di
Cristina
Che fosse strana lo avevo capito da subito,
ma mai prima di allora mi ero resa conto di quanto quella parola fosse limitata.
"Strana".
In fondo sono solo sei lettere messe una di fianco all'altra, e seppur già
il suo significato lascia trasparire un alone di mistero in ciò a cui
ci si riferisce, con lei addirittura non assumeva altro che un piccolo spazio
tra gli altri, innumerevoli aggettivi che la delineavano.
Quello che c'era in lei non si può definire con una consueta, misera,
parola di sei lettere; lei era "diversa", la sua natura si innalzava
al di sopra di tutto ciò che è comprensibile alla mente umana
o ricercabile su di un vocabolario.
Ricordo bene il giorno che conobbi Evelyn, ero in giardino quando la vidi
per la prima volta poiché come sempre tra l'ora di matematica e quella
di inglese c'erano quindici minuti di tempo libero per un po' di svago. Me
ne stavo per i fatti miei (non che qualche volta me ne fossi stata per quelli
delle altre) quando vidi un'imponente e lussuosa autovettura varcare il cancello
e soffermarsi proprio di fronte all'ingresso. L'autista aprì una portiera
e aiutò una ragazza a scendere, o almeno credetti che lo fece, poiché
quest'ultima lo scansò irritata mentre lui sbatté la portiera
imprecando un qualcosa che non potei udire. Fu una giovane signora, molto
alta e dall'aspetto austero scesa dalla parte opposta dell'auto, a mettere
pace tra i due. Lo fece senza proferire una singola parola, le bastò
uno sguardo e un cenno con la mano; la sua solennità era tale che quel
solo gesto fu sufficiente a raggelare gli animi bollenti dei due litiganti.
Mi stupì quel singolare comportamento, ero convinta che tutti gli aristocratici
(che lo fossero lo dedussi dallo stemma posto sul cofano della vettura) avessero
l'eguale temperamento di un manichino e che mai e poi mai potessero rendersi
protagonisti di una così spassosa scenetta, o almeno non in pubblico.
La ragazza comunque non perse quell'aria di insopportabile superbia che la
caratterizzò sin dal primo istante e insieme alla donna varcò
l'ingresso.
Non mi domandai cosa un'elegante e raffinata signorina aristocratica ci facesse
in quello stupido e dimenticato da Dio collegio femminile del Nuovo Galles
del Sud, non mi importava affatto; per me non era altro che una sciocca smorfiosetta
in più da odiare.
Detestavo quel posto, venivo da Adelaide io, ci vivevo con i miei genitori
ma quando essi morirono fui affidata alla zia Ghertrude, una grassa e apatica
vecchia tanto amorevole da aver perso nell'arco di un solo anno il marito,
il figlio minore (scappato di casa a soli dodici anni) e quattro canarini.
Il suo incontenibile amore per me la spinse ad assumermi come sguattera prima,
e successivamente a scaricarmi in questo raffinato circolo di ragazzette snob,
patetiche e bigotte come la loro esistenza.
Il collegio non era molto grande, saremmo state una quarantina di allieve
in tutto. L'aspetto esteriore era ovviamente molto confortevole e ben curato
poiché il giudizio degli occhi conta ben più di quello della
mente, tuttavia ciò che v'era al suo interno era privo di importanza,
come lo era il marcio che si insinuava nelle interiora di tutte quelle streghe.
La strega superiore era la direttrice, Mrs.Flynn che avevo soprannominato
"Terra del fuoco" per il suo ineguagliabile calore umano. Sua consulente
e complice era Miss Jackson, l'insegnante di inglese, una zitella isterica
la cui frase preferita era -Yvette, se non impari a comportarti come si deve
ti sbatto dalla direttrice-.
Va detto che quel -comportarti come si deve- significava comportarsi come
loro, quindi la maggior parte del tempo la passavo in un angolo dell'ufficio
della strega superiore.
Sulle mie compagne non ho intenzione di spendere una parola di più,
riferire che le ignoravo allo stesso modo con cui loro snobbavano me mi sembra
più che sufficiente.
