla rarefatta atmosfera dell’arte. E allora se uno che scrive poesie o racconti o romanzi o saggi o altro, ad un certo punto, per pudore, per intransigenza, per deficienza di sopportazione del dolore che lo scrivere comporta, per sufficienza, per delusione:- ché tanto per quanto si sia geniali nessuno se ne accorge- per il sopravvento del quotidiano e del contingente, per l’equilibrio compromesso dal peregrinare della parola in spazi e luoghi nei quali è facile smarrirsi, dovesse prendere la decisione di smettere di scrivere, è bene che verifichi se questa sia una scelta equilibrata e saggia o non, al contrario, un errore castrante le proprie capacità creative, una perdita di identità generativa, una scelta di castità difficile da sopportare.

A volte accade infatti che, pur avendo scelto di non più scrivere, l’impulso abbia il sopravvento e si trasgredisce e ci si perde nel peccato, travagliati da un contrasto interiore, per il fascino di ciò che si fa, per la dolcezza che se ne prova, come per un peccato d’amore, e nello stesso tempo percorsi e addolorati dall’incapacità di non mantenere il proposito di non più peccare di penna.

E questo per significare quanto sia prepotente il desiderio dell’arte e quanto, nel contempo, sia difficile l’arte dello scrivere e quanta maestria abbisogni al poeta e allo scrittore per la produzione di opere aventi decoro e pregevolezza sebbene non ancora, o sempre, capolavori.

E se aver avuto assegnato un premio letterario può essere motivo di soddisfazione, il non essere selezionati, a mio avviso, non dovrebbe essere motivo di scoramento e di frustrazione, poiché non è importante, a mio parere, vincere un premio quanto piuttosto produrre il meglio di cui si è capaci.

Ed è già tanto avere ambizioni di arte nello scrivere, misurarsi con la parola che fin quando non si fa poesia, racconto, romanzo, saggio od altro, è pur sempre materiale grezzo ed inerte. La parola di per sé insensata che però nel contesto si fa forma e contenuto, significando il pensiero, lo stato d’animo, la condizione interiore dell’artista che della parola aspira ad essere il padrone ed a conoscerla in tutte le sue infinite sfumature, a signoreggiarla, a renderla arrendevole al sua pensiero, a collocarla, come in un mosaico al posto in cui emani il massimo della luce o del contrasto, o a velarla, a nasconderla, a smussarla ad incastro, ad inserirla come pietra di base od apicale, ornamentale, a bugnato o rustica, poiché ogni parola può essere lastra di marmo o sasso terroso, pietra nera di basalto o pietra bianca e tenera, impasto di bassa lega o nobile metallo, pietra dura o gemma rilucente con cui costruire un’opera che urge dentro.

E allora, se la letteratura, la poesia, l’arte generalmente intesa concorrono a trasportare ad una condizione più elevata di sentire e di vivere, ben vengano gli appuntamenti con la poesia e con l’arte, ed in questa attività di promozione, le istituzioni si facciano carico di apportare il loro contributo, assecondando anche le iniziative delle associazioni e degli artisti e promuovendo, anche autonomamente, occasioni di inserimento di eventi artistici e culturali nello svolgersi della vita della comunità.

Enrico Carbone

 

POESIE PREMIATE:


Sez. A (POESIE IN LINGUA ITALIANA):

1) Il cielo oscurato di Nicola Martino(Veroli -FR);

2) Rosa d’Alzheimer di Maria Grazia Landi (Viterbo);

3) Le notti d’inverno di Gennero De Falco (Napoli);

4) Chiara la luna di Marcello Amico (Messina);

5) Muti indizi di Elena Cimino (Gela -CL).

Poesie Segnalate:

- Sete che non si spegne di O. Barbagallo (Mascali - CT;

- La giostra di A. Campisano Cancemi (Caltagirone - CT);

- Ho imparato a vivere di Franca Fusco (Trieste);

- La mia sorgente di Tanya Guzzardella (Sciacca - AG).

Sez. B (POESIE IN LINGUA STRANIERA):

1) Testamento di Nelsa Paz (Uruguay);

2) Ritratto del pianeta-testa di Ferit Lamaj (Albania);

3) Third movement di Kim Yong Pal (USA);

4) Llevar o ser llevado di Santiago Miguel Bao (Argentina).

Sez. C (POESIE IN DIALETTO SICILIANO):

1) A ‘n amicu ca parti pi l’Australia di Vito Tartaro (Ramacca - CT);

2) Patri di Paolo Salamone (Palagonia - CT);

3) Belle di notte di Michele Lizzio (Roma);

4) Vecchia campana di Diana F. Ferraro (Palagonia - CT);

5) Mi piaci pinzari di Salvatore Puglia (Taormina - ME).

Poesie Segnalate:

- Patri di Mario Bonanno Conti (Messina);

- A na cumpagna ‘i scola di Silvana Parente (Roma).

Sez. D (SILLOGE INEDITA):

1) Collezione di attimi di S. Cardellini (Monteciccardo - PS);)

2) Vocativi filiali di G. Samperi (Castel di Judica - CT);

3) Acqua frisca di Wanda Melfa (Enna).

Sez. E (SILLOGE EDITA):

1) Moltitudine sola di Franco Gobbetti (Desenzano - BS);

2)) Vespero di Vittoria Gigante (Messina);

3) Convito di ninfe di G. Bevilacqua (Piazza Armerina - EN).

Sez. F (RACCONTO INEDITO):

1) Il ritratto di Giuseppe Risica (Tonnarella - ME);

2) Il sogno d’un manichino musicista di Letizia Santanna (Prato).

Premio speciale fuori concorso a Clelia Rol.

 

GIURIA:

Prof. Enrico Carbone (Presidente)

Prof.ssa Linda Auditore

Prof.ssa Clorinda Bartoccioni

Prof.ssa Graziella Carota

Dott. Francesco Micalizzi

Prof. Giuseppe Pavone

Dott.ssa Pinella Puglisi

Sig. Daniele Spanò

Prof. Aurelio Strano

Prof.ssa Fulvia Toscano

Prof. Salvatore Vasta

Prof. Vincenzo Vasta

Sig. Corrado Petralia (Segretario)

 

 


SEZ. A

POESIE IN LINGUA ITALIANA


 

 

IL CIELO OSCURATO

Il cielo oscurato

si sbriciola addosso

il tuo cuore è con me,

una grata di meridiane

inchioda la luna negli occhi

il cuore è da me.

Cerca un taglio d’acqua

voglio essere il cristallo

che fissa il mondo.

Tu trasparente a tutto

ottica obliqua

prospettiva implicata

contieni l’orizzonte aperto

e chiedi al mare ali smisurate

per nuotare abbracciati.

Nicola Martino (Veroli - FR)

L’amore costituisce il fondamento della ricerca della lirica intera che assume così il valore d’una dichiarazione stridula e sofferta, quasi spezzata nel ritmo incessante dell’invocazione all’amata, figura più ideale che reale.

Un desiderio di appartenenza ad un tutto totalizzante e smisurato.Il poeta, quindi, si compenetra nelle cose fino a diventare materia inerte.

Nicola Martino, ingegnere, è nato e opera a Veroli (FR)

 

ROSA D’ALZHEIMER

Ieri,

impalpabili stille di buio

si posaron leggere

negli intimi anfratti

ove pasce il pensiero;

nelle polle azzurine

ove zampillano chiare

parole d’amore;

nelle gole profonde

ove i bianchi cavalli

del tuo desiderio

arditi galoppano

senza morso né briglie.

Oggi,

quel buio s’è fatto più denso.

I suoi fiotti pesanti

forman laghi, cascate,

gorghi di Mälstrom

che vanno a sommergere

le torri più alte

della tua conoscenza,

le vette più acute

delle mete sognate.

E in quell’Atlantide

ormai inabissata, io

t’ho perduta, sorella mia.

Ora è Alice che affiora

dall’abisso del Tempo

e ignara s’aggira

in un mondo impossibile,

senza un prima né un dopo,

senza un verbo sensato,

senza mare né cielo.

Solo rupi di roccia indurita

solo canyons profondi

ove indiani agguerriti

fanno scempio

dell’ultima rosa.

Maria Grazia Landi (Viterbo)

Il male che attanaglia la sorella è la spinta profonda a comporre versi di struggente rimpianto in cui l’affermarsi giorno dopo giorno del morbo assume la forma d’una pioggia leggera e impalpabile e che a poco a poco diventa lago, cascata, gorgo, fino a trasformarsi in Atlantide. Quella terra inabissata e perduta, come lo spirito e la coscienza, per sempre.

