La morte e la fanciulla: articolazioni di un tema
romantico nella poesia di Giacomo Leopardi
di Gisella Padovani (Università di Catania)
Ad apertura del secondo canto del ciclo poetico dedicato ad Aspasia e composto a Firenze tra il 1833 e il 1835, Leopardi proponeva una inusuale rappresentazione iconografica della Morte, metamorfizzata in un’immagine di giovinezza radiosa incarnata nella figura di una “Bellissima fanciulla,/ dolce a veder, non quale/ la si dipinge la codarda gente” (Amore e Morte, vv. 10/12). Richiamandosi probabilmente all’ancestrale favola pagana di Persefone, venerata dagli antichi come regina degli inferi appunto nella forma di Kore, la dea fanciulla, Leopardi spogliava quel mitologema delle sue valenze lugubri e orrorifiche per esaltarne l’aspetto diurno e afroditico, e adottare un modulo inventivo atto a celebrare l’idea di una bellezza che già nell’istante in cui si manifesta con fulgida pienezza, l’adolescenza appunto, contiene in germe il concetto della non esistenza, della morte. La raffigurazione, di squisita levità neoclassica , della Morte giovinetta che insieme al fanciullo Amore sorvola le strade della vita senza mescolarsi alla miseria del mondo e annulla “ogni gran dolore,/ ogni gran male” (ivi, vv. 8/9), si contrappone concettualmente alla convenzione iconografica, diffusa in ambito romantico, che relegava l’immagine mostruosa della Morte nello spazio di una visionarietà cupamente macabra. Leopardi è ideologicamente lontanissimo dall’orientamento culturale che appena nove anni prima, nel 1824, aveva ispirato a Franz Schubert il celebre quartetto in re minore noto col sottotitolo La morte e la fanciulla. La magistrale complessità della scrittura quartettistica, che utilizzava materiali melodici desunti dall’omonimo Lied creato nel ’17, si faceva veicolo di un pathos tragico e sconvolto, sollevava il sipario su una voragine di angoscia. Orchestrando una ricchissima gamma di variazioni ritmiche, il grande compositore austriaco, “genio sempre bifronte, toccato dal soffio della morte”, come avrebbe scritto T. Mann (Doctor Faustus), traduceva con febbrile concitazione in un linguaggio musicale emblematicamente romantico l’esplosione di terrore della fanciulla che, nel testo redatto da Mathias Claudius per il lied del ’17, cercava invano di sottrarsi alle perfide insidie tesele dalla Morte: (“La fanciulla: Via, ah, sparisci!/ Vattene, barbaro scheletro!/ Io sono ancora giovane, va’, caro!/ E non mi toccare/. La morte: Dammi la tua mano, bella creatura delicata! Sono un’amica, non vengo per punirti./ Su, coraggio! Non sono cattiva,/ dolcemente dormirai fra le mie braccia!”) L’estetica del terrore celebrava così i suoi fasti sul pentagramma dell’immaginario romantico che, nel rappresentare la morte, si riappropriava di convenzioni iconografiche di ascendenza tardo-medievale. La tendenza ad attribuire alla Morte le sembianze di uno scheletro con la falce, molto diffusa nell’Europa del XIII e del XIV secolo, fu codificata dalle sequenze, recitate, dipinte e incise, della “danza macabra”, percorse, come ha scritto Johan Huizinga, “da un brivido che sorgeva dalla zona dell’agghiacciante terrore degli spettri”. La tanatologia leopardiana espunge le suggestioni che tante espressioni dell’arte romantica derivavano dall’universo visivo e immaginativo del Medioevo. Leopardi si attesta su un differente registro tanto nel canto fiorentino Amore e Morte, cui abbiamo accennato, quanto nei precedenti canti pisani e recanatesi del ’28 e del ’29. Anni in cui l’acuirsi del senso di estraneità nei confronti degli indirizzi culturali dominanti predispone il poeta a verificare in proprio gli esiti della sua esperienza speculativa. In questa fase, il grande tema della morte si libera delle tracce del vissuto e assurge a elemento ordinatore della visione del mondo. In base a tale visione, radicalmente e definitivamente pessimistica, il tempo della giovinezza, fonte delle illusioni che alimentano la poesia, appare irrevocabile, svanito per sempre al pari del breve incanto della vita di Silvia e di Nerina. Con i canti pisano-recanatesi, la creazione poetica, dopo un lungo periodo di silenzio torna possibile come recupero memoriale. Leopardi arriva il 7 novembre del 1827 a Pisa, ne resta ammirato e ne parla alla sorella Paolina con solare disposizione d’animo, una condizione dello spirito per lui insolita. La piccola città toscana lo seduce, sembra offrirgli quello che nessun altro dei luoghi in cui si era precedentemente rifugiato gli aveva concesso. Lo cattura la gioia di vivere, mangia con appetito, dimentica tutti i malesseri. La città è un misto “di cittadino e di villareccio”, un misto “così romantico, che