L'ILLUMINISMO
LUDICO DI LEONARDO SCIASCIA
(Citazione
e verità da Il Contesto a Toto Modo)
di
Salvatore Vasta
Da
qualche tempo ho come la presunzione di vedere quello sciasciano come un
illuminismo "svelato" e in parte ancora da svelare. E per due ordini
di motivi: 1) l'illuminismo di Sciascia sembra andare oltre la razionalità strictu
sensu; 2) Il nesso razionale che lega Sciascia alla razionalità appare
sempre più come ludico. Circa il primo aspetto, il lettore attento dell'opera sciasciana rimane affascinato dalla purezza, intuitiva e ineffabile, del filo rosso che lega, rivoltandoli, i meandri recessi della razionalità. Con riguardo al secondo Sciascia, qua e là nei suoi scritti, impone con forza ai suoi lettori una trama (che è contemporaneamente metodologia) di riferimenti arguta, in cui l'ordinaria funzione citazionale nel racconto viene asciugata dall'enfasi e fatta sedimentare su un territorio meta-storico e, più ancora, meta-fisico. Senza
entrare nelle vicende politiche, né in quelle delle fortune
critico-letterarie de Il Contesto e di Todo Modo,
è fin troppo evidente far raccogliere alla riflessione come alcuni topoi
della ricerca sciasciana ricorrono nei due scritti (forse prepotentemente ricercati
e riproposti per la "riscrittura" da parte del lettore) con scadenza
puntiforme e senza reticenza citazionale da parte di Sciascia, per il quale la
citazione è comunque lontana dal doversi misurare con l'enfasi che offre al
discorso. Ne
deriva che la fonte, nell'economia del discorso sciasciano, non rimane mai sola
a sostenere il peso della "virtualità" del discorso, perché il suo
uso non è corroborante le tesi svolte, ma assolve alla delicata funzione di
"regolarle", di tararle, puntualmente, nel "contesto".
Accade così che nel romanzo Il Contesto la "prigione"
dei presunto assassino Cres diventi centro di un sistema di "fonti
demaniali" (ed è qui che scatta la citazione di E. F. Foster), che
relazionalmente abbracciano la musica di Beethoven, gli Essais di Montaigne e
la Critica della Ragione pura di Kant, dimostrando -
attraverso la reductio ad absurdum - l'incomprimibilità
dello spessore sostanziale di una grande opera, seppur, a fronte di essa,
corrisponda la "prigione" dell'artista (la turris eburnea di Todo
modo), il cui isolamento è "in fondo, nella vita, la più grande
affermazione di libertà". Ed
il sistema citazionale sciasciano diviene parametro più complesso che
stabilisce il legame tra opere, allorché l'eco di quella fonte centrale si
propaga da un romanzo ad un altro. È il caso della rigorosa Critica di
Kant, le cui rigide strutture logiche vengono compromesse, in una ideale
partita di biliardo, nella loro intima connessione, fino ad annullarle in un
nichilismo terroristicamente concepito per esaltarne la razionalità, essenza
dell'uomo: necessità finalistica o causale (ma pur sempre necessità) tarlata
da un sottile tentativo stigmatizzante l'atto istintivo, la casualità,
l'irrazionalità; la turris eburnea dello scrittore birillo mirato da
traiettorie casuali di palle d'avorio. In
Toto modo Sciascia rafforza lo spessore dell'iter citazionale.