Maria Grazia Landi, già direttrice didattica, è nata e vive a Viterbo

 

LE NOTTI D’INVERNO...

a F.F.

Le notti d’inverno

ti farò caldi

mantelli con le

pieghe del vento

E come antico

fabbro d’amore

ti costruirò

anelli incastonati

di stelle

E sarò felice

modulato come

in un palpito

nel tuo cuore

Mentre mi piegherò

sull’erba morbida

per baciarti, come

se fossi di Terra

E il profumo

della tua pelle

sarà come

granoturco dorato

di primavera.

Gennaro De Falco (Napoli)

Il coinvolgimento amoroso porta l’autore a costruire immagini vibranti e leggere, in cui prevale una sorta di panismo dal sapore dannunziano.

Un effondersi del canto dentro la natura e le cose, fino a piegarle a nuove forme e ad uniformarsene poi egli stesso, rendendo il proprio corpo e quello della donna granoturco dorato.

Gennaro De Falco, nato a Napoli nel 1976, studia giurisprudenza all’Università Federico II. Da circa un anno partecipa a concorsi letterari: poeta già finalista al "Faro d’Argento 1997", al XXI Premio Letterario "Marco Delpino", "Premio Age Bassi 1997" ed al "Meliusum 1998. Il suo interesse si focalizza sulla poesia del Novecento. Principi fondamentali della sua esperienza poetica sono la solitudine e l’incomunicabilità dell’artista, la poesia come un "dover essere", dimensione da consumare nell’individualismo e nell’irrepetibilità dell’ispirazione.

 

CHIARA LA LUNA

Chiara la luna sguscia tra lo scuro

e sveglia a un’ora la mia notte

Mi è dolce abbandonarmi al tuo tepore

dolce carezza di parole mute

Ma pallida t’incenerisci al sole

e il sonno mi riprende nell’albore.

Marcello Amico (Messina)

L’apparizione della luna sembra quasi assumere il significato di un risveglio dell’animo verso nuove o perdute sensazioni.

Un vano simulacro di desideri riemersi, ma destinati poi a disperdersi con la luce del giorno.

Ed è come se l’autore, infine, ricadesse impotente in quel letargo dello spirito.

Marcello Amico, nato a S. Filippo del Mela, vive e opera a Messina.

 

MUTI INDIZI

Rintocchi

sospesi nel vento

ultimativo d’un giorno

Una chiesa a qualche passo

e Dio immerso

nella voce del tramonto

Respirare è difficile

dentro questo silenzio

Incontrando

l’ultimo autunno

negli occhi imbruniti

di una vita che muore

E sognando

fino alla radice del cuore

che una vita mi nasca

Tutto

ondeggiando

nel tempo d’una foglia

che si stacca...

Elena Cimino (Gela - CL)

Il giorno che volge al termine, una stagione finita sotto gli occhi stanchi di chi avverte la fine dell’esistenza o ne sente il presagio ed ogni fede, ogni illusione, ogni spiraglio dell’umano sapere si svuota di significato, per lasciare posto al silenzio che pervade tutte le cose.

Elena Cimino, nata a Gela (CL) nel 1968, vive ed opera a Milano. Poetessa pluripremiata a "Il Faro d’Argento", "S. Normanno", "Gela Nostra", "Città di Avellino", "Torre di Ligny", "Comune di Pieve di Soligo", "Surrentinum", "La Poesia del 1996" della rvista "La Nuova Tribuna Letteraria", è presente in diverse antologie e riviste.



 

 

POESIE SEGNALATE



 

 

HO IMPARATO A VIVERE

Non ti conosco,

nostalgia

di cose perdute,

di amori finiti,

di gioventù trascorsa.

Vivo al presente,

di quotidianità

di sensazioni,

affetti.

Assorbo stille di gioia

che il Ciel mi manda

come rugiada

sul prato della vita.

Ciò ch’è stato

è lontano.

Ho attraversato

più vite ed ogni volta

ho ben chiuso la porta.

Forse, questa sarà

l’ultima stanza.

Al di là

dell’ultima porta,

la felicità.

Franca Fusco (Trieste)

Franca Fusco è nata e vive a Trieste nel 1946. Si è classificata al primo posto nei seguenti concorsi: "S. Paolo (Treviso), "Brontolo" (SA), "G. Ungaretti" (Roma), "Club La Fonte" (Trieste), "Solofra" (AV), "C. Pavese- M. Gori" (CN).

 

LA MIA SORGENTE

Fluenti

giornate

come gocce,

lavano

dense reminiscenze.

Il dimenarsi

di un’essenza,

è gorgoglio costante

nella sorgente.

Osservo

sul mio volto

l’accaduto

ed il mutato

e... scorgo l’attesa.

Tanya Guzzardella (Sciacca - AG)

 

 

 

SEZIONE B

POESIE IN LINGUA STRANIERA

 

 

 

TESTAMENTO

Dopo che l’ultimo marciapiede calpesti

nell’ultima scala

del viaggio che senza ritorno

sto intraprendendo con la mia anima,

voglio che sia Kiyú

a ricevermi nelle sue acque.

Non voglio essere uno spettro

né un’ombra né un fantasma

in posizione orizzontale

prigioniera nel sudario.

Voglio restare a Kiyú

per sempre fra le sue acque...

che le mie sottili ceneri

si confondano colle acque

e che facciano ronde nelle onde

quando accarezzano le spiagge.

Voglio giocare nel tempo

più in là della speranza;

al mare che mi diede nel suo canto

con liriche serenate

infinità di leggende

delle epoche arcane,

voglio dargli le mie ceneri

che vogando fra le sue acque

restino qui nel mio Kiyú,

vibranti e liberate

affinché abbia un’altra storia

da raccontare nelle mattine

e quando si prolungheranno le sere

nelle notti stellate...

Nelsa Paz (Uruguay)

Per aver saputo dar voce al bisogno, insito nella natura stessa dell’uomo, di superare i limiti della transitorietà, rifiutando il potere devastante della morte e affidando alle acque limpide di un fiume le proprie speranze di eternità.

L’invocazione al fiume Kiyú ad accogliere le sue ceneri "vibranti e liberate" non è che l’espressione di un’anima che vuole "giocare nel tempo/ più in là della speranza", confondersi con gli elementi della natura, diventare natura essa stessa.

Nelsa Paz, nata sotto il segno dell’acquario a San José de Mayo in Uruguay, insegnante in pensione, è stata insignita della medaglia d’argento per i suoi meriti culturali. "Avida di conoscenza", si è interessata di relazioni umane, dinamica della personalità e arte del ben parlare, di filosofia e di scienze esoteriche. Oltre una diecina sono le sue pubblicazioni in prosa e in versi, tradotte anche in altre lingue. Innumerevoli sono i premi nazionali e internazionali conferitele. Più volte premiata anche al concorso "Il Faro d’Argento". È membro della IWA (International Writher and Artists Association).

TESTAMENTO

Después que el último andén pise

en la postrer escala

del viaje que sin retorno

voy emprendiendo con mi alma,

quiero que sea Kiyú

quien me reciba en sus aguas.

No quiero ser un espectro

ni una sombra ni un fantasma

en postura horizontal

prisionera en la mortaja.

Quiero quedarme en Kiyú

para siempre entre sus aguas...

que mis sutiles cenizas

se confundan con las algas

y hagan rondas en las olas

cuando acarician la playa.

Quiero jugar en el tiempo

más allá de la esperanza;

al mar que me dio en su canto

con líricas serenatas

infinidad de leyendas

de las épocas arcanas,

quiero darle mis cenizas

que bogando entre sus aguas

queden aquí, en mi Kiyú,

vibrantes y liberadas

para que tenga otra historia

que contar en las mañanas

y al prolongarse las tardes

en las noches estrelladas...!

Nelsa Paz (Uruguay)

 

RITRATTO DEL PIANETA-TESTA

Pianeta-testa, che testa hai!

Super-Stati, mini-Stati.

Stati-Labbra, labbra a labbra

Stato-Lingua, chiacchierano con la febbre.

Stato-Bocca, guai a te!

Tu mordi per una volta!

Lo Stato-Naso si pulisce un po’,

Ovunque esso può.

Con la pace gli Stati-Giochi

Si baloccano, si baloccano!

Lo Stato-Fronte è rugoso,

Com’è pesante il suo pensiero!

E tu, chioma dello Stato-Bosco

Che hai dentro, lupi, gatti, porci o cosa?

Gli Stati-Orecchio, orecchio a orecchio,

"Questo pianeta come scoppia, OK!"

