Angela Barbagallo
Tra sogni e bisogni
(Meditazioni e versi)
PREFAZIONE DI GISELLA PADOVANI
CIRCOLO SOCIO CULTURALE
"IL FARO" – RIPOSTO
© 1997 – Proprietà letteraria riservata all’Autrice
PREFAZIONE
Il titolo di questa silloge emblematizza i percorsi semici di tutta la produzione lirica di Angela Barbagallo: una poesia che lievita in uno spazio di attivi e proficui scambi tra evocazioni oniriche e presenze concrete fisicamente ancorate a precise realtà spaziali.
Nell’Introduzione al volume, la stessa autrice - che ha già al suo attivo due apprezzate raccolte di versi, Non datemi mimose e Parole di memoria - illustra i processi genetici che presiedono al proprio atto creativo: "sono nate così, accostando l’orecchio alla ‘conchiglia della vita’, ritmando gioie e dolori, dubbi e angosce, sogni e bisogni, le mie liriche, figlie del presente pirandellianamente oscillante in maschere fluttuanti che si stendono sull’asse dove l’unità si frange, perdendosi, nell’uno, nessuno e centomila".
Proprio dalla vanificazione dei confini tra sogno ed esperienza vigile, dunque, scaturisce l’infinita varietà dei punti di vista da cui interpretare la realtà. Una realtà che per la poetessa è fonte inesauribile di sempre nuovi trasalimenti dei sensi e degli affetti; una realtà svelata da improvvisi lampi della memoria ("piangeremo pian piano,/ sfiorandoci le mani/ un tesoro/ fugato alla memoria"), da medianiche reminiscenze che affondano i primi impulsi nella dimensione edenica dell’infanzia lontana ("Era un gioco segreto/ di un patto muto/ nato da sortilegio/ d’anni bambini"), o da inattese accensioni di un giocondo e sano amor vitae che si esprime nella festa dei colori da cui è accompagnata la decantazione dello spettacolo naturale: distese marine di un azzurro intenso ("Fulgente/ come una cupola/ a coppa dell’azzurro/ d’immenso mare,/ nel guizzo ad arco/ il delfino chiude/ a placenta l’onda"), tramonti infuocati ("È l’ora vespertina/ a luce mela-arancia"), chiarori lunari ("la signora del sogno/ svaporava i colori/ predando la cornice/ e avanzava, pian piano/ verso la panca lustra/ dei raggi della luna"), policromie floreali ("tu sorridi/ dalla cornice a smalto/ tra i gladioli bianchi/ e le mimose"9, e bischi, viali, prati, pendii ca sanciscono il trionfo del verde con l’illimitata gamma delle sue nuances.
Lieve, aerea, apparentemente innescata da una sorgiva disposizione al canto (ma in realtà tramata di una complessa rete di rimandi alla più nobile tradizione della lirica italiana), la scrittura poetica di quest’artista che non pretende di possedere formule, ma un semplice dono che le ha consentito di amare la vita, pur nella sofferenza, come luogo di inesauribili incanti. I suoi versi fissano sulla pagina la sostanza meravigliosa di quei fenomeni minimi che distolgono dalla quotidianità: momenti dell’esistenza sorpresi e celebrati nell’attimo in cui stanno per rivelare il loro segreto profondo.
Doetro questa vena cristallina sono individuabili una coscienza stilistica e una sapienza culturale magistralmente velate da una forza espressiva di intensità tale da permettere alla Barbagallo di affrancarsi dal rischio di una posizione di dipendenza epigonica dai modelli di riferimento privilegiati: come Montale e Caproni, ai quali si fa, nel contempo, esplicito riferimento.
La prima persona, l’io a cui è assegnata la funzione enunciativa, è il prisma attorno a cui il mondo si scompone in oggetti simbolici: "Io ti parlerò d’amore lungo il cammino fra i viali", "io sublimo l’ora/ all’invito del cuore", "io svanisco/ il senso della marcia", "io non vedo/ navigare ad ali/ l’angelo bianco". Un mondo che, sottratto alla Storia, si offre senza filtri allo sguardo della poetessa, unica interprete e intelligenza superstiti pertinacemente ancorata alla propria individualità che resiste al fluire delle cose. Ella ha la capacità di leggere, di decifrare attraverso segni incerti i resti di un’armonia perduta, di presagire fantasmi di salvezza: "È lunga la discesa/ nel tunnel della pena/ là dove nuota/ a forti braccia tese/ il tempo della Storia/ (...) Ma tu, colomba,/ mentre giaci ignara/ sogni calici a fiele/ per sbocciare alla vita/ come vergine sposa/ che s’appressa al connubio".
Percorsi dalla consapevolezza, dell’estrema fragilità del destino umano, i versi di Angela Barbagallo nascono dall’urgenza di motivi autobiografici assunti nella loro dolorosa concretezza, e da una pensosa ricognizione nelle quotidiane vicende della vita attraverso le quali si instaura il dialogo con l’Assoluto, che scandisce un "tempo" dilatato in stagioni interiori alimentate dal fermento di emozioni e sentimenti vivi e intensi anche nell’età matura: "Sai,/ scorrono i giorni/ e il tempo ammonta/ gli anni/ cernendo l’ore/ all’occhio del tramonto./ (...)/ Vorrei perlare/ a dolce latte rosa/ questo mio corpo/ (...)/ e intanto tremo/ per la fanciulla ardente/ che vive agli occhi tuoi".
Tema privilegiato è l’amore per una figura maschile mai precisamente individuata, anzi dispersa e riverberata in un mondo infinito di cose e di immagini, che diventano così termini vaghi di un desiderio diffuso.
Poesia del "desiderio di amare", dunque; variazione, su tutti i tasti possibili, del motivo della solitudine popolata da quei soavi fantasmi adolescenziali che affiorano dai meandri della memoria già ad incipit della raccolta, nella bellissima lirica Notte di maggio a Firenze: "Mi cingesti la fronte/ d’erba verde/ e mi facesti pura./ Con le fanciulle in fiore/ entrai nel girotondo/ dell’amore".
L’esperienza delle emozioni e delle estatiche rêveries di cui si è nutrita la giovinezza trascorsa, diviene il luogo deputato in cui proiettare le proprie inquietudini. Dopo lo slancio del periodo precedente, la poetessa si ripiega su se stessa per tracciare un bilancio dei sogni e dei progetti non realizzati, e per capire la nuova stagione della vita: "Se ci facciamo caso, il corso della vita nelle due età, come si usa dire oggi, è regolato per ognuno di noi da un orologio convenzionale, rigido ed automatico, che ci fa, ad ogni ora e ad ogni giorno, dei devoti osservanti retribuiti di fissi modi del tempo in cui si consuma, quasi, l’arco intero della nostra esistenza. (...) E come gli uomini dei tempi andati, quando l’utile del ruolo del singolo non viene più richiesto, anche noi, ognuno con le proprie peculiarità personali, ci chiediamo: qual è ora il nostro tempo?".
Lo scorrere dei giorni, nonché produrre angoscia, diviene strumento di consapevolezza e stimolo per superare il disagio causato dal mutamento di età, dalla necessità di un nuovo adattamento che esorcizzi le nostalgie del passato e permetta di cogliere il senso della senilità. Sul filo della maturazione interiore, ogni atto compiuto nel tempo assume valore e significato, e il "muto colloquio dell’essere con se stesso" consente finalmente "la ricomposizione dell’io nella sua dimensione umana e metafisica" (la citazione è tratta da una delle suggestive meditazioni in prosa che nel volume della Barbagallo si alternano ai componimenti in versi).
