OMAGGIO A EUGENIO MONTALE
di
Gisella Padovani
(“Il
Faro”, n° 3/4, luglio/dicembre 1996)
Quarant'anni fa appariva il terzo libro
di versi di Eugenio Montale, La bufera e altro, in cui confluivano poesie composte durante la
seconda guerra mondiale e nel difficile decennio che l'aveva seguita. Come già nell'opera d'esordio, Ossi di seppia (1925), e nelle Occasioni (1933), anche nella silloge del 1956 il "male di vivere" si manifestava attraverso le immagini di scabri ed essenziali oggetti emblematici tesi a illuminare la coscienza della negatività, a esprimere la crisi di valori del mondo contemporaneo. Risuonando disperata, incerta sugli esiti del destino collettivo, la voce del poeta si incontrava con la storia intrisa di segni di catastrofe anche nel dopoguerra, e si impegnava in un discorso lirico di costruttivo pessimismo, umanamente partecipe di una realtà che recava ancora le stimmate di una tragedia bellica. La prima parte della raccolta segue la
linea delle Occasioni. Ma la figura femminile, fantasma salvifico, simbolo
catartico, ricorre in una sempre più complessa fenomenologia e si inserisce in
una vicenda di angoscia generale e di una tregenda. Così, per esempio, nella Primavera
hitleriana, la “Beatrice” si districa a fatica dallo spettacolo di
sangue e di carneficina in cui "nessuno è incolpevole"; e come la
"piagata primavera" porta le tracce di un comune furore di morte, così
il riscatto non procede da lei sola, ma da emblemi investiti di un valore
universale: “Forse le sirene, i rintocchi / che salutano i mostri della sera /
della loro tregenda, si confondono già / col suono slegato dal cielo, scende,
vince / col respiro di un'alba che domani per tutti / si riaffacci, bianca ma
senz'ali / di raccapriccio, ai greti arsi del sud". La scena della Bufera resta quella
dolorosa della guerra, a differenza di Ungaretti e di altri poeti dell'epoca
inclini alla preghiera cristiana o al dettato politico, l'autore può concedersi
appena il brivido di una sottile "pietas" storica, proteso al suo
programma privato di autoconsolazione che pone un diaframma fra ciò che è
accaduto e ciò che se ne può dire. L'accentuazione del momento
significativo della lingua poetica in Montale non muove direttamente verso il
mondo della natura o della storia, sia quella esterna e collettiva, sia quella
interiore e soggettiva. Il segno montaliano non è naturalistico né descrittivo
né commemorante: glielo impedisce quell' "assenza di certezza reale” che
il poeta ha costantemente ribadito. È una visione della vita che non ha
precedenti nella lirica italiana. Mai nessuno aveva attinto con tale precisa
aderenza etica il senso di una storia umana senza esiti e senza rifugi. Nomi e
figure si affacciano al testo con improvvise epifanie angeliche e demoniache,
agiscono come citazioni condotte secondo una tematica dello "straniamento"
che le svincola dalla zona dei restauri tradizionali e le oppone al linguaggio
poetico consueto; nomi e figure che non si sublimano mai in evocazioni pure ma
intervengono come energiche provocazioni, agiscono come messaggi, anticipazioni
e giudizi. La successione degli eventi subisce
allora uno sconvolgimento profondo; la memoria, che appare ancora talvolta come
recupero del passato, interviene soprattutto come interpretazione degli eventi,
si proietta nel futuro come profezia, in una sorta di escatologia in cui i due
segni del tempo, durata e persistenza, cenere ed estinzione, si incontrano e
confondono: "ma una |