Quello stesso giorno, prima dell'inizio della lezione di storia, qualcuno
bussò alla porta dell'aula; era "Terra del fuoco" che teneva
fieramente per mano la ragazza vista prima. La presentò alla classe
con il nome di Evelyn, disse che veniva da molto lontano e che il nome della
sua famiglia era tra i più importanti ma non ne specificò né
il Paese, né la famiglia di provenienza. Tutti da allora la conoscemmo
semplicemente come Evelyn.
Alzai lo sguardo dal mio taccuino degli scarabocchi e la osservai meglio di
quanto avevo fatto precedentemente; elegante lo era di sicuro, il suo portamento
e gli abiti sontuosi, ma pensai che non fosse un granché in quanto
a bellezza; era poco più alta di me ma decisamente più in carne,
le labbra e gli occhi grandi, due guance pienotte di bambina e i capelli di
un castano ramato. Il tutto dava l'aspetto di una giovane viziata in piena
salute fisica ed economica.
Squadrava con gli occhi tutta la classe, forse per accertarsi che fosse di
suo pieno gradimento, poi incrociò il mio sguardo. Mi fissò
per un istante con un ironico sorrisetto stampato sulle labbra.
V'era un banco vuoto accanto al mio, e uno vuoto nella fila alla mia destra;
quando l'insegnante le disse di scegliersi un posto si avvicinò a me
con fare sinuoso, ma infine si sedette a quell'altro, quello alla mia destra
e, senza che io facessi nulla contro di lei, mi aggredì con un' insolente
linguaccia.
Non mi irritò quel suo comportamento, ma mi stupì, eccome, vedermi
data tutta quella confidenza da una persona di quel genere. Di solito le mie
compagne, visti i miei abiti semplici e i miei modi "rozzi" mi evitavano
come la peste.
E infatti per tutto il resto della giornata non mi diede alcun segno di considerazione,
ma la osservai attentamente; osservai tutti i suoi gesti, i movimenti, mi
incuriosiva il suo modo assente e distaccato di stare con le altre compagne.
Le trattava come se nessuna di loro fosse alla sua altezza, si burlava dell'ammirazione
che suscitava ai loro occhi, le snobbava squadrandole tutte dall'alto al basso
con indifferenza mentre la circondavano di attenzioni e gesti cortesi per
attirare (invano) la sua simpatia, elogiandone la bellezza e l'eleganza.
Quale singolare sensazione di piacere mi dava l'osservare l'aria smarrita
e umiliata di quelle smorfiose ogni volta che ella torceva il naso stizzita,
quale sensazione di profondo godimento nel vederle trattate come loro avevano
sempre trattato me.
Il mattino dopo, durante l'ora
di musica, dovevamo provare i pezzi da suonare al saggio; l'insegnante avrebbe
poi dovuto eleggere la migliore per il gran finale. Non v'era naturalmente
alcun dubbio su chi sarebbe caduta la sua scelta: la giovane Sheryl, figlia
di un importante diplomatico inglese, deliziosa come il deserto nell'ora di
punta, era certamente la migliore. Stava esibendosi con il suo pezzo sotto
gli occhi della professoressa in delirio mistico, quando proprio di fronte
a me all'improvviso apparve lei, Evelyn, col suo solito sorrisetto ironico
e la sua aria da superba canaglia. Mi osservò per tutto il tempo e
quando i miei occhi sfuggivano alla sua vista veniva a cercarli insistentemente.
