Salvo Vasta
DEL TEMPO E DEL MALE
Introduzione di Gisella Padovani
CIRCOLO SOCIO-CULTURALE
"IL FARO" - RIPOSTO
ã Proprietà letteraria riservata all’Autore
INTRODUZIONE Nella dialettica contiguità semantica di quattro termini (tempo, Essere, parola, male) che già ad apertura della silloge assurgono a un ruolo tematico di assoluta centralità, si saldano le vertebre creative del discorso poetico di Salvo Vasta. Se il problema del "tempo" e quello del "male" si correlano in un nesso indissolubile, in quanto sono proprio la razionale consapevolezza della negatività dell’esistenza, la sperimentazione dello scacco metafisico e il senso del limite a impegnare l’uomo in un inesausto, perenne sforzo di autosuperamento e di proiezione nell’avvenire, e se l’Essere consiste proprio nella pénia, nella tragica condizione di finitezza e di insufficienza con cui il pensiero è incessantemente costretto a confrontarsi, la "parola" insorge come segnale di risposta e di rivolta a tale destino di caducità, come sfida all’effimero e apertura verso l’infinito ("Io qualcosa ho trovato/ nelle cantine solari,/ nei pungenti sotterranei della parola"). Poiché non c’è pensiero fuori delle parole che lo esprimono, è la poesia a fornire all’umanità la più ricca gamma di parole per allargare i confini del suo intendere, volere, vedere e presagire. L’eterna lezione della poesia, che si evince immediatamente dai versi che presentiamo, è quella che valorizza la funzione palingenetica e rigeneratrice della parola. Il verso è la scoperta di un sempre nuovo confine: metrico, sintattico, semantico e, in definitiva, umano, ma in direzione dell’ignoto e dell’imponderabile. Con l’arcobaleno delle sue metafore e la rete fatale e innocente delle sue "parole", il linguaggio poetico coglie a volo farfalle distratte e misteriose, cioè i momenti strani o sovrumani che la maggior parte di noi non avverte o non cura. Vasta è abilissimo nello stabilire infinitesimali reticoli di interferenze di senso tra segno e segno della creazione letteraria, nell’accertare inedite scaturigini e/o mutue interferenze di significati, nel suscitare istigazioni semantiche tra lemmi, sintagmi, paradigmi, nell’investire di sorprendenti valenze espressive inconsueti accostamenti lessicali o impreviste dislocazioni del tessuto testuale. I suoi, sono versi che prediligono lo scatto nudo e secco, ma che, pure, trascinano nel gorgo del serrato procedimento analitico e della stingente capacità argomentativa. La silloge si articola in tre sezioni che scandiscono, indicandoli per allusione simbolica già nei titoli, gli snodi del percorso riflessivo dell’Autore: AQVAM SUSTINERE, AQVAM PERDERE, KLEPSYDRA. La decodificazione dei tre sintagmi latini è offerta ad apertura del volume da quattro righi in corsivo che seguono l’epigrafe sciasciana. Il poeta che dapprima, impegnato ad enunciare i suoi itinerari meditativi, si illude di aver fermato per un istante il tempo, è poi travolto dal suo inarrestabile fluire, sicché "perde" la propria acqua fino ad acquisire la desolante consapevolezza di essere precipitato in una condizione di assenza e di vacuità icasticamente tradotta, sul piano iconografico, dall’effigie della "clessidra vuota". Attingendo a un giacimento culturale di amplissima portata, Vasta si inoltra in un ambito concettuale e critico-riflessivo poco frequentato dalla poesia italiana contemporanea: quello che convoglia speculazione filosofica e inventio artistica. La sua imagerie rinvia ai canoni di un’antropologia letteraria che, privilegiando le categorie dell’instabile, del centrifugo e del frammentario, a partire dall’ultimo Ottocento dilaga in Europa come inquietante prodotto della destrutturazione del reale e della correlativa disarticolazione delle forme di comunicazione linguistica e culturale destinate a rappresentarlo. Colta, raffinata, orchestrata sulla felice combinazione di oggetti onirici con centoni della cultura e dell’arte, e sul sottile gioco di rimandi che la memoria indiretta instaura con vaste zone della tradizione classica, la scrittura poetica di Vasta comunica al lettore la sensazione di una "luciferina frammentazione" e di un disordine - nel linguaggio come negli atti della vita - che metaforizzano la condizione dell’uomo contemporaneo, disperso come una goccia d’acqua in un "mare/ infinito che s’increspa e vive/ di vita presunta": palus putredinis, dunque, fumigante per i miasmi della decomposizione, sulla quale affiorano, spaventosamente tronchi e inoperanti, relitti materializzati del pensiero. Ma dietro la metafora negativa s’intravede la possibilità di vincere "la doppiezza del limite", di andare verso "l’altro", di appagare la "disorientata necessità" di