Altrove, la poesia dell’artista siciliana si traduce in armonie ritmiche la testimonianza di una donna che ha vissuto lucidamente la barbarie del nostro tempo e che ha perlustrato lo "spazio degli uomini" privo di "intercapedini/ ove inserire l’anima", senza tuttavia mai perdere la fiducia in una invariante di salvezza.
La lettura di queste liriche, dunque, al di là di ogni valutazione di carattere culturale e stilistico, non lascia indifferente chi la affronta: esse scuotono la nostra coscienza perché parlano dell’incessante dramma dell’uomo perpetuamente teso alla ricerca del proprio volto e del proprio destino.
Recentemente inserita da Vittoriano Esposito in una rassegna, edita da Bastogli, delle più significative voci femminili della lirica italiana contemporanea, Angela Barbagallo contrappone all’orfismo di tanti poeti dei nostri giorni, alle loro pretese metafisiche, ai loro astratti e algidi esercizi intellettualistici, l’immediata comunicatività del suo canto cordialmente disteso, la forma innovativa dei suoi lievi disegni e ritmi appena distinti in una continuità di colore e di musica che tutto riassorbe.
Gisella Padovani
Università di Catania
Mi accorgo di quanto sia difficile sprigionarsi dal mondo delle parole per approdare a quello delle cose poiché , per la persona di cultura, che opera per mezzo della cultura, le "cose" sono fuori del suo esperire, che è quello della coscienza quando i frammenti del reale si situano in forme ed assumono volti e significazioni. Ecco, sono queste le "maschere" che compongono, per esempio, il mio universo e sono il mio passato e quello che del mondo degli altri, attraverso la cultura, ho fatto mio in un rapporto dialettico di identificazione critica, o di assimilazione simpatetica. Come avviene, e perché avviene, la manipolazione del vissuto corale nel singolo individuo e, soprattutto, come si organizza il processo di ricreazione di ciò che è stato degli altri e diventa nostro, nuovo ed irrepetibile, come ciò che ci impatta sensoriamente e con prepotenza penetra il nostro intelletto e si schematizza e definisce concettualmente e psichicamente? Ad onta degli studi dei processi cognitivi e delle riflessioni filosofiche su di essi, la mia mente "femminile forse perché femminile, nonostante la maschile cultura che l’ha forgiata ed ordinata, si è spesso posti questi quesiti ed ha "giocato" spesso alla loro soluzione ponendo su una immaginaria scacchiera le periferiche risorse che le creano situazioni a rischio poiché esse si appartengono relativamente al logico e, a volte, quasi niente al razionabile.
E via, via, il gioco mi ha preso la mano e si è strutturato, con modalità estetiche, in un viaggio a tappe che ho chiamato: "le mie vie".
Mi è venuta la curiosità di calarmi con la carrucola montaliana nell’inquietante pozzo d’acqua chiara che lusinga arsure di vita per scivolare, poi, tra le dita asciugate dall’illusione vana. Lì, in fondo giaceva l’oscuro magma del mio io su cui ho steso, per paura, il velo del sogno, e il secchio, violandolo, ha portato alla luce tremolanti postille di fuochi fatui evocanti sorde morti che accorano a tristezza.
Ho cercato, allora, di afferrare ciò che non filtra a vuoto come l’acqua e assoda fra le mani, ma uno schermo si è adagiato sui colori ingrigendo la luce.
Sfibrata mi sono arresa a braccia oscure e mi sono avvolta nell’argento della notte silente. Figlia della luna, ho vagato in mezzo alle ombre, serena, ed ho rimandato, a gioco e fantasie, i miei sogni e gli incanti all’astro chiaro. Ma, poi, sgomenta ho rimembrato quella fola nera che incupisce la bella donna antica dei poeti glaciandola nel volto di regina di quel mondo in cui il cuore si smarrisce ed Ecate m’è apparsa mentre accoglie, a rimbalzo fatale, le lunghe file di emigranti stanchi che la terra rifiuta, quando risuona l’ora.
Trascinando catene, allora, mi fingo frontiere a libertà e pascoli di sogni e, caparbia come un titano fiero, pongo domande vane a quel signore mio che, a schermo a schermo, risponde, con voce di sibilla: "Io sono il tempo, conchiglia della vita, ad ore e giorni, di cui non serbo memoria".
Sono nate così, accostando l’orecchio alla "conchiglia della vita", ritmando gioie e dolori, dubbi ed angosce, sogni e bisogni, le mie liriche, figlie del presente pirandellianamente oscillante in maschere fluttuanti che si stendono sull’asse dove l’unità si frange, perdendosi, nell’"uno, nessuno e centomila".
Vivano, dunque, le "mie" maschere e non mi chiedano mai conto del "tipo" di parola in cui le vengo a concretare ed accettino il loro essere e perire nella voluta esistenziale che sarà il "tempo" lungo il quale esse interesseranno, svegliandola, la curiosità di coloro che le incontreranno.
NOTTE DI MAGGIO A FIRENZE Ad Angela P.
Firenze tremolava a specchio d'Arno ed alitava veli alle cascine per coprire, pudica, dolci ardori mentre la serenata d'un amante invocava madonna al chiar di luna. Quante fanciulle in fiore nel girotondo della notte di quel Maggio stregato! Era ridente di siderea luce la radura del bosco e dava molli arsure il profumo dolciastro di pratoline e bocche di leone. Quante fanciulle in fiore a rito sacrificale in quel Maggio stregato! Mi cingesti la fronte d'erba verde e mi facesti pura. Con le fanciulle in fiore entrai nel girotondo dell'amore.
TI RACCONTO LE MIE SERE Un amico mi chiedeva: "come vivi?" A Sara B. Ci sono sere, amico, piene di strani umori calamitati a nebbia trasparente ed io, sonnambulata, scendo i gradini verberati all’astro della casa arretrata per non sapere i giorni ad uno ad uno e fingere l’attesa di un ritorno. Nell’aria intatta solo una folata e lo schermo di pampini rosati addensa suoni mutandoli in sapori. Ci sono sere, amico, piene di perle nere grappolanti sui rami di quel pino a smerigli sognante voli di bianche Primavere. Ci sono sere, amico, piene di arcane attese quando, sfatato il tempo dei ricordi, mi adorno a festa e corro incontro all’ombra strisciante a raso-terra. Passa così ogni giorno a candela di sera e m’addormento a piombo di zavorra. |
IO TI PARLERÒ D’AMORE
Lungo quei viali dove il tempo dorme accucciato fra i nidi vuoti di primavere antiche, io ti parlerò d’amore. Me ne sono andato un giorno, mentre il tramonto, ardente di fuoco estivo, bruciava le mie parole vuote e tu, per non sentirmi, per sottrarti all’afa della mia banalità da manuale, ti trastullavi tirando dei sassolini in una pozzanghera, piano, per schivare le chiocciole che ai bordi bevevano le gocce impastate di melma. Sono cadute per anni le foglie ai piedi degli alberi, vacue e accartocciate come anime senza storie che non suscitano nemmeno pietà e ad ogni autunno io contavo, a gara, le parole che la vita m’insegnava e cancellavo dal mio quaderno quelle che mi ero fatto prestare dai libri belli della gioventù.