Finita la sua esibizione, Sheryl venne sommersa dai soliti applausi e complimenti;
fu allora che Evelyn mostrò le sue prime singolarità. Non solo
non applaudì affatto, ma sembrò addirittura seccata da tutto
quell'entusiasmo nei confronti di Sheryl. Il suo viso si contorse in una smorfia
di irritazione e rabbia trattenuta a stento, si recò di fronte all'insegnante
insinuando di non capire tutto quell'entusiasmo e di poter fare -dieci, venti,cento
volte meglio di lei- Improvvisamente il sangue raggelò nelle nostre
vene, non appena la professoressa la incitò con un -vediamo allora
cosa sai fare- ella si avvicinò al pianoforte scansando violentemente
Sheryl con una sola mano, si sedette sullo sgabello, chiuse gli occhi e senza
neanche sgranchirsi le dita incominciò a suonare la melodia più
incredibile che avessimo mai sentito. Non apparteneva a nessun compositore
conosciuto, sembrava anzi l'avesse composta ella stessa data la tale confidenza
che ne aveva. Con gli occhi perennemente chiusi, le sue mani scorrevano sui
tasti lievemente e velocemente, quasi fossero le dita stesse ad emettere quelle
incantevoli note. I miei occhi si imperlarono di lacrime, quella melodia aveva
ipnotizzato tutte quante, perfino il pianoforte stesso sembrava esserne soggiogato.
Quando la musica terminò eravamo così assorte e magicamente
rapite che in un primo istante non ce ne accorgemmo nemmeno, fu l'applauso
di Miss Jackson, attratta dalle note come un topo dal piffero, a farci ritornare
con i piedi a terra e scatenando un entusiasmo generale nei riguardi di Evelyn.
Fu naturalmente scelta lei per il gran finale del saggio; Sheryl era già
stata gettata nel dimenticatoio.
Quel giorno, nell'ora di educazione artistica iniziammo lo studio del ritratto
della figura umana, ebbimo quindi il compito di sceglierci una compagna come
modella. Per quel che mi riguarda, io non dovetti fare alcuna scelta poiché
fu lei a scegliere me. Lo fece con un profondo e doloroso pizzicotto ben assestato
sul mio braccio. Mi voltai irritata, era ovviamente Evelyn che mi fissava
con quei suoi occhioni grigi da bambolina ingenua. Mi chiese di ritrarla e
io inconsciamente obbedii.
Ero ormai troppo incuriosita e affascinata dai suoi modi, volevo conoscere
chi fosse veramente.
Si sistemò comodamente su una poltroncina; in quel momento non fui
più così sicura di riuscire a ritrarla, così particolare,
misteriosa, terribilmente a suo agio, e io nervosa, insicura. Mi chiese di
iniziare, lo feci, ma stranamente non appena posai il carboncino sulla tela
la mia mano sembrò proseguire da sola, non ero io a muoverla, ne ero
certa, io non avevo mai disegnato così bene.
Il suo volto era radioso, la stoffa della divisa copriva parti del suo corpo
che gli insolenti raggi del sole adagiati sulla sua candida pelle cercavano
di accarezzare. Solo allora, poco a poco, mi resi conto di quanto fosse straordinariamente
bella; la mia mano indugiò sui suoi occhi perlati, incorniciati da
sottili sopracciglia di velluto, le labbra carnose, perfette, morbidamente
adagiate sul viso aggraziato, guance lisce, soffici, impreziosite da due fossette
infantili e birichine. Il corpo morbido, molto femminile, già maturo
per una ragazza di quindici anni.
Quando terminai osservai bene il ritratto; era perfetto nelle linee, nei colori,
nelle sfumature
semplicemente perfetto.
Quella fu la prima volta che mi guadagnai davvero un bel voto, chiesi ad Evelyn
di poter appendere il ritratto nella mia stanza ed ella acconsentì.
Dopo di allora passammo molto tempo insieme, cambiò perfino di posto
e si spostò nel banco accanto al mio.
Divenimmo inseparabili, non c'era nulla che facessi senza di lei, fingevamo
di studiare, giocavamo a rincorrerci, all'inizio prendevamo in giro le smorfiose
delle nostre compagne e lei molte volte si lasciava andare in pesanti commenti,
anche molto più perfidi dei miei. Poi ci rendemmo conto che Noi eravamo
molto superiori a loro, quindi decidemmo di ignorarle completamente.
A volte, nei rari momenti di libera uscita in cui potevamo recarci fino in
città, mi spingeva verso strane bancarelle di vecchi libri e ne acquistava
uno. Sapeva sempre con certezza quale scegliere, comprava solo libri "proibiti",
sensuali e molto espliciti verso certi argomenti. Poi la sera, quando tutti
dormivano, sgattaiolava fuori dalla sua stanza, si infilava sotto le mie coperte
e me li leggeva. Leggeva bene quel genere di storie, senza imbarazzo, ma anzi
con molta malizia ed eccitazione.