un’integrazione del "diverso" nella struttura profonda dell’io. Il progressivo dissolversi o risolversi del pensiero dialettico di hegeliana memoria in una sempre meglio riconosciuta autenticità del discontinuo, le istanze destrutturanti che sia sul versante teorico sia sul fronte della produzione letteraria culminano nella canonizzazione del divided self, la critica della nozione stessa di soggetto in quanto subiectum, entità dotata di una struttura profonda e portante, sono fenomeni che, come ha osservato Vittorio Roda, "da certo positivismo associazionistico e da altre esperienze variamente precorritrici, si inarcano fino a Freud ed oltre, ed ai quali corrisponde, sul fronte della letteratura, il rinnovarsi dell’autoanalisi e dell’analisi del personaggio all’insegna delle categorie del discontinuo e del plurale". Bisogna tener conto di tali presupposti culturali per lumeggiare l’intreccio delle tensioni problematiche che attraversano i testi poetici di Vasta, situabili lungo la direzione ermeneutica inaugurata nei primi decenni del nostro secolo dalle teorie di Kierkegaard e di Barth, dalla scuola fenomenologica di Husserl e, soprattutto, dall’esistenzialismo di Heidegger e di Jaspers, teso ad accentuare l’incontro-scontro tra il finito e l’illimitato, fra il tempo storico e l’eterno dell’interiorità dell’individuo, sospeso fra i due termini di un’inconciliabile antinomia che lo spinge a "trascendere" continuamente se stesso nel tentativo di fermare il transeunte in una dimensione di infinitezza. Accensioni utopiche e cedimenti pessimistici si avvicendano nelle tre sezioni in cui si articola l’opera poetica di Vasta, sostenuta da chiare e precise isotopie semiche che la preservano dai rischi della dispersione e la orientano verso esiti severamente raziocinanti: l’amara visione della vita come "male incarnato" e dell’umanità come "carnaio aggrumato di geni", come caotico e indistinto conglomerato di materialità corporee, non preclude l’avvento salvifico della speranza. All’estrema disforia dell’annientamento totale, che al livello figurativo connota la catabasi in uno spazio negativo materialmente determinato come esclusione da ogni fonte vitale ("ci sentimmo forti, ma precipitammo/ nel baratro più profondo"), fa riscontro, al polo euforico, il solare intervento della speranza, che se è miracolo di "luce" e di "resurrezione", è però destituita, come la stessa poesia che la celebra, della capacità di assolvere ruoli consolatori e di alimentare illusioni gratificanti. Spogliata da ogni implicazione ottimistica e rasserenante, affrancata dai rituali sottintesi spiritualistici, religiosi e provvidenzialistici, la speranza, per Salvo Vasta, è lacerante e proficua tensione verso l’eternità, è sforzo titanico di sottrarre la vita umana al distruttivo fluire del tempo, assicurandole una durata perenne. Il materialismo negativo dei pensatori antichi e di alcune moderne correnti filosofiche rappresenta per Vasta un punto fermo di riferimento la cui funzione paradigmatica è chiaramente attestata dai versi con cui si apre la seconda sezione dell’opera: "Sta scolorendo ogni cosa:/ di quelle che sembrano avare,/ avvizzite, di frutti tarlati,/ consumate nei rami avvinghiati/ e contorti dell’edera." L’incanto dell’immaginazione si nutre del fascino ambiguo di un cupio dissolvi alimentato dalle malinconiche considerazioni sull’eterno circuito di creazione e di annientamento attivato dagli spietati strumenti della macchina cosmica. Se la morte inerisce all’essere, il destino umano è segnato da un’aporia che lo contamina alle radici. Nessuna salvezza può visitarlo né può venirgli in soccorso l’intelletto, che proprio nell’incapacità di spiegare questo paradosso ontologico avverte il suo limite più grave. Questo doloroso senso di insufficienza si rivela in tutta la sua concretezza in Tempo III, dove viene sollevato un quesito al quale, per il momento, il poeta si limita a rispondere con una sospensione di giudizio: "Cosa potrei allora temere,/ cosa tenere per dopo/ quando le trombe del giudizio dipinto e le/ ferali/ riconoscenze di gloria passata saranno/ come ali/ fluttuanti nel denso pulviscolo scosso/ dell’universo?