Gli Stati-Occhi sono proprio due,

La loro vista dipende veramente da essi!?

Questo Pianeta-Testa, una testa a parte,

È una vera Superstar

Ferit Lamaj (Albania)

GLOBI - KOKË

Globi - Kokë glob më vete,

supershtete, minishtete.

Shtetet - Buzë buzabuzë,

shteti - Gjuhë pjell akuzë.

Shteti - Gojë, shteti - Gojë

po u hap, diç do kafshojë.

Shteti - Hundë

shfryn ku mund.

Shtetet - Faqe

lypin paqe.

Shteti - Ballë

rrudhat palë.

Thellë ç’ fsheh pyllshteti-Flok:

derra, ujqër a maçokë?

Shtetet - Veshë vesh më vesh:

"Koka... glob apo përshesh!"

Shtete - Sy na qenkan dy,

kanë sy a s’kanë sy!?

Globi - Kokë djeg si furrë.

... Deri kur? Deri kur?

(testo originale)

Per l’originalità con cui ha saputo trattare un tema di per sé scontato, evitando la retorica e il facile moralismo e dimostrando che il gioco e l’ironia riescono a creare accordi melodiosi sulle note della verità. Una verità spesso difficile da accettare - "e tu, chioma dello stato Bosco,/ che hai dentro, lupi, gatti, porci, o cosa?" - dice il poeta; quello che sembra inequivocabile, non sempre lo è ma "la loro vista dipende veramente da essi?" dice ancora, riferendosi al pianeta occhi; eppure la voglia (o il bisogno?) di giocare con le parole è l’espressione di un ottimismo che sopravvive in questo pianeta "che scoppia", su tutto e nonostante tutto.

Ferit Lamaj, 43 anni, nato a Corça (Albania), oltre che poeta, è il più originale e produttivo tra i favolisti albanesi. Ha già pubblicato 35 volumi contenenti oltre 1000 favole. È vincitore di premi nazionali (in Albania) e internazionali, tra cui si ricorda il premio :"La Fontaine" e il premio alla Carriera. Al momento della premiazione del presente concorso era borsista in Germania, presso la Biblioteca Nazionale di Monaco, per degli studi sulla favolistica europea.

 

TRASPORTARE O ESSERE TRASPORTATO

Indica la caparbia geometria dell’esagono

la sopravvivenza dell’ape

o tutto finirebbe per loro

in cellette triangolari?

Il nostro destino

è una trama inalterabile

o la andiamo tessendo

nodo dopo nodo ogni giorno?

Quando penetriamo

nelle correnti di un fiume,

quanto sarebbe meglio:

cambiare il suo corso un istante

o lasciarsi trasportare dall’acqua?

Ci ferma l’esistenza

o il nostro pensiero

mette in evidenza il tempo?

Per sopravvivere

Dovremmo trasportare

o essere trasportati.

Miguel Santiago Bao (Argentina)

 

LLEVAR O SER LLEVADO

Indica la terca geometría del exágono

la supervivencia de las abejas

o todo acabaría para ellas

en celdillas triangulares?

Nuestro destino

es una trama inalterable

o lo vamos tejendo

nudo a nudo cada día?

Cuando penetramos

en la corriente de un río,

que será mejor:

cambiar su curso un istante

o dejarnos llevar por el agua?

Nos arrastra la existencia

o nuestro pensamiento

pone en evidencia al tiempo?

Para sobrevivir:

tendremos que llevar

o dejarnos llevar?

Miguel Santiago Bao (Argentina)

Per aver riproposto uno degli interrogativi che più hanno assillato l’umanità, senza cadere nella tentazione di dare a tutti i costi una risposta. Agire o lasciarsi trascinare dagli eventi? È l’uomo artefice del proprio destino o una semplice pedina destinata a seguire mosse obbligate sulla scacchiera del tempo? Il poeta non dà risposte, non pretende di averne; il suo potrebbe sembrare un puro esercizio stilistico o un invito a riflettere sul significato della nostra esistenza. Ci piace, però, vedere, nell’immagine della trama tessuta "nodo dopo nodo ogni giorno" o nella "caparbietà" con cui le api costruiscono "cellette triangolari", il desiderio di asserire il valore e la dignità del nostro operato, al di sopra e al di là del suo potere di incidere sul nostro destino.

Santiago Miguel Bao è nato a S. Fernando (Buenos Aires) nel 1936 e vive a Villa Gesell (Argentina). Ha compiuto studi di antropologia. È presente in molte antologie internazionali. Ha ottenuto vari premi, tra cui si ricordano quelli dell’Associazione Interamericana degli Scrittori, della rivista Intento, del Centro Culturale Bernardino Rivadavia-Ituzaingó. Ricordiamo, infine, la sua silloge: "Lavori forzati".

 

 



SEZIONE C
POESIE IN DIALETTO SICILIANO



 

 

A ‘N AMICU CA PARTI PI L’AUSTRALIA

Pòrtiti canzuni di l’aria

sapuri di vasuni di matri

ciavuru di finocchiu rizzu

Sàrbili boni dintra la mimoria

E su resta largasìa

silenziu nutturnu quagghiatu

di sciroppu di luna

e vucilizziu di carusi

sgriddati di la scola

Sàrbili boni

cà quannu varchìa la saluti

e pinìu parturisci lammicu

ti fannu parìri rijuncu

la via pi l’eternu silenziu

Portitilla na fogghia

di tinnirumi di vita.

Vito Tartaro (Ramacca - CT)

Con spessore semantico rilevante, innervato a costrutti metaforicamente e linguisticamente propri della lingua di Sicilia, il poeta riesce a "superare" esteticamente distanze fisiche oltremodo incolmabili. Esaltando del vissuto la spiccata ed inespungibile valenza memoriale.

Vito Tartaro, fine poeta dialettale, già funzionario amministrativo, è nato e vive a Ramacca (CT). Ha pubblicato varie opere poetiche e storiche. Oltre una quarantina sono i premi conferitegli. Più volte è stato premiato a "Il Faro d’Argento".

 

PATRI

Stasira, rapiennu u suttascala,

visti li to robbi do travagghiu:

a to scuzzetta co piddicuddu ‘n centru,

i causi ‘nfangati ne viloni,

i scarpi che lazzi chini e ruppa…

e sintiu ‘n sciauru di campagna

di suduri mmiscatu a erba e terra.

Circaiu no tascappanu

na ficudinna senza spini

‘mpinta a la so pala,

‘n panispagnu tennuru,

n’aranciu fora tempu

nuci virdi ppi iucari a Dovianu…

(luntanu sù li siri

quannu, turnannu a pedi, do travagghiu

sudatu e filici

lassava cumpagni e iocu

e ti satava ‘ncuoddu)

vi truvaiu ‘n cuteddu spirnatu d’inzitari

cu na lama rrusicata do mmulari,

e tra muddichi amari e sicchi…

a tò foffici di rimunnari.

Su ott’antanni, ora, ca riposi ‘npaci

e no mentri pur’iu divintaiu patri,

ma ddi mumenti priziusi, fatti di nenti,

li portu cu mmia

finu a quannu lu me suli nun si stuta…

cancillannu ddi vampi d’amuri

co ‘ngnornu m’addumasti

accussì vivi

Paolo Salamone (Palagonia - CT)

Il ritorno al passato non è soltanto memoria. Ma giustifica con il suo percorso la condizione esistenziale del presente. Anche per un solo particolare dell’"essere stato" è possibile ricercare e trovare molte ragioni per contrarre un debito mai estinguibile.

Paolo Salamone è nato a Palagonia (CT) nel 1954, ed ivi risiede ed opera. Numerosi sono i premi vinti: Si ricordano: Concorso Internazionale di Agrigento per la tesi di laurea su Pirandello, Medaglia della rivista "Logos" per l’articolo: "La poesia di Eugenio Montale". Altri: "Angolo del Poeta", "Rinascita", "Solarium", "Surrentinum", Federico II di Svevia", "Golfo di Patti", "Festa dell’Anziano", "Ignazio Russo", "Turi Zappalà", "Terra d’Agavi", "Ninfa Kamarina", "Città di Marineo", "Meliusium", "Rocco Certo", "S. Teodoro", "Rosario Piccolo", "Cava de’ Tirreni", "Carlo Goldoni".

 

BELLE DI NOTTE

‘Na brutta sira umida e friddusa

Patri Carmelu, pi’ ‘na via sulagna,

si ‘nni turnava versu la so’ casa:

‘na chesiceddha ‘mmenz’a’ la campagna.