Io ti parlerò d’amore, lungo quei viali dove il mio sogno dorme sotto una coltre di pigne essiccate, accatastate dal vento che spazza le immagini degli umani. Tornerò in una sera d’estate e voglio il chiaro della luna che inargenta le chiome delle siepi e scopre, a mezza ombra, il rosso delle lucciole fra il verde. Porterò con me la sabbia del mare e una conca d’acqua pura di fonte, lieve come il sospiro di un cuore che batte lento dopo un lungo cammino. Io ti parlerò d’amore e ti darò pietruzze colorate per distrarti e giocare. Come un vento d’aprile che scherza con le rose, mentre l’ape s’inquieta e ronza intorno, nell’aria volerà la mia canzone e sarà nembo d’oro ai tuoi capelli e tu, struggendo gli occhi all’armonia, sospenderai la mano, rapita dall’incanto.
Io ti parlerò d’amore lungo il cammino fra i viali dove tu senti ancora le parole rozze che ti offesero un tempo e troverò dei suoni più dolci delle acque che Matelda donò a un poeta per smemorare il male. Sarà un incanto puro, un’estasi sublime come quella che lievita una sposa in trascendenza arcana e tu sorriderai al primo amore sbocciato da crisalide alla vita.
Io... ti parlerò d’amore come volevi tu e poi, pian piano, senza far rumore, regredirò quel viale senza vita e tornerò nella mia casa antica, a piangere sugli anni miei perduti a imbellettare un morto: il nostro amore.
Vedi, cara, io ho imparato a parlare come volevi tu. Ho sgrossato il mio linguaggio, ho snaturato, leggendo d’amore, l’impeto ardente che mi spingeva a te, che muoveva le mie mani incontro al tuo viso e le mie labbra sui tuoi capelli. Tu eri diafana e ti muovevi come in un sogno fatto di lunghi sospiri ed io sentivo che non potevo giungere a te, che ero come tirato giù da una zavorra che squilibrava il tratto di distanza del tuo corpo dal mio. Tu sorridevi ad un fiore e non avevi che educati moti di fastidio al suono della mia voce. Quante notti di pianto silenzioso e quanti giorni di svagate presenze nel mio mondo, pesante come me! Ora che siamo pari, ora che gli anni hanno svanito i fremiti e gli ardori, ora che ti avvicino sulla scena e riprendo, lungo quei viali, il mio colloquio antico, do requiem al mio sogno perché intendo che, come giocatori truffaldini, abbiamo giocato un’inutile partita: "Palline a ping-pong".
PALLINE A PING-PONG Fra noi due che ci spiamo ai lati per le mosse, un tappeto attutente di panno verde e palline di vetro a ping-pong. Non è un gioco tra amici a dopo sera e le buche son pozzi a fondi neri dove i colpi frantumano scheggiando il cuore. Non c'è mai stata pace in questo amore viziato d'intelletto per la paura di stringere emozioni perdendo la partita del primato. Solo soste... rimandi e tregue strane prima di rintuzzare quella stecca per non dire "mi manchi".
COME UN DIPINTO Su quella grande tela, là, lungo l'arco di rose a primavera come un ragno, a filigrana, imprigiono il tuo volto. Pastelli caldi, bagnati di rugiada a specchio di fontana flettono dei colori d'aurore innamorate ed iosublimo l'ora all'invito del cuore mentre l'anima ride e monta a chiara d'alba. Tu dormi, serenata, nell'aprile dorato ed io muovo tentacoli a catturare il tempo perché l'incanto duri. Siamo, come sospesi, nel dipinti di Pan che ci ha rapiti.
NON TROVEREMO PIÚ Non troveremo più tornando al vecchio nido primavera di rondini stordenti al tramontare di giorni strani soavi come l'acque cullate dalle brezze. Torneremo a vestire, come vuoi tu, le foglie dei giardini e occhieggeremo, ancora, col cuore palpitante i baci ardenti degli innamorati ma l'ora sfumerà negandoci visioni d'altre età. Non troveremo più, mio dolce amore, l'incanto scoppiettante delle risate aspre a coprire furtive, quegli occhi schivi a trepide carezze: pingeremo, pian piano, sfiorandoci le mani un tesoro fugato alla memoria.
TALVOLTA Talvolta un istante è come un atomo pulsante d'energia venuta da cieli ignoti e sento nelle vene sinergie di magneti apparentati a codici la cui cifra fibrilla solo all'aorta in piena di diastole. Talvolta un istante si smaglia sonnolente dalla fascia a spirale e gioca alla prolunga incurante al pulsare di geometrie scandite. E talvolta si ferma ad un comando di astrali volontà: forse perché mi guardi ed io smarrisco il senso della marcia.
NINETTA STRACCIA IL VELO Come una marea nella sua piena di luna incattivita la voce corse a slargo e si gonfiò vorticando, maligna, parole di sventura "Ninetta, straccia il velo! L'amante tuo bugiardo cavalcando la fiaba ha baciato nel bosco la dolce Biancaneve". Le lucertole al sole guizzarono veloci a pace d'ombra e nella stanza ornata per la sposa novella lo specchio smerigliato slabbrò contorni osceni in feritoie di luce opaca. Ninetta abbrividì come una capinera al primo gelo mentre l'eterna mela risucchiava, feroce, a gorgo immane il fiore bianco di quel primo amore.
ORA... NON PIÚ Ora non più ma un tempo per quella strada antica fiorita di lillà ci ripassavo, a sera. E alla solita ora per la finestra aperta col suo vestito nero e un fiore di lillà la signora del sogno svaporava i colori predando la cornice e avanzava, pian piano verso la panca lustra dei raggi della luna. Era un gioco segreto di un patto muto nato da sortilegio d'anni bambini quando, nel gran silenzio della villa deserta, ladro d'amore vano, lievitavo a desio un volto puro fissato sulla tela. Forse, stregata da plenilunio arcano scrostò la tela e la signora mia del sogno infante si mosse piano, piano alla finestra col suo vestito nero e un fiore di lillà. Ora... non più è il tempo della vita.
ANALFABETA, SOLO PER AMORE Come non torna il suono alla montagna se la marina stagna l'onda a riva! Ad un fruscio di carta il mio battello fermo nell'ora di remota secca sentì leggero come una carezza il sussulto scordato di brezze demodé, ma boccheggiò svirato. Come non torna il sogno nella notte se l'eco alla parola sbarra l'alzata per afasia remota! Ad un fruscio di carta l'occhio sfocò le righe e giacque in siero acquoso analfabeta, solo per amore.
C'ERA UN GERANIO C'era un geranio a quel balcone muto nelle sere d'estate del mio '43. La rabbia stolta annottava speranze e desertava strade a coprifuoco ma la magia d'un volto profilato al balcone in ombra semichiara lo portava, come un romeo segreto, al rito della pioggia sui petali vermigli. A sera quando il tepore acre mescolava sudori nelle cantine buie intorno alla radiola gracchiante voci di straniera pace i suoi vent'anni avvampavano sogni danzanti alla tettoia di quel balcone muto. E il venti Agosto di una notte a stelle non colse il polverio di quel geranio per l'orrore di morte scurante gli occhi belli.