/ Se cedono gli alberi, le ralinghe, i fasciami/ cosa rimane di questa sperduta nave/ che non sia poi in un mare?" Le forze che operano oscure nell’alvo della materia sembrano condannare l’uomo a un male irrisarcibile. Pur affermando con risolutezza le ragioni della sua filosofia désespérante, il poeta evita programmaticamente di insinuare nel cerchio della negatività interamente oggettivata disposizioni etiche e sentimentali che preludano a risposte consolatorie: "Non chiedermi allora di guidarti,/ perché sono cieco, un rimedio femminino/ per una virago e che mal s’accorda/ con la forma del vestire./ Non mentire allora, non consolarti/ mentendomi". È evidente il riecheggiamento di un celebre incipit montaliano, quello della lirica che in Ossi di seppia apre la sezione eponima del volume: "Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco/ lo dichiari e risplenda come un croco,/ perduto in mezzo a un polveroso prato". La poesia non può essere più (come era, o pretendeva di essere, una volta) spiegazione del mondo, e tanto meno può prefiggersi compiti consolatori; essa può solo, con scabra durezza, comunicare la tragica, impotente desolazione dell’uomo. È questo l’asse tematico lungo il quale il messaggio trasmesso da Salvo Vasta ("Non mentire allora, non consolarti/ mentendomi) coincide con quello che settant’anni fa Montale affidò alla sua opera d’esordio ("Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,/ sì qualche storta sillaba e secca come un ramo./ Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo"). Anche il significato metaforico del "male di vivere", sul quale Vasta pone spessissimo l’accento nei suoi testi poetici, rinvia ad una delle fondamentali componenti ideologiche dell’ispirazione montaliana. L’incidenza dell’autorevole modello (rispetto al quale, comunque, il giovane poeta siciliano non assume mai un atteggiamento di dipendenza epigonica) si coglie agevolmente accostando i versi con cui Salvo Vasta conclude la sezione KLEPSHYDRA ad un altro notissimo componimento dell’Autore di Ossi di seppia. Scrive Vasta: "Perché scoprimmo che il male/ è solo male di essere:/ coniugare l’esistenza al passivo/ cammino di un aratro a versoio,/ ciclicamente e in tondo/ sulla nostra terra". Anche Montale aveva espresso con movenze incisive e lapidarie il suo senso della vita quale male assurdo, lenito solo dall’effimero conforto di fugaci illusioni, e la sua concezione dell’atto poetico come indagine razionale della realtà secondo un’ottica fenomenologica e contingentista tesa all’estrema evidenziazione dell’oggetto e rigorosamente immune da cedimenti a seduzioni di matrice idealistica: "Spesso il male di vivere ho incontrato/ era il rivo strozzato che gorgoglia,/ era l’incartocciarsi della foglia/ riarsa, era il cavallo stramazzato". Salvo Vasta avverte che l’esistenza è contrassegnata da un’assoluta negatività, da uno "stanco perduto dolore" ineluttabile perché relativo non a condizioni particolari ma ad ogni forma di vita e modo d’essere. All’uomo, condannato a percepire "la notte, l’inganno/ dietro la paura, la morte dietro la vita", resta solo la possibilità di cogliere l’eternità nell’attimo platonico, di vincere il Male (identificato con la corruttibilità del tempo) prendendo coscienza della sua presenza e dominando l’istante in cui esso si racchiude: "Una vittoria in solitario molte volte ci fece grandi come un dio. Lui è un numero enorme; noi, da soli, non saremo mai come lui, se non in un attimo di Male. Lì, pensando ogni cosa, forse avremo il tempo di essere tutto". La frammentazione dell’ego penosamente scisso e pluralizzato, e tuttavia spasmodicamente anelante al recupero della sua perduta, epica compiutezza unitaria, si risolve organicamente ad explicit della raccolta nell’immagine del donchisciottesco eroe che ingaggia la sua solitaria battaglia contro il Male, contro la morte, contro tutti i limiti imposti dalle ferree leggi del destino umano. All’audace sfida del mitico Icaro, che nel primo componimento del volume ha emblematizzato il sacrificio supremo a cui è votato chi si rifiuti di essere travolto dal "tempo mutabile", corrisponde, con perfetta simmetria costruttiva, il patetico e insieme grandioso cimento di "Chesciada/ che supplica il cavallo di portarlo,/ lui cosciente, all’ultima battaglia." In entrambi i casi l’impari lotta fra l’uomo e il Male assume i tratti inconfondibili di un’epifania salvifica. Si conclude così, con un gioco iridiscente di bisticci, calembours, allitterazioni, paronimie ed eleganti enjambements, l’ammaliante sarabanda dell’immagination poètique di Vasta, che corre liberamente su percorsi inusitati, accumula sequenze oniriche, lacerti autobiografici, tranches de vie, reminiscenze erudite, inserti del parlato quotidiano, preziosismi letterari, citazioni dotte, stilemi idiomatici, nell’ansia di "reinventare" il lessico, di affrancarlo da contesti banalizzanti e da forme ormai consunte, restituendo alla "parola" la sua autenticità di esperienza originaria e la sua primigenia, quasi magica, forza evocativa. Gisella Padovani Università di Catania
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Ho fermato la mia acqua
Ho perso la mia acqua
Sono dunque una Klepsydra.