Mentri camìna, ‘nta ‘na cantunera,

vidi ‘na povireddha scunsulata

adddhitta, avanti a ‘n focu di braciera

cu ‘i cosci ‘i fora, tutta scullacciata.

Prova a ddha vista, granni cumpassioni,

poi s’avvicina a chiddha svinturata

e dici cu prufunna cunvinzioni:

Tu ti sei messa su una brutta strada!

Iddha vaddànnulu ci dici: Patri,

pi quantu è veru Diu avi raggiuni,

pirchì stu postu non s’addici a nuatri!

Non è indicatu pi’ ‘sta prufissiuni.

Difatti, si cci ll’e cuntari tutta

Javi ddiversi jorna chi ci provu

ma non c’è versu, a strada è propriu brutta

non passa nuddhu, non si batti un chiovu!

Michele Lizzio (Roma)

I figuri della religiosità e della mondanità appartengono di diritto alla tradizione poetica di Sicilia. Ispirandosi ad un "locus" proverbiale noto, il poeta ne rende apprezzabile la traduzione estetica conseguente al loro immaginario incontro.

Michele Lizzio, nato a Messina, è ingegnere e svolge la sua attività a Roma, dove risiede. È Consigliere dell’Associazione Culturale "Antonello da Messina" di Roma. Solo da quest’anno partecipa a concorsi letterari, tra cui: "Poesia da Contatto" e "Il Faro d’Argento" di Riposto, città che ha dato i natali ai suoi Genitori, e alla quale si sente legato da devoto affetto filiale.

 

VECCHIA CAMPANA

Azzittìti ssa campana

da lu sonu lamintusu!

Mi fa vidiri malati

gnuni gnuni ppi li strati,

monichi senza facci

‘n prucissioni,

puzzi di jaleri comu notti senza sonnu

e carnuzzi senza vattiu

sippilluti ne’ cummenti

o ‘nta li criesii...

Azzittìti ssa campana

da lu sunu llammicusu!

Mi fa sèntiri canti di fidili

comu vuci d’appistati,

schigghi di li streghi,

fetu di brusciatu

cu l’incenzu ristagnatu...

Azzittìti ssa campana

da lu sonu piniatu!

Mi fa pinzari a tempi

senza lustru di cannili,

a vucchi muti

ppi timuri di na fidi ca nun c’era

senza li nirbati

a na scienza, ‘nfini,

suffucata da turturi...

Diana Franca Ferraro (Palagonia - CT)

All’ombra della memoria analogica la poesia diventa pensiero storico del ricordo. Ad ogni "tocco" la realtà emerge e si rende epifania tragica di una dimensione religiosa tante volte scientemente stravolta nella sua essenza.

Diana Franca Ferraro è nata a Mineo, ma vive e insegna lingua francese a Palagonia. Poetessa pluripremiata, si è sempre classificata ai primi posti a: "Angolo del Poeta", "Meliusium", "Turi Zappalà", "Rinascita", "Luigi Pirandello", "Rosario Piccolo", "Bizzeffi", "Rocco Certo", "Vann’anto’ Saitta", "Antonino Noto".

"Vecchia campana" fa parte della silloge Le Maschere, in via di pubblicazione dall’Editore Greco & Greco di Milano. Si ringrazia l’editore per l’autorizzazione.

 

MI PIACI PINZARI...

Certi siri mi camulìa a testa

na dumanna:

"dopu la morti, chi nni resta

si lassu tuttu cca bbanna?..."

A mmia, però, mi piaci pinzari

ca dda u munnu iavi autri culuri

ca non ci su ricchizzi, né dinari

e ognuno è riccu di lu so amuri!

Mi piaci pinzari ca dda ci su

campagni virdi, di ciuri macchiati

un celu chinu ‘i luci, sempri blu

ciumi chini ‘i acqua, assai puliti...

Dda nuddu cianci, è tristi

iavi duluri

nessunu si po pirmettiri ‘i

disturbari

chiddu ca cunta è sultantu

l’Amuri

ca umanu non è, e non po' mai

passari

A mmia mi piaci assai pinzari

ca chiddu è rinasciri,

non muriri!...

Salvatore Puglia (Taormina - ME)

La dimensione esistenziale dell’uomo è proiettata al superamento; ad oltrepassare il limite della necrosi progressiva del proprio pensiero nella morte fisica. Letterariamente è però un illusorio convincimento a strappare progressivamente quel nuovo essere al nulla e ad assicurargli un’esistenza estetica.

Salvatore Puglia è nato a Graniti /ME) e risiede ed opera a Taormina. Ha pubblicato Il futuro della speranza e C’era na vota... cu c’era. Numerosi sono i premi ricevuti.

 

 

 

SEZIONE D
SILLOGE INEDITA

 

 

 

da: Collezione di attimi

IL BANCHETTO DEL RE

Le tue parole:

sono guglie

conficcate sul mio petto,

sono un frenetico sbattere di ali

che mette farràgine

nei miei sentimenti;

parole decorate

da menzogne saporose.

Vedo ancora brùma

sui tuoi occhi.

È forse colpa mia

se sei guitta e parolaia

senza corte e cortigiani?

Ho te per esser me

ma non ci basta.

Che arlecchinata!

Che farsa!

Che pagliacciata

il nostro insulso mugugnare

e allora, per favore,

eclissa il tuo sguardo capeggiato.

Non ho più balìa

del tuo angariare, quindi:

ti abbandono lentamente,

sopra lenzuola di fiori e lame

perché tu possa meglio urlare,

del tuo sadismo dichiarato

e smarrito,

dentro una fiera di uomini

e ladri

che vendono impronte di Dei.

Le "Isole dei Beati"

sono aggrappate

all’orizzonte di ogni leggenda

e tu, ingenua di fede,

hai confuso il vestito

di una sirena

con un groviglio di alghe.

Ora si che puoi accettare l’invito

per il banchetto del Re.

Serse Cardellini (Monteciccardo - PS)

Un sottile minimalismo permea la pièce poetica. Che riconduce se stessa a "parole decorate da menzogne saporose". Il rifiuto della formale apparenza dei gesti, dei luoghi, delle essenze è motivo della incipiente simbolizzata "anarchia dell’essere" che appartiene al poeta.

Serse Cardellini vive a Monteciccardo (PS). Diplomato alla Scuola d’Arte "F. Mengaroni" di Pesaro, attualmente è iscritto al corso di laurea in filosofia all’Università di Urbino.




da: Vocativi filiali

LE MORTI

Come presunti profeti

enfatizziamo l’Eterno

come eterei

ladroni di carne.

O forse

le morti bestemmiando

travalichiamo le sorti

e ci imbeviamo di noi.

E le morti stanno lì

a portata di mano,

e non abbiamo scudi

ma stracci

come barboni strafogati

d’elemosine mancate.

Così,

ci sfaldiamo le forze

finché il grande salto

toccherà a noi.

Giuseppe Samperi

(Castel di Judica - CT)

La poesia come richiamo, come appello lanciato nel vuoto, come senza eco ritorno. In una silloge proiettata alla sperimentazione ed alla scoperta estetica è la comunicazione e le sue inferenze esistenziali a costituirne le vertebre creative. Comunque condannate a sopportare inutili attese e risposte circa la qualità del proprio essere.

 

da: Acqua frisca

AMARA LUNTANANZA

... e lu travagghiu all’esteru...

Era malata gravi

‘a figghiaredda

e la curcai cu mia

nto lettu ranni

mentri orazioni

suspiri e chianti

scurrivanu

comu funtanedda.

"Ma... Mamà... chi fa ...

veni... papà..."

‘U dissi c’un filu di vuci

strascicata e dilusa

ca mi pirciò lu cori.

"Sciatuzzu miu

to’ patri sta turnannu!

Addurmisciti ora

e nun pinsari..."

Appujai la testa a la so’ testa

tinennu ddi manuzzi ‘ntra li mei

e si durmiu comu ‘n ancileddu.

Amara luntananza!

Quantu pinsera vulavanu luntanu

comu a sprisciari ‘u tempu!

Ripigghiai a prigari

quannu, ‘un sacciu comu,

Maruzza di bottu si vutau

e... c’un suspiruni, trimannu...

‘ntra la vrazza mi spirau.

Wanda Melfa (Enna)

Il quarto elemento esemplifica la condizione di un uomo travolto dai ricordi e dagli eventi. Nel suo fluire porta con sé le amarezze e le speranze, luoghi poetici "tipi della poesia di Sicilia", qui evocate in un costrutto linguisticamente denso ed aderente alla lingua isolana

Wanda Melfa, nata a Bengasi, vive ed opera a Enna. Ha pubblicato diverse opere di poesia e ha vinto numerosi premi letterari.