IL GUIZZO AD ARCO Fulgente come una cupola a coppa dell'azzurro d'immenso mare, nel guizzo ad arco il delfino, chiude a placenta l'onda e dilata il suo riso nell'amore. Lungo la scia spumante di ricordi di quelle case grandi, raminghe a luoghi ignoti, un ragazzo s'incanta e inclina a presa la sua giovane mano come faceva un tempo nei giorni del Natale. Un mormorio gorgheggia a suoni mozzi di tintinnio umano e ildelfino s'inarca a invito di sirena con grazia birichina. Sorride l'uomo-bimbo e intende suoni d'infanzia e d'innocenza mentre tra cielo e mare il guizzo ad arco pluvia di bianche perle.
L'ORA VESPERTINA E' l'ora vespertina a luce mela-arancia e, come a rito, mi perdo in sibillini spazi. Cataratte sugli occhi cancellano contorni perché la sera scenda e giunga la tua voce. Nell'angolo più fondo una poltrona vuota spira presenza e mentre la neve carda allumando vetrate un sibilo di vento modula suoni in sorda lontananza. Scende a drenaggio il pianto lavatore e filtra a incastro la medianica luce. Nell'ora vespertina il silenzio sgretola sogni a codici irreali.
COME VORREI Come vorrei vestirmi d'aria pura riflessa a cilestrino d'acqua cheta di lago a primavera! Come vorrei alitare d'un sospiro a leggerezza eterea di piuma zeffirata. Sublimerei d'incanto su ninfee verginali e senza spora mi fonderei nel seno della Madre.
CAPITA COSÌ Capita così d'intravedere un sogno dell'altrieri così, distrattamente, mentre la fretta sospinge i piedi a calpestare creta e il cuore non trasale per il campo sfocato dagli affanni. Poi... quando inclina a sera e a dormiveglia stendi il corpo inerte quella finestra aperta alla memoria rimanda, pigra, contorni d'ombre e sagome indistinte e t'accorgi, sorpresa, d'aver perduto a soffio la tua cabala marcata a segni, forse, dal mistero.
UN RITORNO... NEL SOGNO LA BOTTEGUCCIA ANTICA Sono qui! In punta di piedi col batticuore a tema di non trovare più quel tesoro di gioco di pirati. Svicolata la strada dei rumori eccola intatta la botteguccia antica a porta dondolante col campanello nero impolverato. E c'è un sapore ancora di biscotti di culla e la vecchia signora in un cantuccio col suo grembiule bianco e la treccia arrotata alle forcine se ne sta a sorvegliare un po' stranita i piccoli monelli come un tempo. "Tre soldini di menta e liquirizia di quella nera a rotolo incartato e... poi la caramella mou col topolino" dico con un sorriso a pianto dolce di bambina cresciuta di tant'anni ed il tempo scantona dai binari come un trenino a festa a zig-zag su terra erbosa di villa comunale. "Tre soldini, un sorriso una carezza per ritrovare acque cristalline e stingere ceroni d'illusioni".
LIBERTÀ Se nell'aria a foschia si leva altero un falcone brunato e ruota in cielo senza cappuccio a notte tu alza il filo all'acquilone antico e chiedi di parlare. Non temere congreghe e sortilegi di tempi andati e guarda ad occhio puro. Evoca intorno un'aria di magia come quella che il vecchio custodisce per tramonti di tenebre invernali quando nel bosco picchia la bufera e alla marina schiumano gli squali Tu non tacere e a grido leva la mano sulla carta che aggrinza sogni di volo e lancia l'aquilone. Taciti e smorti cavalieri in marmo avanzano stridendo l'armature e il cinghiale di pietra squadra ancora il ghigno sublimato nella morte. Ma tu... tira a forza quel filo e chiedi ad un falcone cos'è il cielo che sognasti di navigare un giorno con l'aquilone al vento. Forse tra la foschia in un sussurro a sbatter d'ali saprai che il cielo è solo libertà. |
Nella parola "solitudine" c’è una stonatura, come se ancora derivasse da Dio
(Elias Canetti)
SULLA SOLITUDINE
Non c’è Dio che non benedica la solitudine dell’uomo quando questa viene invocata ed ottenuta come stato di grazia e di quiete dell’anima per il muto colloquio dell’essere con se stesso, per l’auscultazione delle sue voci interiori o, spesso, per la ricomposizione dell’io nella sua dimensione umana e metafisica. Ma non c’è Dio, e soprattutto il Dio cristiano, che non piange di pietà sulla solitudine indotta dall’emarginazione, dal rifiuto o, ancor peggio, dall’alienazione che si accompagna inesorabilmente al tempo orfano di quei valori che soli consentono la pienezza della dignità del pensiero e la vita del sentimento.
E quando il tempo gonfia a spessore di scienza pianificante solo razionalmente i problemi ed usa economicamente l’uomo e le sue cose, ecco che la solitudine squaderna in rivoli, assume dimensioni e diramazioni molteplici, assumento volti diversi che si riconducono tutti, alla fine, come note, ad una suonata di funesta armonia il cui nome è dolore.
Ed oggi, nel villaggio globale, metafora impoetica con la quale si indica il mondo, c’è un punto infinitesimale, chiuso dal mare e dal silenzio che pesa più di una coltre di morte: è la Sicilia del carrubo di Falcone, della sicilitudine fatalistica di Sciascia e del malinconico silenzio di Bufalino, dove a chi vive alle pendici dell’Etna, sbilanciato tra cielo, mare e sommità maestose, la solitudine presenta una caleidoscopica gamma di modi di essere che compendiano, nel volto della morte civile e culturale, l’espressione paradigmatica dell’alienazione totale dell’essere umano, mentre declina all’ultimo tramonto un’epoca che forse, ha già toccato il fondo oltre il quale non può non esserci una lenta resurrezione dell’umano, auspicabile da tutti coloro che non credono alla morte totale per fede nella vita.
Dalla Sicilia al mondo, dalla solitudine, dall’emarginazione per dolorosa scelta di Gesualdo Bufalino, alle "solitudini" per campionatura, in questa parte della silloge.
COME UNA NENIA: SICILIA DI SEMPRE
A Gesualdo Bufalino
Lento, sfocato nel rosa del tramonto di un sole placato, l’asino di un novello Malpelo trascina la gravezza di due fatiche sterili come l’avara terra delle pendici dell’Etna che sfratta i suoi figli e lacera, seminando morte, le sue viscere di tesori nascosti che dannano la fame di ogni giorno con miraggi d’oro di messi. Nel secco del paesaggio scabro lo sguardo scivola sulla mulattiera in um letargo di sonno che non vuole più sogni, ora che si è ingrigito il verde malato della speranza dell’alba nel "così sia" del tramonto: Sicilia di sempre.
"E sempre è no, con una stanca malinconia, con quel sorriso malato che vorrebbe esser vita e non lo è. E sempre è no da giorni che più non conti da notti perdute, da ore sfocate nell’attesa in quel vano sperare che vorrebbe esser vita e non lo è.