Vuota.
AQVAM SUSTINERE
INCMARO DI REIMS
(806-882)
Non è certo possibile che chi creò il tempo si muova nel tempo mutabile senza rimanerne travolto.
Io dico (ma non posso dimostrarlo): non è anche possibile che chi non ha creato il tempo mutabile si muova in un tempo immutabile senza rimanerne travolto. Per non essere travolti basterebbe rimanere sulla terra, anche alle condizioni di Icaro anche senza le sue ali purché domani (ma non dovrei dirlo) il sole sia per tutti come la luna. |
1
Davanti a un oriuolo fermerò quel tempo. Fermo, fondo: fermerò al profondo il suo respiro; lungo, nell’abisso dell’anima. E coi grani... . E coi rami ... Tu scenderai con loro nella china profonda e irrisolta di me.
Ti fermerai a quel segno. Anche tu. Anche gli altri che vogliono la nostra coscienza.
Ti fermerai a quel cumulo che qualcosa nasconde, dietro i rami di un salice nudo dietro un opaco verdeggiare che non è più speranza. |
2
Rossa luce di infetti postriboli calda rivelazione di giovani amanti dal grasso puro sudore, di nettari proibiti dal cielo,
ascolta l’angoscia disperata del bene mancato, della falciata improvvisa che arrossa di colpo una pur sempre voluta speranza.
Ci vuole un racconto senza fine per restituire ognuno nel bianco uniforme del piatto di Newton.
Ma anche quel rosso scarlatto fa parte del tutto svelato, del mestiere umano di vita che risorgerà. |
3
Rivelazione come sangue come stortura umana del divino come pietrificazione dell’incoscienza come sentore del buio, addendo di una somma sconosciuta calcasti un punto dilatato infinito, trattenuto a stento dalla sottile scansione della parola. Fosti qualcosa. Mi estraesti dalle viscere, dallo spasmo truculento tutto innervato nel bisogno; fosti per me qualcosa: un modo, uno dei tanti di essere qualcosa: fosti Me stesso che tornava che spariva, s’innalzava. Fosti un artiglio di sapere il limite delle acque la passione e il tacere riposato dopo Sisifo. Eri il ri-essere dopo il nulla un ri-tornare senza mai essere partito; un patire feroce (oltre la conosciuta, dolorosa sopportazione) quel limite che nella eternità corrotta di settecento lune ci sembrava quasi invisibile. Fosti proprio quel limite, quei cavalli di Frisia che ci immortalarono codardi giasoni dopo un’inattesa resurrezione dell’Essere. |
4
Rivedere se stessi solo nel cercare un’orciata di luce in mezzo a cieli semiscuri cupamente riflessi da un blu dato alle finestre con mano ferma e non approssimata di imbianchini farisei.
Aggravare nei tratti quella ricostruzione mancata di volti di flutti, di letti disfatti persa timidamente da noi nella lotta di prese in un pancrazio moderno e luttuoso senza speranza di premio
.................................... C’è sempre quell’atto, voluto instancabilmente cercato: un particolare beninteso sconosciuto nato da forme desuete e sotto l’intesa martellante dell’anima fatto piccolo, sino a sparire.
Ma l’averlo preso non è che tutto quell’apprendere. Intatto. E’ come un resuscitare improvviso quell’olfatto inoperoso di bambino che amava raschiare dal fondo rappreso il miracolo del vino. |
5
Non c’è durevole condotta nell’annunziare che il fariseo di passaggio e che s’afferma in noi sta per passare ad estrema risoluzione nel prender posto nel simile. Egli comunque s’illumina, macchiando improvviso il suo capestro nel maldestro tentativo di sottrarvisi come cera alla lucerna.
E tuttavia non basta la riflessione, una passione nascosta nel fondo per la trascendenza, un genuflettersi pietosi di fronte a un dio.
Il suo mirare non scorge alcuna luce la sua faccia multiforme diventa infinita eppure riunita insieme in un’unica possibilità.
In essa fingo di Esserci anch’io. |
6
Mi parve di vedere in uno schisto di pietra la fine moribonda di un sentimento. Era allora, quando il solo col pensiero l’accordò per niente, perché la lotta si sentiva vicino. Un tino colmo d’etere è già una raccolta di odî e di speranze per questa ingenua vita che poi diciamo [ordinata (essa pure si mostra soddisfatta dal farsi ritenere tale). Ridarà le gioie di un presunto futuro di bellezza, dove ognuno ed io potremo adagiarci per sempre?