Parlavamo molto, di ogni sorta di argomento e nonostante avesse la mia stessa
età sembrava molto esperta, vissuta. Mi raccontava di posti lontani,
culture miliari e misteriose, uomini affascinanti e donne bellissime. E mi
parlava del potere del Fascino, un potere che poche persone possiedono, ma
che è molto forte. -Il vero potere sta nel Fascino- mi diceva, e io
rimanevo incantata mentre l'ascoltavo, le chiedevo sempre se l'avesse incontrato,
se avesse avuto modo di vedere il Fascino, ma a queste mie insistenti domande
ella rispondeva vagamente con malinconia.
Diceva di averlo incontrato tempo prima, prima ancora dell'inizio della Guerra
e che ne era stata vittima poiché nulla è più attraente
e maledettamente ingannevole del Fascino. Mi sentivo come una bambina nei
suoi confronti, volevo sapere tutto e subito, volevo che mi descrivesse il
Fascino, volevo conoscerlo anch'io.
Un giorno, stanca delle sue continue divagazioni, dissi di voler incontrare
il potere del Fascino come aveva fatto lei; fu allora che per la prima volta
mi cinse a sé con fare sinuoso e accarezzandomi il viso disse:
-Tu vaneggi. Non sai di che parli. Verrà il momento in cui lo conoscerai,
amore mio, e capirai così come ho capito io. L'amore conosce le vie
più misteriose, anche le più infide. Quando lo incontrerai capirai
e allora sarà troppo tardi, mi apparterrai. Non sarai più tua,
come io non sono più mia-.
Mi incuriosivano questi suoi discorsi, mi incantavano, anche se allo stesso
tempo lei mi faceva paura. Mi faceva paura la sua stretta possente, il suo
sguardo stranito e ammaliante. Come avevo paura dei suoi baci.
Se, come prima ho detto, con lei potevo parlare di qualsiasi argomento, le
sue origini e la sua famiglia erano fuori discussione. Una delle tante cose
che avevamo in comune era l'assoluta solitudine a cui le nostre famiglie ci
avevano abbandonato, non ho mai più visto quell'austera signora che
l'aveva accompagnata, ed ero certa che lei non ne volesse parlare, cambiava
sempre discorso quando cercavo di fare delle domande e allora, un po' scocciata
e delusa, mi mettevo a pettinarle i capelli. Era un piacere per me accarezzare
quelle soffici ciocche di seta, leggermente mosse, un po' selvagge ma allo
stesso tempo tanto raffinate da poter essere raccolte in qualsiasi tipo di
acconciatura senza che facessero una bizza.
Spesso giocavamo a fare le principesse, mi prestava i suoi abiti più
belli e i gioielli, sapeva truccarsi con cura come le dame dei ricchi salotti
francesi. Si comportava come una giovane donna, sensuale, attraente, di una
bellezza infantile e torbida al medesimo tempo.
Lei il Fascino lo possedeva di sicuro ed io ne ero ormai soggiogata.
C'era una cosa che alla direttrice
e alle insegnanti preoccupava più del fatto che le allieve non legassero
tra di loro, ed era che le allieve legassero troppo tra di loro. Fu così
che la costante vicinanza e la "profonda, intima, amicizia" tra
me ed Evelyn iniziò ad allarmarle. Cominciarono con il rimproverarci
e stizzirci ogni volta che ci vedevano vicine, praticamente sempre. Io questo
non lo sopportavo, come non lo sopportava Evelyn, mi era impossibile tollerare
che qualcuno potesse anche solo pensare di dividerci. Loro, nessuno al mondo
poteva capire ciò che si era creato tra me e lei. Lei era quella parte
di me che mi era sempre mancata, era il mio tutto, il solo vederla mi faceva
stare bene, mi piaceva ascoltare le sue parole, farmi cullare dalla sua voce,
accarezzare dalle sue mani.