ANDANDO LÁ ... DOVE CI PORTA IL TEMPO D’un tratto capì che bisognava andare. Lo scrigno d’oro delle settanta lune giaceva sul tappeto a geometria scomposta dei quadratini neri, quasi sgomento da incuria di memoria. Sentì che l’orto antico delle rose s’era aggrinzito a tossici convulsi e turbinava a vento petali polverosi su brandelli scipiti d’inutili speranze. Con parvenza di grazia d’annosa dama, civettuola alla mossa, prese soltanto lo specchiodi regina per smerigliare a sera là, nella stanza angusta dei rifiuti, ombre di caldi sogni e rugiade di lacrime di vita.
CASTAGNO IN CITTÁ "I sacerdoti del tempio della Natura vogliono altari al cielo" Si leva ancora all’aria un poco ombroso, come vergine schiva dei suoi sogni, un castagno possente che va perdendo fronde di dolore. Un tempo, oltre quel muro che gli contende il sole, sbocciava ricci a gemme verniciate e ai nidi, a primavera, levava la sua nenia delicata di figlio spurio gettato in un fossato. Lassù, gli sussurrava perfido il vento quando restava solo nel tappeto di morte di foglie nere come notti insonni, lassù, più in alto, al bosco là dove il sole stempera raggi infuocati in freschi d’acque pure, gli avi eternati dal silenzio umano si raccontano, a notte, storie di amanti e drudi e scompigliano, a festa, chiome solenni di guerrieri invitti. Vibrazioni di pianti viscerali invocavano ponti di pietà e squassavano il seno ad un’antica madre crocifissa.
ERANO TANTI Se ne stanno a guardare gli aquiloni lungo i pendii erbosi e, muti, si chiamano alla conta. Sono saliti in cima per la festa dei sogni con la coccarda al petto ma tanti non ci sono e gli spazi bucano a fosse. Oh le coppe vuote e il vinello trasparente nelle bottiglie a mezzo! Quelli... sono partiti all’alba di un giorno senza sole nel grigio-verde stinto di sconfitte pei campi del dolore... e un lamento spegne folate e abbassa gli aquiloni. Nell’aria bruna vola un pipistrello coll’ali a lutto e pare singultare su primavere spente Un bimbo ammaina. la bandiera del cielo e cade la speranza.
UNA STORIA DI PERIFERIA Cronaca in versi di un "caso" senza emozioni di "solidarietà" Una storia di periferia cheta, senza rumore, tutta vissuta senza la grancassa. Noi due soli, a sera su quel marciapiede, senza parole, mentre il vento inquieto tormentava i capelli inanellati che da tempo scioglievi solo a notte. Com’è triste un binario di paese anche se l’orticello occhieggia al muro un girasole giallo a chicchi d’oro! Sentivo la tristezza dell’addio nella carezza incerta sulla mia guancia in fretta mal rasata mentre tremava fredda la tua mano. "tornerò con le primule e le rose" mi dicesti scherzando e la tua voce tacque di botto come per pietà. Il lungo treno giunto alla stazione tese le braccia aperte al portellino, e tu salisti, pigra, col giornale che scivolava a terra giù dal seno gravido di bubbone. Ieri tornando a casa per penare la lunga notte senza il tuo sorriso ho smarrito di colpo il tuo profumo sul cuscino più bianco del tuo volto in quella sera buia senza luce sul marciapiede lucido specchiante quegli occhi miei asciutti per comando. A quell’incontro oscuro te ne sei andata sola, ome si avvia a capo chino e stanca la gente dei sobborghi senza nome, per suggellare a morte cheta, cheta una storia banale del nascere e vanire una storia di periferia tutta vissuta senza la grancassa.
MOMENTI DI NATURA Vibrano a intermittenza i frulli d’ala sul nespolo dorato e lungo il marciapiede la verzura reclama in erbe verdi la sua dimora antica. Una lucerta al sole boccheggia impolverata e invidia gocce ai tronchi di viticcio che si stendono a fila come soldati in marcia.
SFOLLATE LA MARINA Voglio stare sola. Lo spazio degli umani non lascia intercapedini ove inserire l’anima. Sfollate la marina! Gabbiani ad ali curve rondano litorali schivando pesce di catramati attracchi e la voce dell’onda muore ad abbrivio di colorata spuma. Nella notte l’argento sopra l’acqua sfalsa l’occhio a distanze di miraggio ed io non vedo navigare ad ali l’angelo bianco del mio purgatorio. La terra, opaca, ha perso i suoi colori e il cielo flette solo sieri acquosi.
ASPETTANDOTI Sai, scorrono i giorni e il tempo ammonta gli anni cernendo l’ore all’occhio del tramonto. Dalla finestra a vetri del numero quaranta sento tonfi di foglie scure e vedo assacchi di ferite sul viso. Seduta in questa stanza d’ammaraggio di nave dopo tempeste senza naufragi aspettandoti guizzo di desideri antichi. Vorrei cera di cupra a levigare un poco questo legno rugato da tante piogge a gocce. Vorrei perlare a dolce latte rosa questo mio corpo rinsecchito dall’ascia e dalle pene e intanto tremo per la fanciulla ardente che vive agli occhi tuoi.
CUORE FANCIULLO Se in dormiveglia sento la cicala si fa soffio di vita la tua voce come quando nei giorni della festa ti saluto alla casa dell’Eterno insieme alla tua sposa. Un pettirosso gonfio e pettoruto saltella sulle croci e, a becco armato, preda semi ai tuoi fiori: tu sorridi dalla cornice a smalto tra i gladioli bianchi e le mimose e sussurri il saluto del mattino levando il volto a Dio: "Buon giorno, giorno gloria del Signore".
ERI IN QUELL’ONDA Eri in quell’onda bianca di sorda rabbia coperta a notte, senza misericordia di lidi bianchi. Eri in quell’onda mentre la mano stanca velava gli occhi nel segno della croce. Eri in quel verde grigio di speranza sfiorente all’urlo di tempesta, ma, a sera, come il perdono splendevi in una stella, Signore della vita. |
PERCHÉ SIA VITA, DEVE ESSERE IL DOLORE
E’ passata in sordina la notizia, almeno sulla stampa nazionale che, simile al vento, spazza via l’oggi protesa ingordamente ad ogni domani foriero di fatti nuovi, non importa se belli o brutti, purché calamitino l’attenzione pubblica, a crescita perenne di tiratura. E’ passata in sordina, come uno dei tanti casi di solidarietà strappa-lacrime, specie quando riguarda bambini o giovani vite che chiedono l’elemosina per potere sopravvivere, eppure ci si trovava davanti ad un caso eccezionale: la richiesta di aiuto perché una bambina potesse provare dolore per potere vivere. E per questo, s’è fermata a casa mia questa notizia, dopo avere bussato piano piano, vantandomi la sua peculiarità di novità diversa ed io l’ho accolta nel mio pensatoio dove s’accampa di diritto un poeta che del dolore, del suo triste qualifiarsi come necessità essenziale dell’essere, ha fatto unico scopo della sua ricerca intellettuale e poetica, scavalcando secoli e millenni per rinvenire la causa, o il peccato originale, che dettò, alla genesi del genere umano, l’inesorabile oscillare a pendolo tra la dannazione del soffrire e la noia, la sospensione nel nulla che destituisce il senso del vivere e ne vieta la partecipazione.