Io qualcosa ho trovato nelle cantine solari, nei pungenti sotterranei della parola. [... - Qual è la parola? - Io non ti rispondo - Vorresti indicarla? - Io non ho segni... (Già li perse questa vita) - Ammira in me il tuo volto - Tu lo dici: ma i miei occhi non hanno voce - Io sento profonde le loro grida! - Ti inganni. - E’ solo il bene che circonda questo vuoto profondo.
...]
a) Perché se non fosse che in questa vita un riconoscimento rimane, di fittizio genere o tuttalpiù contrario, sarebbe presto raggiunto lo scopo di considerarla semplice risposta d’acrimonia alle bellezze divine.
b) Così ci accordammo per una fine di colatoi e sbavature fatte d’onnipotenza risorte a fatica fiorenti da cere scure di luciferina frammentazione. |
7
A noi una fede sostiene la tenzone e la luce che forse pensi fu segno scomposto di rispetto, di stolidità tremenda.
Ora non abbandonare, non prendere a prestito un pegno di altri: rigirare tra le mani uno schivo guadagno intristisce la borsa intestardisce l’anima.
L’anatèma che scegli per te sembra certamente ‘virtù’: non lo riconosci tu, se non a metà,
ed esso si prende gioco di te.
Forse vorresti salire da mozzo sulla nave dei folli, calarti nel buio della stiva per riconoscere una storia diversa. Non so se tu sbagli, né se io riconosco la giusta risposta. Essa pure è racchiusa tra noi, sottratta e cerchiata dal buio allungata al profondo. |
8
LA PREGHIERA DEL MALE Noi, come gocce d’acqua in un mare infinito che s’increspa e vive di vita presunta, dopo l’immensa tempesta dal giogo sempre più forte.
Noi, amanti della Gestalt del tu diffuso della promiscuità di Sade della vita nullipara, del sangue del nulla dies sine linea,
abbiamo sicuramente imparato che la malversazione spirituale non può essere frutto d’un tiro di moro né dell’età sinodale.
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(C’era un mammamia perfetto, uno strumento eccelso dell’onnipotenza che ondeggiava sicuro nel timbro squisito del salterio; che mai affondò in qualche pozza, che mai annegò in un bicchiere d’acqua, che mai pensò un grido, un accenno di saluto, un fiuto dimenticato di segugio vespertino che tra le frasche deposita la pazienza del padrone. Era il primo pietro, il pescatore senza menaide, senza ruga, senza sale...
Anche lui, come me, malvivo....)
antifona
E’ un male incarnato, la vita, che deve vivere e morire che aspetta un necessario traviamento: la sua razionalizzazione.
Bisogna tornare al punto ortivo a quella piccola escrescenza di luce che vomitò stelle nell’abisso che precipitò un atavico diluvio e ci fece partire. Vedemmo il punto dilatarsi, accrescersi a riprese nel millennio e limitare la morte nel carnaio aggrumato di geni.
Era ancora un baro: tiravamo a indovinare la sorte migliore. Ma l’avversario era più forte: riuscì solo a farci ricordare che un punto, un cerchio ed un quadrato avrebbero aggrappato nel mille gli occhi ad un altro dio. |
epilogo i
Fu come nei giorni di Aggeo, in giorni di scarne vivande che durano per tutta la vita, che noi volevamo avanzare per dissetarci con una mistura di nardo versata in un napoleone di cristallo. |
epilogo ii
Puledri di due anni, partecipammo ad un criterium fatto per dei; ci sentimmo forti, ma precipitammo nel baratro più profondo: quello dei magri epuloni. Ed anche noi desiderammo una luce, una resurrezione. |
AQVAM PERDERE
9
Sta scolorendo ogni cosa: di quelle che sembrano avare, avvizzite, di frutti tarlati, consumate nei rami avvinghiati e contorti dell’edera.
Sta scomparendo qualcosa, - lo sento -: odo il suo scorrere di turbina che allima nel piano i mondi. Mi sfuggono anch’essi, come il sale, come il cinnamomo.
Mi manca qualcosa - lo sento -: la trae via la calamita invisibile che qualcuno solleva. ................................ Anche l’amarena adesso è dolce. Anche un dolore che mi vide nascere. |
10
Come un ussaro allo specchio tento di rivoltarmi l’anima, bellicoso, così come è deposta la casacca (vecchio ingegno della vecchiaia superba) al chiodo arrugginito e tristo del tempo. Forse perché l’appendere ancora una volta dimostra stanchezza sdrucimento da uso o fine, addirittura, di qualcosa a cui si tiene, che si odia.
Non è istinto di conservazione ma illusione di trattenere l’*** e, per giunta, strumento di vendetta.
