HENRI
MICHAUX (1899/1984)
(LA
POESIA COME ATTO DI CONOSCENZA)
di
Pinella Puglisi
(“Il
Faro”, n° 7/8, gennaio – giugno 1997)
Quasi
impossibile dare una definizione esatta dell'opera di Henri Michaux, giungere ad
una conclusione sulla sua poesia, pensare di poterla conoscere in tutte le sue
forme strane, in tutti i suoi colori più svariati. È
uno dei pochi scrittori che sfugge ad ogni tipo di classificazione, di
istituzione letteraria, di chiusura dentro determinati schemi. Nato
nel 1899, Henri Michaux vive sin da giovanissimo l'esperienza del surrealismo,
periodo in cui viene ripristinata l'importanza dell'intuizione,
dell'immaginazione, dell'emozione, che per decenni il razionalismo aveva
represso, unendosi alla compagnia dei pittori Max Ernest e Giorgio Tra
le sue opere ricordiamo: Qui je fus (1927), Ecuador
(1929), Un Barbare en Asie (1933), La nuit
remue (1935), Ailleurs (1948), La vie dans
(1949), Passages (1950), Misérable passage (1956), L'infini
turbulent (1957), Paix dans les brisements (1959), Connaissance
par les gouffres (1961). Nei
suoi lavori egli rappresenta l’infinito che lo spaventa, che lo inquieta.
Questa conoscenza degli abissi ne fa uno dei più grandi esploratori dell' inconscient.
Egli incarna una nuova concezione del poeta, visto come colui che riesce a
decifrare il mistero dell'uomo e la cui vocazione sarà tanto più forte quanto
più intensa sarà la sua voglia di approfondimento. Michaux
ha vissuto tutta la propria vita all'insegna della ricerca interiore, del
viaggio all'interno dei meandri più oscuri del suo essere e per poter
esorcizzare il suo male, per poter ricongiungersi alla sua anima, fa appello al
linguaggio poetico della parola. La
poesia non è più un lavoro sulla lingua, ma su ciò che spinge al silenzio, al
vuoto, all'inconnu. Essa deve essere capace di far apparire
l'immaginario, l'irreale, di rendere visibile l'astratto, l'invisibile: Les
poètes voyagent mais l'aventure du
voyage ne / les possède pas ( ...
) L'ailleurs
c'est la vraìe patrie / du poète (Lointoin inierieur,
in L'espace du dedans 1944). Una
concezione della poesia ben diversa da quella tradizionale, in cui ciò che
contava era lo slancio lirico, la musicalità, la scrupolosa ricerca formale.
Non più un canto, un rifugio nel quale trovare protezione, consolazione, oubli,
ma un grido di denuncia, una voce emessa con un ritmo triste, monotono,
inquietante. La poesia conduce alla profondità del sogno, dove tutte le
barriere, le Tuttavia,
per poter controllare i suoi fantasmi, Michaux non si perde nelle sue visioni,
ma al contrario cerca di dominarle attraverso la parola. Questa diventa dolore,
rabbia, mistero. Strumento di iniziazione, la parola permette di scavare
all'interno dell'animo di intraprendere la quête di sé. Il linguaggio non nasce più dall'interno, dall'animo del poeta, ma diventa una realtà esterna, una forza incombente che penetra dentro l'uomo-poeta, nel suo corpo, nella sua mente, per smascherare, esplorare e mostrare l'essere nudo, primitivo, per svuotarlo e renderlo libero. Il
linguaggio è fatto di simboli, che esprimono la fusione tra il pensiero e la
parola, ma anche di visioni, che rappresentano il metafisico che è nell'uomo: Bruit
/ Bruit augmente / mangeant le silence / de façon qu'il n'en reste plus rien /
Le sang du silence / coule constamment (Lieux sur une planète
petite in Les grandes épreuves de l'esprit, 1966). Si
può parlare, pertanto, di un'opera di autoconoscenza, di liberazione,
attraverso la quale il poeta compie un'autoterapia del proprio essere. E
consiste proprio in questo aspetto l'originalità di Michaux e cioè nella
capacità di far assumere alla sua poesia le caratteristiche di un'epopea
individuale nella quale ogni essere possa riconoscersi, esplorarsi, scoprirsi. Un
poeta, quindi, che ha avuto un privilegio, quello cioè di essere senza
privilegi. Solo la voglia di raccontarsi, di esplorarsi. Poesia, dunque, come
una voce che si esprime liberamente senza costrizioni, nella quale trovano eco
le tante voci disperse ailleurs. |