Certo, Leopardi è un epigono miliare del suo tempo in questo fatale andare del pensiero e della fantasia dell’umana creatura che si è sempre illusa di potere scoprire il fondo della palude di miasmi del dolore dai mille volti per prosciugare la mota oltre la quale è la sorgente della felicità, forse nell’assenza del moto pendolare o, come mi figuro io, nella serena composizione di acque lacustri che solo un eterno zefiro sfiora lentamente, a brezza di sogni . Ma non è stato dato a nessuno, o poeta, o fanciullo di cuore per grazia divina, possedere un’idrovora incantanta che essiccasse alle radici il dolore ed esso resta "necessità inesorabile di vita" come per te, bimba che parti da Venezia.
IL DOLORE Bimba che da Venezia parti per cieli ignoti che il dondolio del mare non t’ha narrato mai l’ala della speranza invocata per gioie ti sia farfalla ambrata e non porti la notte tingendo l’ala a inchiostro. E’ lunga la discesa nel tunnel della pena là dove nuota a forti braccia tese il tempo della Storia ed ogni stilla amara s’appiomba greve a letto di locuste. Ma tu, colomba, mentre giaci ignara sogni calici a fiele per sbocciare alla vita come vergine sposa che s’appressa al connubio. L’ala della speranza ti sia farfalla ambrata e ti porga una fonte d’acqua amara per donarti la vita.
TI SALUTO A Turi Di Bartolo, amico poeta Ti saluto, poeta. Cammini con il tempo della vita gentile come l’ospite gradito e bussi a porte aperte sciogliendo in ore la vacanza degli anni. E il colloquio riprende come una volta quando, ed era autunno, sentivi lievitare le radici al soffio della morte che spingeva all’addio. Fra le carte che affastello a dimora in cassetti scordati ho ritrovato la fanciulla gentile dei tuoi giorni lontani. Profumava del sole dell’orticello verde a Primavera e m’ha pregato a suon di sirventese di mandarti un sorriso.
AL NUMERO 10 Al numero 10, lì, in fondo quasi spiacciato al muro c’è un tumolo che occhieggia a un tenero limone forse perché il suo verde scalda l’umida zolla inserrata a una croce. Lieve, una mano, come la pietà, depone un fiore con furtivo gesto. |
LA PALLA SOSPESA
In un campetto di quartiere, dall’erba alta, che non conosce il taglio soft all’inglese, fra il vociare tutt’intorno, un ragazzo con la maglia strizzata di sudore sporco, segue la traiettoria del pallone mentre gli occhi rilucono alla Vialli e le braccia si tendono all’abbraccio di gioia dei compagni: da lontano il tocco dell’Ave della chiesa di Maria Goretti e il rombo dei motori di un aereo che si alza portando lontano sogni e pene.
Nella palestra deserta di città, la palla sospesa e uno spillungone alla magic Jhonson dal viso bianco d’attesa trepida verso il canestro, col cuore a rullo di tamburo d’ovazioni.
In un cortile di sobborgo, la palla sospesa, a gioco a terra, di una bambina che sogna di spiccare il volo verso cieli alti dove l’azzurro non ha bisogno di un telefono perché le nubi bianche sono di zucchero filante e gli angeli sorridono.
Sembrano bozzetti di un tempo lontano da "c’era una volta" e i giornali non raccontano più di epifanie di infanzia. La penna si è fatta pesante e non ha più colori solari da stendere su prati di innocenza, sfumando in favole di nostalgie d’adulti, sogni che fanno sorridere il cuore. Sono arrivati i mostri dall’inferno del sesso ed hanno lordato di fango e di dolore la purezza divina che fece stendere le braccia al giovane Messia, a cupola d’amore infinito.
E dal vecchio continente, dalla terra dell’Eldorado di un tempo, come dal Brasile dei carnevali ossessionanti e dalla dolce Thailandia e, in parte dal Paese dei Santi, navigatori e poeti, ora è un suono di campane a morte e un grido di dolore che muovendo dai Fiamminghi e dai Valloni trova la voce straziante di un padre, oriundo siciliano, perché non muoiano i bambini. Lungo la spiaggia di un mare di Sicilia rimbomba l’eco di una antierodiana, in una stanca giornata di sole.
CONTROERODIANA, IN UNA DOMENICA DI SETTEMBRE Non passa un angelo per le vie del mare nello strano Settembre a branche d’aria fredda. Solo, nell’aria estiva dei gabbiani straniti ed un sole cattivo spumante l’onde lungo strati a rena. A rompere il silenzio di un rito smorto di bagnanti all’acque una voce stentorea d’altoparlante sordo: "Non uccidete i bambini". E freme l’eucalipto a soffio d’aria e sale un’eco di giudizio d’altre età. "Non uccidete i bambini" e un numero non verde per merce sacra a pii ricettatori. Le gallinelle bianche piluccanti su cavalloni alteri cercano scogli neri squassate da paure di profezie sepolte e torna un vento strano ad urlare parole all’incontrario del sacrilego esarca, ma muore il giorno per orror di cielo e tuona pioggia a flagello di pianto. L’angelo di Giuseppe ha bruciato le ali e ha chiuso i varchi di novelle etadi. |
POETI DEL TEMPO
Poeti del Tempo furono, e non lo seppero, i nomadi del deserto, prima che Maometto li chiamasse all’Egira e poeti furono nella distesa inerte della sabbia, dove i grani, piani ed uguali, come l’uniforme patire delle cose, si allineano l’uno dopo l’altro e l’uno accanto all’altro e impongono il sonno della ragione e destano i sensi remoti e li affinano e li sublimano fino a renderli filiformi e penetranti, insinuanti, striscianti nel cuore dei grani fino a intenderne la voce e il sussurro e a legarsi, avvinchiandosi, al suono silente dei millenni trascorsi che raccontano i segreti del Tempo, del Signore tiranno che li inchioda alla vita.
Poeta del Tempo, ma a ciclica spirale di compiutezza solare che torna all’uomo, a cicli regolati d’apollinea misura, fu Orfeo e seppe trarre i colori dell’iride dal cristallo del grande occhio del Tempo per trasformarli in corde dell’anima, struggenti ed esaltanti per l’arcana innocenza fanciullesca che le fa vibrare. Nei suoi versi è come se l’alba e il meriggio infuocato, risolti nella trasparenza liquida dell’onda che si sfalda mollemente sulla riva, succhiassero, goccia a goccia, il liquore dell’attimo che fluisce e lo incastonassero nell’eterno presente della luce del verso.
E’ come se gli antichi segreti degli attimi che più non sono e di quelli che ancora saranno si arrotolassero ridendo, come lucidi chicchi di melagrana nella musica tenue che fascia la parola e si distende, nota dopo nota, nell’amplesso del verso.
Gli dei sorridevano, felici, al poeta divino di un mondo che fermava il tempo dell’uomo alle soglie dell’Ade e lo mutilava nella sua estensione metafisica, inesorabilmente, al punto di incattivirsi quando il Tempo, per Orfeo, violò il loro comando, e fu la morte del poeta.
Poeti del Tempo, nella sua metafisica essenza, furono e sono quelli del tramonto solare, quando la luce si spegne morendo e la sera si impadronisce delle cose e degli uomini, quando il silenzio afferma la sua signoria inquietante, e il logos e il melos tacciono e il poeta e il filosofo si fermano sulla soglia di quel mondo che non appartiene a loro perché è muto di luce e perché si sono perduti quei pochi che hanno osato inoltrarsi credendo che la loro lampada tenue potesse rischiarare il cammino.