 

 

 


SEZIONE E
SILLOGE EDITA


 

 

 

da: Moltitudine sola, Guido Miano Editore - Milano, 1997

RAZZA DI FIUME

Della pioggia sei figlia surgiva

discendente diretta dei nubi

razza di fiume

che in palude s’illude

d’acque, di terre, di campo.

Dormi, di fango, un refluo lento,

vallivo letto di fosso

che porti d’acqua sovrana

l’anima e il cuore a sognare,

turbati.

Nell’ombra tua dei fondi,

meraviglia il riflesso verde,

color d’emozione, dell’erbe

di vita dei rivi nell’acqua

che sempre si specchia, grande,

un pavimento di cielo.

In carezza sensuale inonda,

irrora d’azzuro la pancia,

la schiena, le vene dei solchi,

aperti pugnali.

Di zolle d’aratro punite,

selvagge, rapite, ferite

terre seccate.

Private, riarse di libertà vostra

d’oziare di umida vita.

Progenie palustre di limi,

sublime di lidi,

ricordo ormai d’andato passato,

oggi a bonifica speso.

Discendenza d’acqua smarrita,

stirpe antica asciugata,

cieca ora s’interra in contadini raccolti

la tua vita passata.

Sogni interrotti di fossi vecchi, d’eterno.

Franco Gobbetti (Desenzano - BS)

La ricchezza di un’eco poetante viva e voluttuosamente insinuata tra le parole e i fonemi, in canora antifona con la memoria culturale dei poeti, ci consente di apprezzare e leggere intertestualmente questo libro come un dialogo avvincente con la tradizione delle poetiche novecentesche.

Il trattamento visivo, a tratti visionario del paesaggio, riesce a restituire una immagine metropolitana sublimata in suono e, oltre le rumorose città, ci consente un consolante approdo alla natura.

Franco Gobbetti è nato nella Bassa Veronese, ma vive e lavora a Desenzano. S’interessa di linguaggio visivo e delle sue possibililtà per esprimere la contemporaneità , soprattutto nella parte più oscura, simbolica, meno immediata e visibile. Ha pubblicato: Transanima, Maremmi Editore, e Moltitudine sola. Numerosi sono i riconoscimenti ottenuti.

da: Vespero, Edizioni "Il Gabbiano", Messina

 

A BASSA QUOTA

Minata da un male sottile l’anima

di chi ha subìto troppi rifiuti.

Non sa più giocare con la sua ombra

che si riflette labile sul muro

rasentandolo a bassa quota.

Puoi inventare per lui un gioco nuovo

rovesciando le carte e le regole

ma egli rifiuterà la partita

sapendo già di risultare perdente.

Ti chiede di lasciarlo alla sua pena

ma nessuno più di lui vuole essere smentito.

Vittoria Gigante (Messina)

Vespero possiede la semplicità di un approdo che si lancia dietro la complessità e il tormento. La certezza di una fede acquisita si tramuta in una precisa scelta formale orientata verso l’ essenzialità. Come essenziale è il dialogo con l’assolutamente altro che palpita in queste pagine.

Vespero può essere letto come viatico di fine secolo alla ricerca di un approccio "puro" con l’Io e l’altro che trova nella parola poetica scarna e pulita la sua più consona forma di comunicazione.

Vittoria Gigante, vive e opera a Messina. Già insegnante di lettere al liceo classico, ha pubblicato: La sardana della solitudine, Gastaldi, Milano, 1967; Il fiore del silenzio,1989, Storia di Lia,1990, e Pièces giovanili, 1992, Carbone Editore Messina; Sapevo una storia, 1991, e I poeti dell’estasi, 1992, Edizioni Akron, Furci Siculo.

da: Convito di ninfe, Il Lunario, Enna, 1996

 

NEL VERDE E NEL MARE...

Le cose non stanno che a ricordare .

Pian piano i minuti vissuti,

fedelmente li ritroveremo...

(V. Cardarelli)

1

Nel verde e nel mare

biciclette e mulini;

tulipani

e case di legno.

2

Dal luogo

più a ovest d’Europa

osservo l’oceano.

3

Come un quadro

fiammingo

dipinto sull’acqua.

4

Soave solitudine

in compagnia

di anitre e tordi.

5

Da una chiatta sul fiume

giungono chiare le note

d’un valzer di Strauss.

6

La "promenade dei filosofi"

mi mette soggezione.

7

Dalle rive

dei piccoli laghi

migliaia di uccelli

volano.

Giuseppe Bevilacqua (Piazza Armerina - Enna)

Con lo spirito del wanderer, ora incantato ora attento e lucido osservatore, Bevilacqua in questa raccolta ci offre affreschi di realtà, vicine e lontane, al confine tra mondo vissuto e mondo immaginato, ove gli occhi vedono dentro e fuori dalle cose, ove il poeta si muove per ridare "il nome", per ricomprare in cifra letteraria composta, il divenire incessante delle immagini.

Giuseppe Bevilacqua lavora e vive a Piazza Armerina, in Sicilia, dove è nato nel 1949.

Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Convito di ninfe, Il Lunario, 1996; Erba e pietre, Il Lunario, 1998.

Inoltre ha partecipato alla realizzazione di plaquettes in collaborazione con artisti visivi, e s’interessa, a scopo divulgativo, di tematiche ambientali.

 

 


SEZIONE F
RACCONTO INEDITO


 

 

IL RITRATTO

Mi dispiace, disse con tono impersonale il professor Martinez, ma non c’è alcuna possibilità di recuperare la vista, nemmeno con un intervento chirurgico, la sua è una malattia sconosciuta per cui non c’è ancora alcuna terapia valida. Juan Ramon non parlò, ma una onda gelida si abbatté in ogni anfratto del suo corpo facendolo barcollare, mentre i muscoli del volto si contraevano fino allo spasimo, in una smorfia di sofferta incredulità.

Il consulto col professore, oftalmologo di fama mondiale, costituiva anello di una catena di visite e relative terapie, tutte senza alcun esito, a cui Juan Ramon si era sottoposto, ininterrottamente, dal momento in cui si era accorto che la sua vista, da un giorno all’altro, aveva preso a diminuire rapidamente ed in modo drammatico. Che strani scherzi gioca il destino!

Proprio a Juan Ramon che avrebbe potuto fare a meno di tutto ma non della vista, a lui che con i suoi occhi sapeva catturare ogni particolare di ciò che vedeva, anche quello che a tutti gli altri sfuggiva.

Era successo proprio a lui , al più grande pittore spagnolo vivente.

La moglie cercò di sorreggerlo ma, con fare brusco, le allontanò la mano che, con tenerezza e decisione, l’aveva afferrato al braccio. Finì di parlare col medico, quindi si fece accompagnare a casa in assoluto silenzio.

Juan era un pittore straordinario, ogni suo quadro emanava, insieme ad una bellezza tangibile, un senso di assoluto, di sublime capace di toccare anche l’animo più duro. Così i suoi paesaggi, le scene di vita, i ritratti, qualsiasi cosa dipingesse, veniva come trasfigurata sulla tela.

Egli riusciva, con assoluta naturalezza, a riprodurre ogni soggetto, non come era realmente, ma proprio per come i suoi occhi di artista l’avevano visto.

Però, come la luna, misteriosa regina della notte che spesso amava dipingere, anche lui aveva due facce.

Così a quella sensibilissima, quasi mistica dell’artista, si contrapponeva l’altra ruvida, spesso inespressiva dell’uomo.

In effetti, aveva sempre concesso molto poco a chi gli stava vicino. scarsamente incline alle tenerezze, estraneo al sorriso, viveva la sua vita sociale come un fastidio che l’allontanava da quella che era la sua vera ragione d’esistere: l’arte.

La sua rigidezza lo faceva apparire come privo di quelle emozioni che, al contrario, rendevano unici i suoi quadri. Era come se due personalità si agitassero, tenacemente intrecciate, nello stesso individuo.

Il suo atteggiamento davanti al pianto, era addirittura di rabbia.

Gli capitava, a volte di assistere alle lacrime, di gioia o di dolore, della gente e questo, non riuscendo a comprenderne il significato, provocava in lui un senso di profondo disgusto per un atto inutile, che gli sembrava, altresì, incompatibile con la vera essenza di un uomo. Le persone che gli stavano vicino, sua moglie, glia mici, avevano imparato a convivere con queste sue caratteristiche che gli impedivano di essere un uomo veramente speciale.

Solo per la sua unica figlia, Alma, aveva degli slanci d’amore impetuosi.

