NASCERE IN UN
OSPEDALE DI GUERRA
La
quotidianità di un ospedale in zona di guerra, il centro
chirurgico di Emergency a Lashkargha (Afghanistan sud occidentale),
è affidata alla radio: è la voce che ti riporta
immediatamente alla realtà dei fatti ogni qual volta comincia a
gracchiare. I feriti arrivano uno dopo l’altro al cancello
dell’ospedale, vengono ammessi nel pronto soccorso (OPD) e da quel
momento il loro destino viaggia attraverso le voci delle radio.
Al
medico
di
guardia
e
all’infermiere
responsabile viene comunicato
l’arrivo del paziente e la tipologia delle ferite riportate (mina,
bomba, pallottola, incidente stradale o altro), i parametri vitali, lo
stato di coscienza ed altri dati utili a chi è in ascolto (non
si fanno mai nomi).
Le
varie figure
professionali (Infermieri, chirurghi, anestesisti, logisti, ecc) che
ascoltano le comunicazioni via radio, hanno ognuno
un compito ben preciso nell’organizzare il tutto al meglio,
perché il ferito possa essere visitato, eseguire esami ematici e
radiografici ed entrare in sala operatoria nel più breve tempo
possibile, per ricevere le cure necessarie.
Ogni giorno
riceviamo
molti
feriti
da
mine
e proiettili. I feriti da mina sono i
più brutti da trattare ma, anche se la cosa
sembrerà un po’ cinica, sono anche i più “semplici”,
perché i danni che le mine provocano, soprattutto se trattasi
di semplici ordigni esplosivi, sono
sempre
drammaticamente
ben
evidenti
e
visibili e, a volte talmente
devastanti, che quello che rimane da fare è
veramente poco: amputare e lottare contro le infezioni nei giorni a
seguire.
Diverso
è, invece, l’approccio al ferito da mina a deframmentazione, con
schegge perforanti lanciate al momento dell’esplosione ad altissima
velocità tutto intorno che penetrano il ferito comportandosi
come veri e propri proiettili.
Le
ferite da
proiettile o scheggia sono le
più difficili e subdole da trattare. A volte
è ben evidente il punto dove il proiettile
(o scheggia) è entrato (Inlet), ma non si hanno riferimenti su
dove sia il punto di uscita (Outlet) e se
l’outlet manca, non si sa dove sia andato a finire
il proiettile (almeno fino alla prima radiografia eseguita in urgenza),
e soprattutto quali danni abbia provocato all’interno.
Se i
danni sono
vascolari, la situazione si aggrava notevolmente. Si
agisce
in
urgenza
poiché
il
paziente rischia di perdere un
braccio, una gamba oppure di morire, semplicemente
perché si è impiegato troppo tempo a portarlo in sala
operatoria e a prepararlo, mentre si cercava di trovare la lesione
vascolare e contenere la perdite ematiche, cercando di prevenire la
sindrome dei compartimenti muscolari (Compartment syndrome).
E’ la
radio che
scandisce i tempi di questa lista interminabile di persone che soffrono
sulla loro pelle il ritmo della guerra.
Ogni
tanto succede anche qualcosa di bello, e meno male, così almeno
teniamo su il morale nostro e del personale afgano e ci gratifichiamo
per la nostra scelta di essere qui, sottraendo tempo alle nostre
famiglie.
Due giorni fa
la radio ha cominciato a gracchiare i dati di un nuovo ferito:
“…..female…., 30 years old…, Bullet injury to the abdomen……vital signs
stable….”. Abbiamo
ricevuto
una
ragazza
di
trenta
anni (almeno così lei dice,
qualcun altro dice venti) con una ferita da pallottola penetrante
nell’addome, incinta di otto mesi.
Il
medico di
turno si è subito attivato con una ecografia per avere
informazioni sulle condizioni del feto, una radiografia (succede anche
di fare una radiografia ad una donna incinta in questi contesti) ed
abbiamo portato la futura mamma in sala operatoria appena possibile.
Fortunatamente durante la laparotomia è andato tutto bene.
La donna
presentava un paio di lesioni perforanti al Colon trasverso,
che sono state riparate dal chirurgo, il quale ha
anche
provveduto a rimuovere il proiettile nell’addome arrivato a cinque
centimetri dall’utero con il feto dentro. A turno, gli strumentisti di
sala operatoria, si sono presi l’incarico di sostenere l’utero, mentre
il chirurgo operava. Le perdite ematiche sono state contenute ed
abbiamo trasfuso il sangue necessario, prima di risvegliare la
donna.
Trasferita
in ICU
(Terapia Intensiva), la ragazza il giorno dopo ha deciso che era il
momento di partorire. In quel momento abbiamo
contattato una ginecologa afgana e ci siamo preoccupati di garantire
che ci fossero solo donne presenti all’evento.
La
mia
preoccupazione,
dietro
la
porta
della terapia intensiva, era
evidente: temevo che i punti ed i drenaggi della
laparotomia del gioo prima, non reggessero alla pressione di un parto
spontaneo.
Tutto
è
andato per il meglio, in poco tempo è nata una bella bimba che
sta bene, anche se sia la madre (Shirina) che il padre non l’hanno
accolta proprio con dei grandi festeggiamenti. Ma la cultura qui
è questa, i maschi producono le femmine no; per il padre credo
che il ragionamento sia stato un po’ più complesso. Il suo
pensiero era rivolto alla madre, intendeva che per una
femmina
non
valeva la pena di mettere a rischio la vita della madre che ha
già altri figli. Resta il fatto che questa è la loro
cultura e noi non abbiamo il diritto di interferire.
Come da
tradizione in questo paese, non ci hanno comunicato il nome della
bimba. Qui si usa sceglierlo dopo qualche giorno dalla nascita, è
difficile
trovare
un
nome
ad
un bambino che ha una bassa
probabilità di sopravvivenza in un paese come l’Afghanistan;
meglio aspettare, se sopravvive il nome si troverà. La mamma ha
chiesto ad uno dei nostri infermieri di scegliere il nome, ma è
troppa la responsabilità, già aver visto nascere questa
bambina è una grossa gratificazione.
Adesso
la
bambina “senza nome” riposa tranquilla vicino alla mamma, ricoverata in
uno dei reparti del centro chirurgico di Emergency. Il proiettile che
le ha fatto compagnia per qualche ora riposa anche lui in una busta
spillata sulla cartella clinica, il loro incontro per questa volta non
ci sarà.
P.S.
alcuni
giorni dopo la mamma si è presentata al controllo e ci ha detto
che il nome della bambina è stato scelto, sarà Shamsja
(che pare in Pastho significi Luna)
Massimo Spalluto
Emergency O.T. Nurse
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