E disperò, nella grecità inquietata dell’idillio puro, il poeta recanatese che assimilando all’immensità l’infinito, si aggrappò alla voce del Tempo della memoria e alla percezione sensoriale dell’essere nel Tempo del presente, per la voce del Tempo, mentre "naufragava" nell’imponderabilità essenziale che, sola in questa "mutila" essenzialità infinita lo rendeva felice.
E intristì, " a malinconia serena" Montale, il poeta del Tempo dei nostri giorni, quando nel secchio colmo, portato alla luce dalla carrucola, "sentì" frantumarsi in postille tremolanti, un volto di donna, a simbolo del mistero di quell’asse portante di cui inseguiamo, invano, il punto anomalo di arrivo, se guardiamo con gli occhi ciechi per cataratte calate sul metafisico che vuole la dimensione ontologica, non sentita come mortificante cappio.
E insecchì il verso nell’ossimoro dialogico, il poeta che non volle piangere come Pascoli impetrando colloqui in dimensioni oscure alla lumera del finito ma, perdente Capaneo, si misurò, ed è Caproni, in una sfida snervante di cacciatore astuto in un selva oscura dove il Cacciato a cui, in fondo, anelava arrendersi , regnava incontrastato in un agostiano Tempo senza fondo, che non si distende né nella sabbia contemplativa del beduino, né nell’apollineo geometrico del "finito", ma nel misterioso loculo dell’anima, dilatantesi all’Infinito.
E torna il gioco del poeta del Tempo in "Correndo la parola" di Giuseppe Piazza, là dove dice:
"L’orologio batte
un’ora non mia:
S’inceppa in questo
dormiveglia la molla
che mi regge sulla scena
cede la tavola il peso
inavvertito che mi strapiomba.
Sei forse tu sconosciuta essenza
trama di questo indifferente supplizio
il passo che rifiuta
di vivere ancora un giorno?"
"E LA TERZA ETÀ?"
Com’è strano il tempo "dell’uomo" e com’è banale, insieme, fino a quando è regolato dagli altri sul metro dei bisogni e come, invece, diventa inquietante e fascinoso quando viene liberato dagli schemi meccanici delle ore del lavoro, di quelle del riposo, di quelle forzate dell’apparire e dell’essere nel contesto della struttura sociale in cui è codificato!
Se ci facciamo caso, il corso della vita nelle due età, come si usa dire oggi, è regolato per ognuno di noi da un orologio convenzionale, rigido ed automatico, che ci fa, ad ogni ora e ad ogni giorno, dei devoti osservanti retribuiti di fissi modi del tempo in cui si consuma, quasi, l’arco intero della nostra esistenza. C’è il "modo" temporale del sogno, quello della speranza, quello dell’amore, quello della conquista o del fallimento, e siamo tutti uguali, standardizzati, anche se nel vissuto individuale siamo, o crediamo di essere, unici.
Così è stato per i nostri padri, così per i nostri nonni e così, ancora, per i primi uomini che diventarono civili commerciando per un pugno di lupini il tempo dell’umano con quello riposante (?) del convenzionale.
E come gli uomini dei tempi andati, quando l’utile del ruolo del singolo non viene più richiesto, anche noi, ognuno con le proprie peculiarità personali, ci chiediamo: qual è ora il nostro tempo? Qual è per noi che siamo della "terza età" e siamo stati degradati della medaglia della saggezza e della fulcralità sacrale della famiglia, dato che il "nido" è diventato guscio vuoto e la senilità non abita più sul pianeta Terra forzosamente imbellettata di "attivismo vacuo" sfibrante nella corsa selvaggia col tempo che non consente sosta e schernisce il passo lento?
Io ci ho pensato molto a questo sgomentante interrogativo e mi son chiesta cosa può avvenire dopo la scomposizione geometrica della struttura attiva del così detto collettivo che ci contiene fino alle soglie della "terza età" quando ci congeda senza, ipocritamente, dirci addio, e alla fine, per dirla con Elias Canetti, ho tradotto il "mio" nuovo tempo nella metafora de "Il tempo vagabondo".
IL TEMPO VAGABONDO Il mio è il tempo vagabondo senza peso vuoto come le mani dopo un addio. Il mio è il tempo cavo del sussistente nulla di ragnatele rotte senza storia rasente la divina indifferenza del ligure poeta. Novello Ulisse svuotata la clessidra a remi duri occhieggio ov’è l’eterno senza tema di pena a sacrilegio e a trastullo rimpasto quell’argilla che il mito mi contese in nuovi mondi per ritrovare il faro del riposo.
DALL’ALTANA SUI TETTI A filo a piombo la cordata dall’altana sui tetti. Dritta come una spada a furare la genesi dell’io. E sempre un balbettio di pensieri arenati nella parola incerta. A filo a piombo dell’universo loico coi parametri certi del peripato greco a cogliere i dettami a specchio di natura. E sempre il fallo di uno scacco nuovo per rapinoso caso squadrante l’armonia. A filo a piombo da quell’altana umana legata ai tetti a cupola di "se".
AD IMO AD IMO Ad imo ad imo come una mendicante strascicata sboccono il pane amaro di sale irrangidito della bisaccia aperta aggrumata di rena alla marina. E il battito del cuore assonante all’oscuro palpitare della cosa distesa e squadernata dilata sistole al flusso del drenaggio. Come marea calante a luna piena con la zavorra pompa a sangue rosso piaceri di dolore ed estasi di sensi.
RIGURGITO LOICO E se poi il cogito svariasse per galattiche strade a cogliere le monadi sforandovi finestre d’armonia ove inserire i sogni? Se, mutati coordinate e tempi, m’accompagnassi a Candido per i fiori del cielo e l’isole di un pianeta d’ovatta non filata, che diresti per ricondurmi al paradiso dei principi fondanti e alla certezza che il bianco non è nero e vita non è sogno? Raccontarti il mio viaggio sarebbe una giocata a scacchi senza l’alfiere, certo, e allora me ne andrei colla bisaccia al collo e il cogito svariato. Lassù, lontana dal codice affogante chiederei un cavallo per l’alfiere che mi portasse, come una valchiria nel biondo regno di un Odino arcano.
E’ NOTTE Ora, le parole sbrigliano sui pensieri senza comando e ruotano a delirio. Scartate dal pudore bulinano ad impulsi e addensano, vermiglie, voglie remote che il cuore serra attento quando la luce piomba a bianco-argento. Nelle ore stregate d’oscurità strisciante tra i velami imprecisi di luna alla finestra suona a martello la folle danza di sillabe allo sbando sul cavo rimbombare di memorie a noir perse ai cancelli di coscienze assenti.
IL ROSARIO Grano, dopo grano, perla, dopo perla, preghiera d’ogni sera. Una quando la luce bacia i suoi fiori ed una quando il vento stanca le frondi. Giorno, dopo giorno, perla, dopo perla, preghiera d’ogni sera. Una quando la vita canta di gioia ed una quando a notte il cuore piange.
IL SILENZIO DI ERMIONE Pietà pirandelliana per una creatura abbozzata Ora che il tempo ha stemperato i sensi e il tuo poeta più non invola il verbo sacro al notturno Dioniso ebbro di vino e sangue solo la pioggia batte e batte e suona ed è parola fissata sulla carta. Ermione bianca come la morte senz’amore, le gocce "aulenti" del nardo del tuo demiurgo stringono ancora a croce i polsi tuoi? Dove vaghi, fanciulla plasmata a filigrana sparsa su punte d’aghi fini brillanti a fitta pioggia su una pineta panica di sensi? Ove vanì la tua verginità al tocco di carezze sfatte dal desiderio?