Sentirla cantare era per me la cosa più bella; la notte spesso, sotto
le coperte, mi cantava una vecchia canzone che, diceva, le cantava sempre
la madre, quando era ancora viva. La sua voce era sottile, squillante, sembrava
un angelo. Era il mio angelo e io mi abbandonavo tra le sue braccia e mi addormentavo
serenamente.
La notte facevo spesso sogni strani. Sognavo Evelyn ovviamente, ma tutto era
diverso, particolare.
Lei era diversa.
I suoi occhi emanavano un gelo ardente, focoso, le labbra divenivano rosse,
frementi, affamate di un qualcosa che mi apparteneva. Mi stringeva a sé,
come sempre, ma lo faceva talmente forte da impedirmi qualsiasi movimento.
E mi baciava. Mi baciava la pelle, le labbra, mi cullava teneramente e affabilmente.
Nonostante questo, però, io sentivo dolore, sentivo dolore ad ogni
suo bacio come a quei suoi pizzicotti, la cui abitudine non aveva purtroppo
mai perso. Delle grida si insinuavano nella mia mente trapanandomi i timpani,
erano grida di dolore, di paura. Io avevo paura, non del dolore, bensì
di lei; avevo paura di quello che mi faceva.
Di sogni come questi ne facevo parecchi allora, ed ogni volta al mio risveglio
mi sentivo sempre più debole, confusa, impaurita. Lei continuava a
stringermi, confortarmi, diceva che se le fossi stata vicina presto avrei
conosciuto il potere del Fascino, che avrei dovuto soffrire un po' per questo
ma che solo standole accanto sarei stata meglio. Così, sebbene le forze
stavano pian piano abbandonando il mio corpo, ero felice di averla al mio
fianco, di poterla abbracciare e accarezzare.
Il nostro rapporto era diventato così sincero, profondo e intimo che
a nessuno era permesso intromettersi.
Evelyn era molto gelosa, almeno quanto lo ero io, ma anche molto possessiva.
Guai se qualcuno si fosse avvicinato troppo a me o se io avessi dimostrato
interesse per qualcun altro. Ricordo che il Lunedì passava una specie
di postino che si occupava di portare e ritirare la corrispondenza del collegio.
Un giorno il postino si ammalò e dovette essere sostituito per un po'
di tempo. Lo sostituì un giovane, poco più vecchio di noi, aitante
e molto carino. Mi piacevano i suoi occhi di giada e il ciuffo bruno che incorniciava
il suo viso dai lineamenti delicati. Anche lui sembrò interessarsi
a me poiché miei erano i suoi rari sorrisi e gli inchini.
Evelyn non lo vedeva di buon occhio, anzi, lo squadrava duramente con quegli
occhi che solo nei miei sogni avevo visto prima di allora. Ero sicura che
lo detestasse e ne ebbi la certezza piena quando egli si azzardò ad
omaggiarmi di una delicata rosa rossa scatenando così le sue ire più
furiose. Cacciò il giovane in malo modo, distrusse il fiore calpestandolo
e si allontanò di corsa. La dovetti rincorrere fino alla sua stanza
prima di riuscire a raggiungerla, lì mi aggredì con frasi della
più sfrenata e contorta cattiveria, e altre più confuse che
non riuscii a comprendere come -pensavo che volessi essere solo mia- -se solo
tu mi appartenessi, non ti permetterei di comportarti così- -non incontrerai
mai il potere del Fascino
no, non lo farò, lo terrò solo
per me-
Solo allora mi resi conto di quanto tenesse alla parola "appartenenza",
di quanto volesse qualcosa che fosse veramente ed esclusivamente Suo. E quella
cosa voleva che fossi io. Allora non ci pensai, mi commossi quando ella si
sciolse in calde lacrime di profonda tristezza, mi avvicinai e la strinsi
a me cercando di calmarla e assicurandole che nessuno al mondo per me era
più importante di quanto lo fosse lei e che chiunque altro, compreso
il giovane postino, non contava assolutamente nulla. Si tranquillizzò
e in breve la questione era fu dimenticata.
Quella notte, però, accadde qualcosa che non potrò mai scordare.