Alla "causalità sospesa a un atto di libertà" della filosofia
kantiana, lo scrittore "appende" simbolicamente tutto il romanzo: gli
assassini dell'Eremo di Zafer, don Gaetano, la preghiera collettiva nel
cortile sembrano vivere nella realtà del racconto perché volutamente
scoperti dallo scrittore che "senza programma" e "meta" si
trova da "solo" pronto a far "scattare" il suo "atto di
libertà". E tutto, dal nome del presunto eremo al presunto scandalo, al
presunto diavolo eccezionalmente diventa mistificazione lucidissima e
simbolica di quella palus putredinis che è la classe dirigente politica
italiana degli anni '70. Ed
è proprio in questa operazione che Sciascia ci restituisce un illuminismo (il
suo) dal nucleo denso ma dai contorni plastici, si direbbe ludico - per questa stravolgente multiformità e per l'indagine esaltante (fu uno dei
pochi che ebbe il coraggio di farlo) che egli compie della struttura sociale; - sacrilego nella denuncia (ma nell'essere "eretici", al di là
dell'aspetto dottrinale,/c'è sempre una seria avversione alle mistificazioni
fideistiche e alla stigmatizzazione delle credenze) - nel rimettere cioè
in discussione, nel gioco di luci ed ombre, nello spostare di continuo i limiti
e le bordure che fanno sognare alla ragione comune parametri e modelli dati
una volta per tutte, ma che nella realtà si danno la staffetta in un vero e
proprio giuoco delle parti. Sciascia
si muove con compiacenza nelle pieghe talvolta ruvide, altre setate e flessuose,
del linguaggio, sviscerandone, come se si trattasse di verificare di volta in
volta la provenienza, i costrutti psicologici e dunque semantici, per mezzo
del rapporto dialettico (e dilaniante) tra detto e non detto; tra ciò che viene
inteso e ciò che si lascerebbe intendere. È appunto in questi interstizi che
si insinua l’incarnazione, la rivelazione del "sistema"
politico-sociale con tutte le sue contraddizioni, esemplificato a
paradosso. Pasolini, a proposito di Todo modo ne definì
l'intelaiatura come "metafora profondamente misteriosa, come ricostruita in
un universo che elabora fino alla follia i dati della realtà". Metafisica,
dunque. “Infernale visione" della realtà politica italiana di quegli
anni, echeggiò Italo Calvino. Ed è al fondo della lucida analisi storica-contemporanea condotta da Sciascia, che la logica inquisitoria oscilla
tra poli della verità e del verosimile, nelle plaghe inconsce dell'ossessione,
quasi onirica, del pervenire ad ogni costo alla verità. Essa non si presenta
comunque come forma realizzata di fatti, ma come contesto di cifre, come
ipotetico regno dei fini in cui, però, l'aspirazione morale dei valori è
sostituita da relazioni fittissime ed oscure di istinto e causalità. A
verificare l'explicit di Todo modo, sembra che le cose stiano
realmente così: i topoi letterari e il sistema figurativo citazionale preso a
prestito da Spinoza, Ibn Hamdis, Anna Maria Ortese sono tutt'uno: "immagini
vere e proprie e immagini da parole", sottolinea Sciascia. Così come quel
tramite oculare (gli occhiali del dipinto e quelli di don Gaetano) che dilata la
realtà, che ne rivela le ragioni (vere) procura allo scrittore/alchimista la
coscienza che la patologia della verità reca la necessaria conseguenza della
denuncia nella scrittura. Rischio terribile, questo ("Molto intelligente,
sì; terribile, straordinario", sentenzia il commissario di Todo
Modo del diabolismo di don Gaetano), che ridurrebbe consapevolmente lo
scrittore a "posare" ipoteticamente per le tele olandesi
dell'iconografia alchimistica del XVII sec.; secolo - questo - che
la ricerca sciasciana privilegiò intensamente. Similmente
alla baldracca/madonna di Buttafuoco, assisteremmo forse al miracolo dello
scrittore che posa al posto di un alchimista ed alla decifrazione, tutta
sostanziale, dell'epigrafe "Oleum ed operam perdis" (che sottolineava
la derisione dei tentativi alchemici dopo la nascita della scienza moderna)?
Sciascia ci starebbe (?): "Non c'è qualcosa che ha a che fare con la
verità e la paura di scoprirla?", ci informa lui stesso. Ebbene.
Nel ricercare le ragioni di questo "qualcosa" immagino il rigore
illuminista di Sciascia farsi ludico, remissivo. compiacente fino a scommettere
con il giovane Kant, allora squattrinato studente dell'Università di
Konisberg, per pochi talleri, ad uno dei tavoli da biliardo del caffè Palmenbau
o dell'hotel Zornich, la "tenuta" della Critica della Ragione pura. Senza
questa "scommessa" Sciascia non avrebbe potuto scrivere il suo
romanzo. |