Lei era bellissima, i lunghi capelli, neri come la notte, incorniciavano un volto espressivo, su cui, come fiaccole, ardevano due occhi incredibilmente simili a ai suoi. Aveva voluto che sin da piccola studiasse il pianoforte. Le sue mani, sottili ed eleganti, carezzavano la tastiera, regalandogli sensazioni sublimi e, spesso, amava dipingere mentre lei suonava.

Unicamente lei aveva il permesso di assistere mentre lavorava.

Ora, seduto nel suo studio, avvolto in una coltre greve di silenzio, pensava che non avrebbe più dipinto. Si sentì per la prima volta nella sua vita, inutile.

Non riusciva ad accettare tutto questo.

Ogni cosa gli appariva insopportabile, ogni strada sbarrata. L’angoscia montava sinuosa in lui come una marea, soffocando ogni residuo di vitalità.

La speranza, era una luce che annegava nel fondo scuro dei suoi occhi di ghiaccio. Si vide inerme, costretto a ricorrere agli altri per ogni sua necessità, sentì la voglia di vivere, fuggire veloce, come il giorno al calar del sole.

Pensò ad Alma, che tra meno di un mese si sarebbe sposata.

Non l’avrebbe vista splendere nel suo abito bianco, non avrebbe potuto accompagnarla all’altare e soprattutto, non sarebbe riuscito a farle il regalo che lei gli aveva chiesto per le nozze: un ritratto insieme ai genitori da portare con sé.

Si strinse la testa tra le mani, appoggiando i gomiti alla scrivania, le dita affondate tra i riccioli grigi dei suoi capelli, perennemente scompigliati.

Il respiro era lievemente affannato di ansia sottile, ma non una lacrima solcò il suo viso.

L’ombra della sconfitta si stagliò immensa tra i vicoli della sua mente e desiderò morire. Aprì il cassetto al centro della scrivania, vi infilò la mano destra e cercò a tentoni. Sentì subito il freddo contatto col metallo della pistola e gli sembrò di carezzare la morte.

Stette così, immobile, per un tempo interminabile, quasi sospeso in una atmosfera surreale, in bilico tra l’incubo e la realtà, mentre oceani di immagini gli inondavano i pensieri. Tra queste, improvvisa, si fermò quella di Alma ed il suo cuore stanco ebbe un sussulto. la vide nel suo candido abito da sposa.

Bella come sempre, ma il suo volto esprimeva un dolore indicibile, la malinconia colorava la sua pelle di un pallore profondo, le sue labbra senza sorriso socchiuse in una espressione stranita, deformate da uno stupore senza voce.

Si scosse di colpo, riaffacciandosi alle porte della vita, mentre fitte gocce di sudore si posavano sul suo viso tormentato, come brandelli di pioggia dopo una tempesta sulle foglie ferite degli alberi.

Non avrebbe dato a sua figlia questo dolore, non avrebbe colorato col nero della morte un giorno che doveva unicamente essere di gioia. Decise che avrebbe vissuto e che Alma avrebbe avuto il suo regalo di nozze.

Nel più assoluto segreto fece montare al suo maggiordomo una tela sul cavalletto, facendo, poi raggruppare i colori ed i pennelli e disponendoli in un ordine ben preciso che impresse nella sua mente lucidamente.

Ogni notte si alzava, in silenzio, recandosi nello studio, dove, come sempre, nessuno aveva il permesso di accedere.

Le prime volte avanzava con fare incerto, come il volo di un uccello ferito. Urtava gli oggetti barcollando, inciampava, si rialzava, ma non si fermava, spinto da una forza inarrestabile prima sconosciuta, la forza dell’amore.

Poi, divenne sempre più abile. Si muoveva con la precisione di un pipistrello, agile come un felino. Nello studio, seduto davanti alla tela, che ogni tanto controllava con le mani, dipingeva con un fervore instancabile.

Con gli occhi della sua anima, prima completamente chiusi, riusciva a vedere perfettamente ogni cosa. I particolari, i colori, la luce. Tutto gli era molto chiaro adesso. Il quadro prendeva forma sempre di più.

Il volto di sua moglie, Dolores - che lo aveva sempre amato totalmente, soffocando dentro di sé la sofferenza per la sua indifferenza - a sinistra, Alma al centro, il proprio volto a destra. Un insieme che di rado la realtà aveva visto.

Notte dopo notte lavorava con tenacia, mentre la data delle nozze si avvicinava e i preparativi fervevano, pur nel tangibile dispiacere per il dramma del maestro, che aleggiava pesante sulla casa.

Fu spesso sul punto di abbandonare tutto, ma non si arrese.

Quando sentiva lo sconforto assalirlo, serrava i pugni, stringendo forte i denti, mordendosi, a volte, le labbra fino a bagnarle di sangue, ma non pianse mai.

Giunse il giorno tanto atteso. Impeccabile nel suo tight, con passo sicuro, accompagnò Alma all’altare della cattedrale, dove l’attendeva lo sposo. Era come se la vedesse distintamente al suo fianco, orgoglioso dei sussurri di ammirazione che udiva passando tra due ali di folla.

Al sorriso che lei gli rivolse rispose sorridendo felice.

Nel mezzo del pranzo nuziale, quando i festeggiamenti erano al culmine, si alzò in piedi, invitando i musicisti a fermarsi. Tutti si guardarono incuriositi, pensando forse a qualche sua scenata.

Juan fece un cenno con la mano ed il maggiordomo avanzò al centro della grande sala portando un oggetto coperto da un drappo di velluto rosso.

Nel silenzio totale, si fece accompagnare lì vicino dalla moglie e dalla figlia, poi, mentre Dolores gli stringeva forte la mano singhiozzando, disse ad Alma: "questo è il mio dono per te".

Lei si avvicinò lentamente, scoprì con fare quasi timoroso l’oggetto ed apparve il quadro. Un mormorio denso di ammirazione si alzò dai convitati, quasi paralizzati dalla meraviglia. Un’immagine straordinaria perfezione si mostrò improvvisa. I volti dei due genitori con la figlia al centro, sembravano quasi proiettarsi fuori dalla tela. Ogni particolare era riprodotto con assoluta perfezione ma quello che colpiva di più, era la serenità assoluta, il senso di una pace ritrovata che accendeva i loro visi.

Alma strinse Juan in un abbraccio senza fine al quale si unì la madre, per dare vita ad una dolcissima scultura di sentimenti. Poi, tornò vicino al dipinto per sfiorarlo con una carezza con la sua mano delicata e si accorse stupita di un minuscolo riflesso di luce sul volto del padre, che prima, ne era certa, non c’era. Guardò con attenzione e, mentre il suo cuore, incredulo, palpitava di gioia, vide scorrere, lentamente, sulla tela, la prima lacrima della sua vita.

Giuseppe Risica (Tonnarella – Me)

L’equazione luce = speranza pervade interamente "Il ritratto", racconto di intenso respiro. I sentimenti celati, le emozioni segrete di Juan Ramon "il più grande pittore spagnolo vivente" uomo apparentemente freddo e distaccato, incapace di comunicare il proprio essere se non attraverso la pittura, si trasfondono in un dipinto forse l’ultimo, sicuramente il più faticoso.

Giuseppe Risica, nato a Messina nel 1955, vive e opera a Tonnarella come cardiologo. Si è classificato al primo posto in diversi premi letterari, tra i quali: "Surrentinum" 1995 e 1997, "Contea di Modica" 1996, "Città di Trapani" 1996, "Danilo Chiarugi" 1996, "Colapesce" 1996, "Beniamino Joppolo" 1997, "Meliusum" 1998, "Città di Leonforte" 1998. Ha pubblicato le sillogi: Oltre l’orizzonte, 1996, Mare dentro mare, 1998, Le passate stagioni, 1998. Cura articoli su giornali e riviste specializzate.

 

IL SOGNO DI UN MANICHINO MUSICISTA

Nel borgo più antico della città, in una stretta viuzza, la nostra storia ebbe inizio. Tra file di case anonime e qualcuna ogni tanto in foggia monumentale con portoni di legno, arcate e stemmi in pietra serena, dove tutto richiamava ad un antico passato, c’era una vecchia bottega artigiana in cui si respirava una densa suggestiva atmosfera. Qui nacque il personaggio di cui vi narreremo.

La sua, fu una nascita fuori dal comune perché fu creato, plasmato, dalle abili e amorevoli mani di un artista artigiano. Le sue forme furono tornite con grande precisione nei particolari, la testa poteva assumere qualunque posizione, gli arti, snodabili, ogni possibile movimento, tanto che le dita delle mani sembrava volessero muoversi da sole da un attimo all’altro. Sì, stiamo proprio parlando di un manichino, molto speciale però. Era stato commissionato dal direttore del grandioso Teatro Massimo che si ergeva nella piazza poco distante.