Dormivo sola, profondamente, poiché non sempre Evelyn riusciva a venire
da me, soprattutto quando di guardia notturna c'era la direttrice.
Stranamente, per la prima volta dopo molto tempo, non sognai Evelyn, bensì
il mio bel giovane. Era proprio bello in quella divisa che lasciava trasparire
le forme del corpo di un giovane uomo fatto. Mi sorrise e mi strinse la mano
tra le sue ma disgraziatamente un urlo lacerante proveniente dal più
profondo del suo petto gli contorse il viso e lo vidi cadere ginocchioni,
ansimante. Con una mano premeva su un lato del collo a causa del forte dolore
e quando la tolse una gran quantità di sangue scorse fuori dalla sua
carne lacerata fino a formare una pozzanghera sul pavimento. Gli occhi e la
bocca erano egualmente spalancati per la paura e l'orrore, pianse disperatamente
e affannosamente come un bambino terrorizzato, allungò un braccio verso
di me invocando il mio nome e implorandomi di aiutarlo, poi cadde a terra
disteso e non si mosse più. Dietro di lui Evelyn mi osservava con il
suo sguardo algido e le labbra grondanti di sangue ancora caldo. Mi svegliai
di soprassalto. La paura mi immobilizzava, di fronte a me il ritratto di Evelyn
mi osservava con quegli stessi occhi freddi e scrutatori.
Allora mi resi conto di cosa avevo fatto: non avevo dipinto lei, avevo dipinto
il suo sguardo, quello sguardo che non mi avrebbe mai più abbandonata.
Il mattino seguente una terribile notizia investì il collegio, il giovane
Russel, sostituto del postino, era tragicamente morto la notte precedente.
Sussultai. -Assassinato- fu la parola che il mio corpo, già da troppo
tempo indebolito, non riuscì a reggere facendomi cadere a terra priva
di sensi.
Quando rinvenni mi trovavo nell'aula-infermeria ed Evelyn era con me, mi accarezzava
la testa dicendomi che sarebbe andato tutto bene. Quell'angelo meraviglioso
sapeva come confortarmi e farmi stare bene; in quel momento mi resi conto
che nulla avrebbe potuto separarmi da lei poiché Noi eravamo ormai
parte l'una dell'altra, eravamo una cosa sola.
Presto avrei conosciuto il potere del Fascino, ne ero sicura.
Come quasi sempre faceva, anche quella stessa notte venne a tenermi compagnia,
si infilò nel mio letto e mi cinse tra le sue braccia. Sapeva che le
forze mi venivano a mancare sempre più e lei aveva iniziato a starmi
ancora più vicina e a rassicurarmi. Mi baciò la fronte e prese
a leggermi uno dei suoi meravigliosi libri sensuali come tanto amava fare
e che io tanto amavo ascoltare.
Ma il destino sa essere crudele e beffardo; la porta si spalancò improvvisamente
e i nostri occhi incrociarono quelli incolleriti e straniti della direttrice.
Miss Jackson stava dietro di lei ed entrambe ci osservarono stupefatte e sconvolte.
La direttrice cinse la povera Evelyn per un braccio scaraventandola giù
dal letto, raccolse il libro che era caduto a terra e ne lesse delle righe.
Dovette aver letto proprio quelle più esplicite poiché si fece
rossa in volto come mai l'avevo vista prima e iniziò a stracciarlo
furiosamente definendolo "osceno e blasfemo, proprio come noi",
poi scagliò la sua ira contro di me colpendomi la schiena col suo frustino
mentre Miss Jackson trascinava Evelyn nella sua stanza per i capelli.
Ricordo quel momento come il più disperato della mia vita; piangevo,
urlavo e mi dimenavo, la direttrice sequestrò tutti il libri, gli oggetti
che Evelyn mi aveva regalato e perfino il suo ritratto, dicendomi che sarebbe
stato meglio per me se l'avessi dimenticata per sempre. Uscì infine
chiudendo la porta a chiave e lasciandomi a terra, devastata dal dolore e
dalla paura di perdere il mio amore.