non ho mai veduto altrettanto”. “Vi assicuro”, scrive ancora a Paolina; “che in materia d’immaginazione mi pare d’essere tornato al mio buon tempo antico”. Di getto, il 15 febbraio del 1828 compone i diciotto versi dello Scherzo e fra il 17 e il 20 aprile scrive Il risorgimento, nel quale è come se salutasse il ritorno degli affetti e della vena poetica, e A Silvia. Silvia, morta fanciulla, traduce in fantasma lirico il tramonto delle speranze e degli ameni inganni, ora restituiti alla vita della memoria e alla consolazione della mente, a quella “rimembranza” in cui consistono, come lo stesso Leopardi precisò, “quasi tutti i piaceri dell’immaginazione e del sentimento”: ( Silvia, rimembri ancora/ Quel tempo della tua vita mortale,/ Quando beltà splendea/, Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,/ E tu, lieta e pensosa, il limitare/ Di gioventù salivi?/ Sonavan le quiete/ Stanze, e le vie dintorno,/ Al tuo perpetuo canto,/ Allor che all’opre femminili intenta/ Sedevi, assai contenta/ Di quel vago avvenir che in mente avevi./ Era il maggio odoroso: E tu solevi/ Così menare il giorno (…) Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,/ Da chiuso morbo combattuta e vinta,/ Perivi, o tenerella. E non vedevi/ Il fior degli anni tuoi;/ Non ti molcea il core/ La dolce lode or delle negre chiome,/ Or degli sguardi innamorati e schivi; Né teco le compagne ai dì festivi/ Ragionavan d’amore. A Silvia, vv. 1/14 e 40/49). I riferimenti biografici di A Silvia, composto a Pisa nell’aprile del 1828, sono già presenti in quei Ricordi d’infanzia e di adolescenza stesi dieci anni prima come appunti per un progettato romanzo autobiografico. Lì si possono reperire i dati della storia di Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta di tisi a 21 anni nel settembre del 1818, e le loro ripercussioni sull’animo dell’autore ventenne. Ma prima di confluire in A Silvia, il tema della morte della fanciulla aveva ricevuto una consacrazione poetica nell’idillio Il sogno (1825), prova ancora acerba appesantita da un’enfasi melodrammatica e da un patetismo sentimentale che però non annullano i genuini spunti poetici ispirati al motivo della morte nel fiore degli anni: (…Dunque sei morta,/ O mia diletta, ed io son vivo, ed era/ Pur fisso in ciel che quei sudori estremi/ Cotesta cara e tenerella salma/ Provar dovesse, a me restar intera/ Questa misera spoglia? Oh quante volte/ In ripensarche più non vivi, e mai/ Non avverrà ch’io ti ritrovi al mondo,/ Creder nol posso. Ahi ahi , che cosa è questa/ Che morte s’addimanda? Oggi per prova/ Intenderlo potessi, e il capo inerme/ Agli atroci del fato odii sottrarre./ Giovane son, ma si consuma e perde/ La giovinezza mia come vecchiezza;/ La qual pavento, e pur m’è lungi assai. Il Sogno - vv. 39/55). Chi era la giovinetta del Sogno? Probabilmente quella stessa Teresa Fattorini con la quale nell’aprile del 1828 Leopardi avrebbe ripreso il suo colloquio poetico. Il recupero letterario della storia di Teresa va visto in un contesto di riacquisizione da parte dell’autore dell’intera propria storia recanatese, lievitata dalla dimensione del ricordo. Nella struttura del canto si riflette la rappresentazione parallela di due destini, regolata da un implicito principio di analogia pur nella diversità delle due storie, dove l’evento critico è costituito, rispettivamente, dalla morte di Silvia e dalla fine delle speranze del poeta. Al di qua di quell’evento, il tempo fiducioso e sognante della prima giovinezza, riempito per la fanciulla dall’”opre femminili” e dal “perpetuo canto”, per il poeta dagli “studi leggiadri” e dalle “sudate carte”. Due differenti condizioni che convergono nella proiezione incantata di un futuro colmo di promesse. A circa un anno di distanza dalla composizione dei versi dedicati A Silvia, memoria e poesia tornano a incrociarsi nelle Ricordanze, canto recanatese caratterizzato, come ha notato Walter Binni, da un “andamento a onde di ricordo”. Un canto di verginella (“voce festiva/de la speranza”) udito a Pisa e fissato, probabilmente nel 1822, in un frammento autografo custodito tra le carte leopardiane della Biblioteca Nazionale di Napoli, il cosiddetto Canto della fanciulla, si fonde attraverso i circuiti memoriali con il canto della recanatese Teresa Fattorini, Silvia cioè, e con la voce soave di Nerina delle Ricordanze, che torna ad incarnare il tema della fanciulla morta precocemente: (Ma rapida passasti; e come un sogno/ Fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte/ La gioia ti splendea, splendea negli occhi/ Quel confidente immaginar, quel lume/ Di gioventù, quando spegneali il fato,/ E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna/ L’antico