Il nostro manichino doveva essere partner della protagonista di un balletto, doveva simboleggiare l’uomo con le sue passioni, le sue sofferenze ed in ragione di ciò doveva essere in grado di mutare atteggiamenti.

Fu così che appena finito, egli poté varcare la grande soglia del tempio dell’arte tra le braccia del suo creatore. Attraversò saloni, ampie scalinate, pavimenti coperti da tappeti rosso vermiglio, dove in religioso silenzio i passi degli addetti sfioravano il suolo. Attraverso pesanti tendaggi, intravide appena l’interno della platea e gli ordini dei palchi, fu abbagliato da scintille di luce che da lampadari di prezioso cristallo si sprigionavano e intrecciando danze si rifrangevano sulle dorate decorazioni provocandone lo sfavillare. Poi inoltrato attraverso un lungo corridoio a semicerchio, appena rischiarato, giunse infine nello spazio delle quinte, fu posto dentro un camerino dove regnava un disordine sparso di cose a lui sconosciute ed un intenso profumo inebriante.

Dietro le quinte il via vai di persone era continuo, frenetico, in netto contrasto con ciò che aveva conosciuto al suo ingresso. Voci maschili e femminili s’intrecciavano in un crescendo di toni, davano ordini, facevano richieste, si esortavano o s’interrompevano a vicenda.

Il manichino si guardò attorno, strane cose lo circondavano, ceste di fiori, bambole, nuvole di tulle dai mille colori, una specchiera illuminata con una mensola dove poggiavano boccette di profumi, spazzole e cosmetici. Uno sgabello era posto davanti alla specchiera ed al fianco, un paravento di nero ebano, lucidissimo, intarsiato di candido avorio che rappresentava splendidi fiori, giardini dagli alberi contorti e pavoni con la coda a ventaglio. Ad un tratto, mentre cercava di prendere confidenza con quel mondo nuovo, il frenetico trambusto e le voci concitate si zittirono, tutto fu silenzio, un dolcissimo suono riempì l’aria, tutto si trasformò, perfino il disordine sembrava avesse acquisito un’anima. Le note di un violino vagavano per tutto il teatro, trasmettevano vibrazioni silenziose che penetravano attraverso le molecole della materia di persone e cose giungendo fino all’intima essenza. Durò un tempo incalcolabile, tutto sembrava essersi fermato al suono della melodia, poi di nuovo giunse il silenzio ed il cicaleccio ricominciò, la porta del camerino si aprì ed una figurina esile in calzamaglia entrò sicura guardandosi attorno. Venne verso di lui, lo squadrò dal capo ai piedi e disse a se stessa: "Peccato, se avessi immaginato che già era qui, avrei provato con lui sulla scena. Però! È stato veramente ben fatto! Be’, domani lo porterò sul palcoscenico, e sarà una prova completa".

Il manichino capì che si trovava di fronte alla ballerina cui era destinato e forse ancora commosso dalla musica appena ascoltata si sentì turbato dallo sguardo con cui ella lo valutava, pensò alle mani del suo creatore, alle pareti della piccola bottega, agli attrezzi con cui era stato plasmato e si sentì meno solo. Riuscì a sua volta a guardare la figuretta che aveva dinanzi, non gli parve bellissima, però il suo sguardo lucente bruciava, dai suoi occhi sprizzavano bagliori.

Giunse l’indomani, un inserviente lo portò sulla scena, fu posto in un punto prestabilito, l’attività frenetica degli operatori era al massimo, chi correva a destra, chi chiamava a sinistra, poi improvvisamente ad un cenno del regista, il silenzio regnò.

Il violino diffuse la sua musica creata per gli Dei, ed essa s’insinuò in ogni animo, in ogni fibra di persone viventi o cose inanimate, l’intensa emozione ancora una volta trasmise la vita. Sul palcoscenico, come una libellula giunse la protagonista, al suono delle note volteggiava intorno al manichino, ora accarezzandolo, poi abbandonandolo, tornando di nuovo ad abbracciarlo ed infine respingendolo con sdegno e derisione. In tutta questa coreografia, ella con destrezza riusciva a muovere le sue membra portandolo ad assumere atteggiamenti di gioia, di dolore, di esaltazione, di sofferenza, di tormento ed infine d’amore e distruzione, tutto al suono, ora struggente, poi esaltante ed infine tragico che scaturiva dall’archetto del magico strumento.

Il manichino rimase sconvolto, ubriaco dal volteggiare della ballerina, stordito dal suo profumo, dal tocco delle sue mani sulle sue membra snodate, incendiato dai suoi occhi che come stelle lanciavano dardi di luce. Un torrente di sentimenti travolse il suo cuore di legno che pulsava, fremeva, come fosse un cuore di sangue. Le sue mani, le sue dita erano irraggiate da scariche elettriche e avrebbero voluto afferrare la silfide danzante, oppure avere tra le mani lo strumento prodigioso, suonarlo all’infinito con l’anima e la maestria di un Paganini, per vederla danzare e sentire le sue carezze per l’eternità.

Finita la prova, il manichino fu riposto. Venne la sera della "Prima", in platea il movimento ed il brusio del pubblico rendeva la compagnia ancora più eccitata, poi le luci incominciarono ad abbassarsi, il brusio ad affievolirsi, era il segnale dell’inizio. Il buio pervase il teatro, tutto si tacque, il sipario si aprì, un riflettore si accese sul palcoscenico e la musica incantata, magicamente diffuse le sue note, sulla scena "il rito" ebbe inizio e la storia d’amore del manichino il suo svolgersi.

Così andò per tutto il periodo che lo spettacolo fu tenuto in cartellone per la stagione di quel teatro. Il manichino ogni sera trovava la vita attraverso la musica, la danza di "Libellula" e le sue carezze ma, poiché tutti i sogni prima o poi finiscono anche questo fu destinato a svanire. La ballerina fu scritturata da un teatro di fama internazionale, avrebbe interpretato altri temi, altre coreografie, il manichino si rese conto che il suo sogno ormai era giunto al termine. La sera dell’ultimo spettacolo mentre tutto si svolgeva nell’atmosfera di magia, sembrò agli spettatori che qualcosa di insolito stesse accadendo sul palcoscenico. Il volteggiare della protagonista rendeva ancora più reali gli atteggiamenti del manichino, anzi, più volte sembrò che si muovesse davvero, che realmente gioisse, soffrisse, e poi, ancora, vibrasse al culmine di una gioia immensa, per infine ricadere esausto, schiacciato da tutto il dolore del mondo, per l’abbandono ormai reale e imminente. Un brivido percorse tutto il teatro e forse per un gioco di luci sembrò che due lacrime brillassero sul sofferto volto di legno.

La rappresentazione finì, un applauso senza fine salutò i protagonisti, il sipario si chiuse, le luci si riaccesero ed il pubblico visibilmente commosso, pian piano uscì dalla platea e dai palchi, gli artisti partirono per il loro destino, il teatro tornò nel silenzio.

Si dice che, nel cuore della notte, dall’edificio si era elevata appassionata e travolgente una musica. La mattina dopo gli inservienti trovarono in un camerino un manichino di legno con fra le mani un archetto, accasciato sotto la mensola di una specchiera, su cui poggiavano una rosa rossa ed un violino con il suo spartito. Sul volto del manichino scorrevano due gocce di resina lucente, come fossero due lacrime.

Letizia Santanna (Prato)

L’arte capace di scatenare forze, passioni e istillare la vita è alla base di questo racconto che si svolge in una dimensione fantastica. Il protagonista, un manichino, si muove in uno spazio che è quello della fantasia e del sogno riuscendo a provare sentimenti ed emozioni verso la ballerina con cui dovrà danzare, la "vera" protagonista che tuttavia, nelle coordinate fantastiche del racconto sembra quasi irreale, "legnosa" e priva di vita. In un balletto, su una melodia mai udita da essere umano, si annebbia la percezione comune dello spazio e di ogni cosa: mirabilmente, in un’abile danza giostrata dalla narratrice perfino il disordine sembra possedere un’anima.

Letizia Santanna, autodidatta, è nata ad Aidone (Enna), ma vive ed opera a Prato.



 

 

ALTRE POESIE



 

 

ALTO LIBRARSI

Alto librarsi

dell’aquila

per morire

Vento di polvere

errante

senza andare

In te cerco il silenzio

dove parlare

non la tristezza

che ti fai compagna

Marcello Amico (Messina)

 

ACROBATI

Nella grotta dell’incenso

acrobati;

nell’ostilità dell’abbandono:

acrobati.