È come un cristo quell’atto, l’atto della conservazione e del riscatto l’atto del giudizio (positivo e negativo) la potenza dello specchio di noi, bassezza e orgoglio del possesso.
Eppure ciò che è appeso rimane ciò che è tolto non è più: l’esposto confina con l’(essere)? il mostrarsi una rivelazione (l’apparire è ben poca cosa) il guardare una sanzione (il vedere è cecità) il traslare, la prefazione del nulla. |
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TEMPO I
Sarebbe logoedica una vita che unisce il lamento alla pazienza: quella senza la virtù sarebbe il ramo secco della perplessità, della infingarda necessità di sapersi migliori: ma il loglio, purtroppo, non fruttifica le messi, né io conosco il talismano che permette a un dorato contadino di raccogliere a-priori una diversa seminata. Qual è allora la totale divisione dei compiti? Qual è la forma di un conoscere illimitato che traspare, per necessità, silenzio? Non dubito nel sapere ciò di cui si possa dubitare - la doppiezza del limite, all’assurdo stremo delle forze - ma del fatto stesso di dubitare, di riportare daccapo senza speranze, senza alleanze durature, una qualsiasi forma di conoscenza al suo iniziale destino.
Se è tardivo un moto verso il sublime io lo riconosco dalla vita di ognuno, dal duro nucleare per punti il passato in nuance sempre meno densa. |
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TEMPO II
Qual è allora la giusta direzione della diversità: se latente rimane, rimane forse ampliata nel silenzio, nel quasi singhiozzo della formula antica che uno spirito nottivago vuol rivelare alla luna.
Una preghiera è tale nel voler esprimere questo: che gli uomini sperano ottenere pregando un giudizio che asserisce uniforme la loro totale capacità di distruggere due cose, senza prima conoscere né l’una, né l’altra.
E l’Indistinto si prende gioco di noi poiché esso è la loia più comune che si trova negli uomini: il suo valere nel mondo, probabilmente, fa ancora grandi alcuni tra loro. |
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TEMPO III
Metto ancora le mani dentro la riflessione. Nelle scansioni di memoria nella convinzione del domani tinto da un equoreo colore (mistura fatiscente di un normale infinito).
Perché, se poi d’un tratto la speranza diviene malinteso, e anche il più modesto guerriero batte ritirata, la sorte ugualmente non può che apparire un necessario destino, un rodomonte poliedrico un tentennante contratto.
Preferisco allora rimirare d’un tratto le cose, bere tutte insieme le figlie di bacco, consumare a limitati banchetti l’infinito cafìso mancante del fondo, inebriarmi d’etere.
Improvvisamente di questi delitti poi piango, di queste rovine precise, di questi sogni coscienti che vivono nel nulla di me. |
14
Quanto poi all’anima mi sento poligrafo; quasi talvolta intimidito di me stesso, degli alterchi che si stagliano improvvisi - come l’onda del mare sopravvento - su sè stessi, immersi totalmente dal dubbio, dalla polimatìa che oggi invadente trebbia pure tra i morti.
Eppure sono lontano (lo sento) innervato nella testardaggine più astrusa, reietta agli altri quasi come prelogica virtù.
Cosa potrei allora temere, cosa tenere per dopo quando le trombe del giudizio dipinto e le ferali riconoscenze di gloria passata saranno come ali fluttuanti nel denso pulviscolo scosso dell’universo?
Se cedono gli alberi, le ralinghe, i fasciami cosa rimane di questa sperduta nave che non sia poi in un mare? |
15
Non chiedermi allora di guidarti, perché sono cieco, un rimedio femminino per una virago e che mal s’accorda con la forma del vestire. Non mentire allora, non consolarti mentendomi. La corda si tende con l’arco, scocca il dardo, violento s’incunea, penetra l’aria distrugge il bersaglio. E quel bersaglio s’abbatte potente, nell’evo uniforme e limato di Huizinga e [ Hirzel nel tempo di Ricoeur e Sorabji. Nel far rimbombare solo echi e mai più parole. Conviene allora montare in arcioni dirigersi al piccolo lume sopra l’antica bugia imitare il senso inesprimibile delle cose vendicarsi prima del dopo. Ma non so se questa incosciente speranza possa brillare un giorno d’un tratto come [ vibrìte, scandire nel cielo alternate l’eclisse e il lampo del faro, far tremare dio: lui, forse, non lo conosco. E non mi illudo che ancora ci sia il tempo che trasli ossa impaurite, che nelle trite virtù degli uomini ci sia ancora una qualche speranza. |
16
Ed è sempre un parlare di male di stanco perduto dolore mentre nelle ossa s’avviluppa lento il desiderio di lenire gli indecisi lamenti di un indicibile amore.