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Ermione è fuggita! Il suo corpo di velo trasparente, fradicio di pioggia, che il poeta panico lussureggiava di palpati sensi golosi, si è sciolto all’emolliente flusso di Giove pluvio che ha trapanato gli alberi del bosco, invocato a secondare il ritmo ossessivo della carezza senza pudore della parola, avida di linfa preziosa.
Ora è notte e lo spettacolo è finito: l’occhio baluginante d’irreverenza, che aveva penetrato il bianco perlaceo delle lunghe mani e aveva implonato le iridi della fanciulla, riposa placato dall’eccitazione verbale, gravitata da musica erotica che, strisciante, aveva soffocato in un caldo amplesso figurato, teneri virgulti aerei e tronchi dalle profonde scanalature cortecciali che nascondono giuramenti di eterni amori, poi dimenticati.
Ermione se n’ è andata! Vaga cercando le carte su cui è stata raccontata quella bugia di divinazione naturale per cancellare la menzogna di un adoratore della parola.
Quando sul nero crepitante di gocce, la voce sibilante del vento ha affermato il trionfo del cilestrino aere che sgombrava il passo all’argentea signora della notte:
Ermione ha udito il pianto delle foglie e il rauco dolore della spaventata civetta che l’hanno fasciata del silenzio grigio della solitudine dell’abbandono e... si è smarrita nell’ecolalia infantile della sua purezza primigenia che balbettava, ad eco ripetuta, la tristezza eterna di un sogno sverginato.
COME UN SIRVENTESE Ricordando il tormento d’amore di un dolce menestrello Quest’ottobrata viene da lontano, signora mia, e chiede al vostro cuore di schiudersi alla favola.
E’ sera a luce piena e l’aria annotta ma voi vestite a festa leggera come un soffio evocata dal tempo di feroci signori a guerre e fiamme nei castelli a torrioni-sentinelle dove le dame belle e i cavalieri dimoravano a sogni e cortesie ascoltando quei lai festosi e gravi di cui foste signora incontrastata.
Un menestrello torna da lontano ora che il biondo sire ha posto la corona sul camino di pietra affumicata dal lungo inverno a stanza di riposo e scioglie un canto chiamandovi a convito.
"Madonna mia voi siete Lionora e al vostro lume, vanto cherubino, io piango le mie pene.
Ero un servente biondo come l’oro e v’amo come un tempo.
Là, nella valle in fiore dove la luna bacia i miei capelli al vento e il baio piange senza cavaliere io v’invocai ogni notte come un sogno, ma l’alba cruda stese veli neri e cominciai il mio fatale andare.
Per trenta e trenta ed infiniti trenta dei giorni miei ho cavalcato invano cercando una fontana per l’arsura del cuore.
Per anni ed ore ho pianto con stille amare ed ho bagnato rivi bruciando gli occhi.
Ed ora, all’ottobrata che mi vede cieco come il destino che mi porta a voi, Madonna mia vi chiedo: in Aquitania posso morire stretto al vostro seno?
ERRATA L’ESEGESI "A la stagione che il mondo infoglia e fiora..." e gli anni miei del sogno e l’ardenza di vita celata a capo chino sul libro un po’ gualcito. O compiuta donzella come t’ho letto male figurandomi cieli senza nubi e campi senza frontiere! Credevo... e ancora mi tenta il cuore la versione antica, credevo che invocassi affrancatura a libertà di cieli per librarti, leggera, senza peso in voli senza fine e tendevo le mani ad agganciarmi. Come t’ho letto male ignara d’ansie d’amore in sublimati antri dove si sfalda l’anima al fuoco levitante. Credevo ... e ancora mi tenta il cuore la versione antica, che fossi una gazzella in prigionia.
RIVISITANDO Sull’abuso a freddo delle metafore Entrare per vie traverse a snodo di pensiero come un verme strisciante nel cuore di una mela e incubare, passiva, l’idea senza parola. Sventrare il simbolo di un logos vivente disteso nel mistero di una verginità che ride ambigua crittografata a enigmi di cielo è rifondere a fuoco l’oro di una scintilla scempiando a sacrilegio un tocco d’innocenza.
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Non alla maniera di Freud, secondo schemi dell’eros e del thanatos, ma nel ricordo di miti antichi, con ancestrale voce di pudore, la penna mia, stranita di paura per devastante e nefasto trionfo dell’esplosione irrazionale della morte per orgia incontrollata del sesso, sfrenato nella pulsione di vita, dopo secoli (o millenni) di cattività squilibrante, si muove a narrare, per metafora, la tragedia del nodo ombellicale che scuote a orrore cardini di Storia.
PRIMA CHE GEA... Prima che Gea rompa le acque sacre senza speranza di novelli patti e scateni, possente a nuova genesi il giovanneo infante dei cavalieri neri, rintroni l’antro buio e salga la parola a giustizia solenne.
Si sventri sotto l’urto di tempesta la voragine piatta che incatena nel nero della notte il figlio spurio e sia la luce eterna.
Le baccanti sbiancate dall’attesa raccontino alle ninfe alitate dal fuoco evanescente l’epopea illanguidita nel silenzio del nodo ombellicale.
Si chiamava Dioniso il figlio spurio che scuoteva la notte della mente coi polloni di sangue sacrificale agli inni per la vita ed era sacro a Gea madre umorale e casta.
Il saracino dio riccioluto di neri anelli imporporava il volto alle donzelle che cingeva di pampini a corone di riso e voluttà e la campagna rigurgitava amore e giacevano insieme alieni da pudori sacre giovenche e satiri di boschi.
Si chiamava coi nomi più solari il dio che galoppava per i cieli e cingeva l’alloro a sua corona Biondo come un normanno ingentilito stemperava l’ardore dei cavalli che ruppero d’immane rabbia ardente solo le briglie aurate del povero Fetonte a disdoro del padre feticcio eterno di lucide armonie, tombe alla vita e cappio al dio d’amore.
"La luce sia e la parola viva e nell’oscurità gema stremato a catene di loico potere il lordo istinto" sacrò, oracolo a Delfo là dove il mirto impallidiva al seno di vestali dannate per rifiuto.
Impallidì di pena la natura e furtivo il peccato dannò le Maddalene e portò pianto a pure spose e a spenti focolari e i millenni di loico potere generarono Sodoma e Gomorra muovendo il Figlio a guerra delle bestie.
Navigarono il tempo della Storia coppe di sangue e grida d’innocenti a compenso d’urgenze di potere su quella geometria del solare fino al millennio nostro del tramonto che porta al terzo lupi senza agnelli.
Ma prima che Gea rompa le acque sacre e il demone della follia suprema devasti quella sapienza antica che uccise il figlio suo all’ultima battaglia portando pace in armonia fraterna scenda Apollo "sereno" e col tremendo maglio del logos cristiano fenda l’ultimo colpo all’idra ardente che ha smarrito le teste nella cattività del nodo ombellicale dell’io demidiato che non fu mai la bestia del creato e non è dio per l’impotenza fredda del logos squadrato dall’angoscia. |