Per riscattare dall’aria

lo stare con lui,

dell’acqua la carezza,

del fuoco la purezza:

acrobati;

anche per saltare

sui muri della monotonia.

Sempre cuore aperto,

carne viva, nervi a fior di pelle,

acrobati.

Luce negli occhi

per dissipare e capire un po’

le ombre e questo mistero della vita.

Canovacci, bussole, mappe, oroscopi

che non riescono a spiegare

perché in questo circo della realtà

o del sogno

siamo stati e saremo per un istante

acrobati, senza cautele né reti

(fango che cresce nel fuoco),

senza orecchie,

acrobati,

per mancare all’appuntamento

degli adii per sempre.

Santiago Miquel Bao (Argentina)

ACROBATAS

En la gruta de incienso:

acróbatas.

En la hostilidad del abandono:

acróbatas.

Para rescatar del aire

el estar en él,

del agua la caricia,

del fuego la pureza:

acróbatas;

también para saltar

sobre los muros de la monotonía.

Siempre corazón abierto,

carne viva, nervios a flor de piel,

acróbatas.

Luz en los ojos

para disipar y comprender un poco

las sombras y este misterio de la vida.

Tramas, brújulas, mapas, horóscopos

que no alcanzan a explicar

porqué en este circo de la realidad

o del sueño

fuimos o seremos por un instante

acróbatas, sin cautelas ni redes

(barro que crece en el fuego),

sin orillas,

acróbatas,

para faltar a la cita

de los adioses para siempre.

Miguel Santiago Bao (Argentina)

 

SPECCHIO

Finalmente,

uno specchio in cui posso

contemplarmi!

Scruterò le linee più sottili

del mio volto

Voglia di morire col tramonto ...

Taglierò le radici inaridite

del mio cuore.

Voglia di risorgere con l’alba ...

Negli abissi marini

non è mai notte.

Giuseppe Bevilacqua (Piazza Armerina - EN)

 

SORRISO DI SPOSA

Intrecciati con cura

dalla maestria del tempo

c’incontriamo

in calde trame di respiro

così fragili e felici

nella ricchezza lieve dei silenzi

E quando solo un velo di stelle

veste la notte

sempre giovane e viva

rimango a sognare

tra il velluto dei tuoi baci

e il tuo volo che scioglie lune

nella mia pelle

Ha il fiato del cielo

la mia gioia

e frange di sole

danzanti fra le tue parole

Olezza il cuore di rosa

che si offre

alla festa del vento

Come arpe s’intonano i nostri occhi

nella magia mai stanca

delle carezze

Con sorriso di sposa

vengo a porgere luce

alle tue mani d’amore.

Elena Cimino (Gela - CL)

 

 

Montagne inghirlandite ...

Montagne inghirlandite

di nebbia: in me si piega

la vostra durezza.

Cuore di pietra: in te

più non scorre acqua

di rosa se nelle notti

di luna muto passa

sui granai il vento

d’Africa.

Non ricordo più l’aria

di vendemmia che qui

d’ottobre mi dissuadeva.

E il cavallo ansimante

davanti alla locanda del

borgo dove un vecchio

mi sentiva nel cuore

straniero.

Sono come un uomo che

ha paura delle ombre, eppure

ombra del tempo vuole

diventare.

Gennaro De Falco (Napoli)

 

COMPIETA

S’insinua la dolce preghiera della sera

con il suo lento salmodiare

nell’anima semiaperta sul vuoto

tentata dalle languide spire

di una triste sirena accidiosa

- voluptas dolenti -

o subdolo demone travestito

mai ridotto definitivamente al silenzio.

Mi libro

sospesa tra il "sono" e il "non sono"

- vanitas vanitatum -

mentre mi pare di vedere ammiccare

una luce lontana (o vicina?)

che diventa richiamo

un invito, un grido, un segnale

talmente imperioso

da darmi il coraggio

di amare per prima

sapendomi amata da prima.

Vittoria Gigante (Messina)

 

Il lato sinistro

Vivo nell’abito oscuro del freddo

la guaina grigia del giorno.

I raggi tenuti del sole

sfiorano molli la pelle tirata

su spenti stentati sorrisi.

Il lato sinistro dell’ombra

m’intreccia costante

il tempo e la via

tagliandomi addosso stracci continui

pesanti di vuota angoscia stantia.

Franco Gobbetti (Desenzano - BS)

 

Disoriente mattino

Cade la luna

come fendente

trista tagliente

spersa cupezza

nel disoriente mattino

che il giorno ravvia.

Io porto l’ombra che opprime

ed il suo buio mi sperde.

Lontano. In me cupa, dentro,

la bestia zoppa saltella

il passo insicuro dei vinti.

Franco Gobbetti (Desenzano - BS)

 

Cristallo notturno

Soffia d’echi soffusi

trasparente cristallo

notturno d’aprile.

Espanso è alto ventoso

nel lungo sprofondo

aereo lontano infinito.

Contiene sconfino

fresca tutta veloce

la sera volante

percorsa da luci traccianti.

Vivida notte astrale

in movenza aperta

nell’ombra sui corpi

si posa sui sonni riversi.

Solenne, ricolme il tremore

mistero brillante nel blu.

Intermittenti presenze

vagano lumi ronzanti

in spazi sperdenti rombi motori.

Fiati sospiri lontani

moventi pacati silenzi

girano d’uomini mute

rotte natanti.

Alate filano slitte

stive, persone nel volo

viaggio cullante.

Sciano vomeri carghi

scafi affollati

nel perdimento spaziale deserto

oblio totale del cielo

bluastro nero, imperfetto.

E a terra veleggia

nel basso fermo pesante

d’un cuore negli occhi

acuto un bisogno di volo.

Franco Gobbetti (Desenzano - BS)

 

RISACCA

Sciabordano arcane

le antiche parole,

appena alitate da labbra materne,

fra i miei neri capelli,

mentre mani intrecciate

trasudano fluidi

stillati dal cuore;

mentre vividi specchi,

i miei occhi,

rincorrono i bianchi unicorni

della mia fanciullezza.

Sciabordano nitide

sull’arido lido

dell’anima mia

ove il dito impietoso

del tempo

lascia graffi

di dure geometrie:

angoli acuti di sordo dolore,

linee spezzate d’eterne incertezze,

e cerchi e cerchi

del mio vano girare,

e coni d’ombra

dell’eclissi d’amore.

Sciabordano ardite

e, per qualche momento,

tutto pareggiano

là sulla sabbia.

Dolce risacca in cui

fronde di stelle

annegano liete.

Maria Grazia Landi (Viterbo)

 

Sipari d’organza

Quando Sirio lucente scavalca il Cimino,

e la luna contende alle ombre

l’abbraccio ai reconditi anfratti,

agli arcani dirupi tufacei,

ai vicoli angusti dove ancora agonizza

vecchio, il medioevo,

allora il Silenzio scava e rimuove

zolle indurite del mio territorio

e arriva furtivo agli aridi uadi

che segnano a fondo l’anima mia;

allora sipari d’organza alzati dal vento

mostrano scene lontane e felici

offerte al mio desiderio

d’essere fragile

che ancora anela carezze

di mani sicure,

e scarne parole d’amore;

allora cristalli di lacrime

di giorno stipati negli occhi

pian piano si sciolgono;

allora nei grigi crateri sopiti

del vecchio mio cuore,

ribollono insieme cocenti passioni,

amori ricordi, chimere inseguite,

assurde speranze.

Ma basta un rumore, un fioco sospiro

ed ecco apparire di nuovo

il nenfro del mio quotidiano.

Maria Grazia Landi (Viterbo)

 

L’ISPIRAZIONI

Si patri Danti avissi cunusciutu,

inveci di Beatrice Portinari,

donna Cuncett’a figghia i’ Saru Sciutu

putissuvu scummettiri dinari

chi li ‘ddivini cantici, pi’ ‘ccertu,

lu Vati non l’avissi mai pinzatu

di scriviri, pirchì di prim’acchittu

donna Cuncetta cci l’avissi datu!

di consiguenza la nazioni mia

‘nn’ avissi avutu modo di svittari

‘nto firmamentu di la poesia

e l’arti d’Alighieri cilibbrari.

Pi’ chistu cu lu’ gnegnu chi v’illumina,

putiti cunviniri puru vui

ch’è propriu veru chi ‘nu pilu i’ fimmina

tira ‘cchiosài di na parigghja i’ boi!

Michele Lizzio (Roma)