E tu aggrappi per sempre il tuo flatus vocis alla disorientata necessità per la presenza del diverso - specie dopo le sofferenze spietate delle dialettiche filosofiche - nei pomeriggi resi profani dagli intimi abbracci alle essenze, alle fessure di cielo, all’altro tuo essere alle temute speranze.
E ti accorgi che è sempre più un parlare di male di uno stanco, perduto dolore di un cuore di carne battuto su di un maglio dorato e di quella voce impastata dalle valanghe sanguigne di risate acquistate a caro prezzo...
..........................................................
mentre tu sei ancora aggrappata ad un filo, mente, io pesante, affondo le caviglie nella sabbia purissima e fine del progredire a ritroso fino ai Misteri di Giamblico.
Lì, ove mai sia possibile, ci divineremo in statue fuse col sigillo dell’ex-sistere, insieme alla fierezza del tormento e alle Vaticane epicuree.
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Dico dunque che l’uomo, pensato come elevato alla divinità del mondo delle idee eterne, precedentemente unito alla contemplazione degli dèi, è entrato in un’altra anima adattata alla specie umana della sua forma, e perciò è venuto a trovarsi nei vincoli della necessità e della fatalità. […]
E quando ha unito l’anima con ciascuna parte del tutto e con le divine potenze universe che le pervadono, allora la teurgia la conduce al demiurgo universale, la pone accanto a lui, e al di fuori di ogni materia la unisce alla sola ed eterna ragione.
Giamblico, De Mysteriis
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Ora, se mai avessi qualcosa da scrivere, scriverei che talvolta l’anima si è fermata, qui, al punto dove da sola è ripartita per il viaggio assassino della solitudine. Se rischiassi poi ad accompagnarla fino al limite estremo (ma poi sarei lutulente) mi accorgerei che lì presenterebbe congedo con grazia, con voluttà servente del cicisbeo raffinato. Sarebbe sola, fuori anni luce dal dispetto che la circonda qui, tra gli uomini.
(In quale radura o, peggio, ascensione di cielo dimostrerebbe d’essere finalmente felice?)
- Mi astengo dal giudizio nella speranza che ogni morte l’abbia condotta nel giusto posto. Qui, tra noi. |
18
Da Lì qualcuno ha detto che l’inferno è due: il desiderio mesto di speranza lì s’accende invano. E sperare non conta; c’è l’opaca tristezza del bicchiere intartarato del sale di china.
Ma Qui è il dolore qui non è la speranza; qui arde la lampada unica della nostra paglia. Ed è cilestre pure il cielo perché non è vero il fumo. E’ solo pallido, non scuro.
E ancora il nome di Epulone qui s’accascia tra le briciole. |
19 Forse bisogna conquistare stabilità sapienziale ritmi armonici, neumi puri.
Forse è necessario riguardare alla destrezza spirituale alle forme pure dell’anima.
Non è decisione antica questo svolgersi per salmi, per salteri austeri che tingono un poco di nulla, della vita d’ognuno che poi tristemente pare all’ultimo legata a un filo. |
KLEPSHYDRA
21
Mai pronunceremo le parole che ogni qualvolta ritroviamo semplici, hanno poi del vuoto e dell’elementare.
Attrae la loro bellezza, ma la vita che esse offrono finisce col diventare male di vivere e quindi principio di ogni vita.
Perché ogni vita è male di vivere, è gioia piena della conquista dell’***.
È vigore, vittoria, frutto di noi stessi, come la pota della vite (o della vita?): rivive in una nuova strada di dolore che diventa verde piacere, e poi dolore.
Intanto quel sanguinolento frutto s’insinua nelle mie ossa, si fa in me dolore, estasi, essenza.
Sento la lotta interiore, la notte, l’inganno dietro la paura, la morte dietro la vita.
Ardiamo essere accompagnati, come uomini comuni, perché non vogliamo saperne di vincere da soli.
(Una vittoria in solitario molte volte ci fece grandi come un dio. Lui, in ogni caso, è in numero enorme; noi, da soli, non saremo mai come lui, se non in un attimo di Male. Lì, pensando ogni cosa, forse avremo il tempo di essere tutto.)
Comunque preferisco combattere sempre contro me stesso.
Da solo.
22
S’appresta a torcersi il nervo ulivigno come una vigna esaurita dopo fiumi di vino. Il sentore degli auspìci fu rinnovato per tempo ma mancavamo del lituo per sostenerci.
Ora aggiornano confuse le vittorie come le frasche remolate a frotte sotto i marciapiedi del lungomare: tu le vedi, ma non io.