Stetti per un'intera settimana là dentro, senza parlare con nessuno
e senza sapere come stesse Evelyn, poverina, la immaginavo nella mie stesse
condizioni, piangente, disperata. Soltanto che le mie condizioni peggioravano
di giorno in giorno. Avevo sentito parlare di una strana malattia una volta,
la Consunzione; non sapevo bene di cosa si trattasse ma ero sicura di esserne
affetta.
Una sera, durante una delle mie solite crisi di pianto, vidi Evelyn. Non era
frutto della mia immaginazione, era proprio lei. Stava lì, in piedi,
bellissima come sempre ma con un alone di infinita tristezza che la devastava.
Non mi chiesi come avesse potuto entrare, non mi importava, lei era lì
con me in quel momento, e stavo bene perché ci amavamo come nessun'altro
essere al mondo poteva amare.
Si avvicinò al mio letto intonando quella meravigliosa canzone che
tanta pace e serenità mi donava. Avvicinò il viso al mio accarezzandomi
i capelli, la pelle e asciugandomi le lacrime, ero quasi completamente sopita
quando un forte, insostenibile dolore si espanse per tutto il mio corpo. Era
come se due aghi affilati mi penetrassero profondamente la carne. Non potei
evitare di urlare con tutte le mie forze poiché la voce uscì
dalla mia gola senza che me ne accorgessi.
Udii il rumore della chiave che veniva inserita nella serratura e in quel
momento Evelyn si allontanò da me, aveva l'aria impaurita, forse tanto
quanto la mia, mi fissava con il gelo di quei suoi splendidi occhi e con le
labbra grondanti di sangue.
Il mio sangue.
In quel momento la direttrice irruppe nella stanza con gli occhi spalancati
per il terrore, un terrore che non si placò di certo alla vista del
mio aspetto. Ordinò infatti di chiamare immediatamente un medico, incurante
di tutto mi voltai verso Evelyn, la mia cara, dolce, amabile Evelyn. Nessuno
si era accorto della sua presenza, solo io potevo vederla.
Solo io potei salutarla per l'ultima volta.
Il medico arrivò e mi visitò, per la prima volta vidi le streghe
preoccuparsi seriamente per me. Già alcune morti erano state registrate
negli ultimi tempi nelle zone vicine e i più orribili sospetti si insinuarono
nelle loro menti, il pericolo per loro era uno solo e il più terribile:
Spagnola.
Il collegio fu fatto prontamente evacuare per evitare qualsiasi contagio ed
io fui ricondotta dalla zia Ghertrude che mi fece rinchiudere subito in un
ospedale.
Passai dei momenti di terribile sconforto e angoscia vittima della mia profonda
solitudine ma non appena i medici scongiurarono i loro sospetti e si resero
conto che la mia salute fisica mostrava deboli segni di ripresa, fui congedata
e potei tornare a casa.
Non tornai al collegio ma volli a tutti i costi cercare Evelyn. Chiesi alla
direttrice, a Miss Jackson e alle altre insegnanti, nessuna di loro seppe
darmi informazioni; dopo quella notte nessuno l'aveva più vista e nel
registro del collegio non risultava nessuna iscrizione a nome di Evelyn.
Era sparita nel nulla così come vi era apparsa.
Non la rividi mai più ma anche ora, a distanza di quasi dieci anni,
non posso fare a meno di scrivere di lei. Non c'è un solo particolare
di lei che non ricordi.
Ora so cos'è il potere del Fascino, ne sono perfettamente consapevole,
come lo sono del fatto che sono stata vicina a conoscerlo più di qualunque
altro essere umano. So quali sono le sue sfaccettature, anche quelle più
infide, come mi fu detto.
Anche ora, guardando negli occhi della mia piccola, so che il Fascino un giorno
potrebbe tradire lei come chiunque altro.
E la notte, mentre dormo tra le braccia del mio amato James posso ancora sentire
la sottile, acuta voce del mio angelo spandersi per tutta la casa e con un
brivido ripenso a quello sguardo di ardente gelo chiuso in soffitta che aspetta
solo di essere di nuovo osservato.