amor. Se a feste anco talvolta,/ Se a radunanze io movo, infra me stesso/ Dico: o Nerina, a radunanze, a feste/ Tu non ti acconci più, tu più non movi./ Se torna maggio, e ramoscelli e suoni/ Van gli amanti recando alle fanciulle,/Dico: Nerina mia, per te non orna/ Primavera giammai, non torna amore./ Ogni giorno sereno, ogni fiorita/ Pioggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,/ Dico: Nerina or più non gode; i campi,/ L’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno/ Sospiro mio: passasti: e fia compagna/ D’ogni mio vago immaginar, di tutti/ I miei teneri sensi, i tristi e cari/ Moti del cor, la rimembranza acerba. Le ricordanze, vv. 152/173). Come nella canzone A Silvia, anche nelle Ricordanze il destino del soggetto poetante e quello della sua ideale interlocutrice sono sincronizzati, e questo ha un’importanza fondamentale nella struttura e nel tono del discorso lirico. Quando la morte della fanciulla rompe l’equilibrio di questo rapporto simmetrico, l’isolamento del poeta è quello di un sopravvissuto che continua a manifestare un doloroso stupore, non quello di un saggio amaramente consapevole delle leggi che governano l’esistenza umana. Bisogna giungere alla metà degli anni Trenta perché Leopardi, approdato al suo ultimo rifugio, Napoli, si atteggi finalmente a una coraggiosa sfida morale e intellettuale, impegnandosi a esplorare quelle nuove possibilità espressive che il declino dell’idillio, l’eclissi dell’io autobiografico e del soggetto rimemorante, il rifiuto dei miti, hanno reso disponibili. La canzone Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, composta intorno al 1835, ripropone il tema dell’incontro fra la fanciulla e la morte. Qui la leggiadria dell’immagine, in un estremo sussulto neoclassico, è consegnata alla scultura. E la giovinetta anonima effigiata sul marmo non si offre a movimenti evocativi che le consentano un ultimo slancio espansivo verso il mondo. La sua bellezza, di cui solo il bassorilievo custodisce una labile traccia, non è suscettibile come quella di Silvia e di Nerina dello speciale diletto della memoria, né può fissarsi in un sopramondo di perfezione ideale che, sottraendola al distruttivo fluire del tempo, le assicuri una durata perenne: (Dove vai? chi ti chiama/ Lunge dai cari tuoi,/ Bellissima donzella?/ Sola, peregrinando, il patrio tetto/ Sì per tempo abbandoni? a queste soglie/ Tornerai tu? farai tu lieti un giorno/ Questi ch’oggi ti son piangendo intorno?/ Asciutto il ciglio ed animosa in atto,/ Ma pur mesta sei tu. Grata la via/ O dispiacevol sia, tristo il ricetto/ A cui movi o giocondo,/ Da quel tuo grave aspetto/ Mal s’indovina. Ahi ahi, né già potria/ Fermare io stesso in me, né forse al mondo / S’intese ancor, se in disfavore al cielo/ Se cara esser nomata,/ Se misera tu debbi o fortunata. Sopra un basso rilievo antico sepolcrale… vv. 1/15). Disertati i luoghi mitici della memoria storica e personale, ripudiate definitivamente le “magnanime illusioni” e superate le tentazioni autobiografiche, il poeta imprime ora alla denuncia antinaturalistica, scandita dai ritmi di un serrato argomentare e da una successione di incalzanti interrogazioni, il carattere di meditazone definitiva sulla beffarda, crudele “alterità” della natura e sull’atrocità del destino umano: (“Madre temuta e pianta/.dal nascer già dell’animal famiglia,/ natura illaudabil maraviglia,/ che per uccider partorisce e nutri” (ivi, vv. 44/47). Il grande tema della morte, e i motivi della caducità della bellezza terrena e della tragica illusorietà dell’effigie funeraria, si distendono in un sorvegliato consuntivo che pur approdando ad esiti severamente raziocinanti prelude all’empito solidale della Ginestra. Se la morte inerisce all’essere, il destino umano è segnato da un’aporia che lo contamina alle radici. Nessuna salvezza può visitarlo, né può venirgli in soccorso la ragione, che proprio nell’incapacità di spiegare questo paradosso ontologico avverte il suo limite più grave. È altissima la tensione concettuale di questo momento conclusivo, in cui Leopardi porta la sua intuizione tragica ad esiti di estrema risolutezza. Per l’intelletto, che si è avventurato sino alle soglie del regno di Arimane, si profila uno scacco senza risarcimento. Eppure, da questa voragine nichilistica si leverà con miracolosa forza poetica il canto della “saggia” ginestra, per restituire l’originaria valenza eroica alla lotta degli uomini contro l’”empia natura” e per ricondurre la parola poetica, ormai lucidamente persuasa dall’”acerbo vero”, all’ethos dell’antichità classica, riproposta per un’ultima volta nella sua esemplarità universale.
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