Rivedo invece il limite in quella linea gialla, infinita; in un occhio al mare - penso - potrebbe perfino consumarsi l’esistenza: quello stormo d’uccelli a vu che si presta a sfiorare il mare africano per farmi tremare di paura nel mezzo di un nuovo, ennesimo settembre.
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Dopo (o prima?) la verità viene il giudizio: invadendo l’essere si placa così l’angoscia; penetrandolo della sottile follia di uomo. Violando seriamente la speranza si arriva alla fede universale al possesso della verità. E’ discutibile la speranza nella forma, ma (gran ventre ingordo) il vero ci attira seppur bituminoso (ma per ciò che conosciamo fluido); ci lascia ancora impastati nel tempo, abbandona dopo averci violentato. E quel poco di cui siamo sozzi ci ammalia come aloe, come incenso greco.
Grande è la bellezza della verità: è come la poesia lesbica di Saffo. Rimane comunque per sé grande meretrice che dopo averci fatto godere, lascia avendo solo preteso il prezzo di un patto leonino. |
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Se la solitudine che intendo fosse come mangrovia rettilinea mi sentirei nell’intimo di chiamarla ‘innocente’, per la sua capacità di cogliere nell’anima gli identici legami con la coscienza. Ma ogni prodese che tira alla banchina non trae a sé la nave: si spezza, riannodando vanamente i legnoli del [passato. Non è da compiacersi di questa ineffabile [tensione, di questa strada tremenda che è la parola e che come sàmara trascina in là. ……………………………… Ho udito una salva improvvisa: repentina si è svuotata nell’aria quella forma ignea dotata di ‘rispetto’ di diletto vile per la tenacità. Io, mi sono fermato a guardare: ho tenuto ferma la ragione, ho gridato ciecamente. Ora desidero ancora rimaneggiare qualche sillaba, qualche stortura intelligente, qualche perdono : misurerò ancora i prodigi annunciati e un sanctus servirà solo per inneggiare a dio. |
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Vita, che dondoli tra parole tra mal-esseri infiniti di giornate che spegni lentamente nella morra di chi per primo possa indovinarne la fine.
Sconosciuta profezia per molti ed anche per noi due meno che agli altri sospetta in quel progressivo ricordare le ore di prima, il precedente immediato, il caso e le [combinazioni. Poche intenzioni resistono col tempo come questa che si fa sempre più amante illustre delle mentali perversioni e non della divina conoscenza della nostra intimità: nell’ultimo momento, prima, vorremmo avere la conoscenza del suicida ma per regalarci l’illusione che almeno quell’atto fu voluto da noi e non da altri; che ci fu restituito il mal tolto: quella coscienza inespiantata del contorno della tana accogliente per tutti dell’ultimo cosciente saluto, della benedizione. |
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Se chiudere o aprire ogni porta è uguale se il criterio e l’estensione del giudizio si equivalgono logicamente, anche il modo e la sua verità, probamente, sono poco meno del paradosso: è non c’è più Newton o dio a sorreggerlo. Manca la fede e le postille dei filosofi si rincorrono come tante tartarughe mutano in ombre, si dividono. Se i teoremi di giustizia, l’assiomatica verbale, i palmi delle mani battendo insieme colpissero, stramazzando forte il muro della umana incongruenza, sentirei il processo di un creato ergersi insieme in musicali infiorescenze, colmare ancora di più le sinfonie riempire gli interstizi dei muri, coprire il Male. Perché sento di sera le voci maligne, sensibilmente fuorvianti, che incalzano. Le sento cosmopolite, quasi rinverdite per [assurdo dello spirito universale. Perciò le addìto: per tingerle di luce, per sfruttarne l’impulso di forza rappresentandole metafisicamente in Male. |
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Bestemmia dorata portanza di ali blasfeme che tendono all’alto sotto la spinta di un’umana, sovrumana fatica che tenta, solenne, di riconquistare se stessa, di farsi vittoria perenne.
Perché scoprimmo che il male è solo male di essere: coniugare l’esistenza al passivo cammino di un aratro a versoio, ciclicamente e in tondo sulla nostra terra.
Ho scoperto allora di ri-essere che pensare quello stesso male era esistere, stringerlo a me come un cristo. Perché mi fece essere uomo. |
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Ti dico che solo ora apprendo della tua campa che nella ferale parola mors si spegne all’improvviso. Ti ha afferrato, morsa, lasciata,
rimorsa, battuta, lacerata. Mai come ora solo apprendo quel che ti dico: mi rimane il rimorso serioso di ricordarti così: labbro torto
di limata ceramica che ora offri a chi te stessa nelle bugie di vive cere perse. Non saprò mai
cosa più lì brucerà se non l’altro morso, nel consumo di Chesciada che supplica il cavallo di portarlo,
lui cosciente, all’ultima battaglia. |