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L'OCCHIO FOTOGRAFICO DI KATRIN SCHLÄFKE, SEMPRE CONTEMPORANEO ALLO SPIRITO DEL NOSTRO TEMPO
Vedere e udire la realtà: da qui la sveva Katrin Schläfke, 33 anni, laurea in lingua e lettere scandinave, soavemente ridente, come la Lalage di Orazio, alimenta l'occhio suo fotografico a cui ha chiesto, ottenendone ubbidienza, l'impossibile possibilità di catturare non le cose, ma l'anima delle cose. E perciò questo suo occhio fotografico, che, come quello fisiologico, sbatte le palpebre, urtato dal mare dell'oggettività, la Katrin lo fa ondulare tra il passato, che resta, e il presente, che stenta a divenire, della Calabria. Non il tempo assoluto, ma il tempo relativo scorre, trascorre e mai spiana le rughe della storia, che han debito di scioglimento nella realtà, non nella bellezza estetica ed estatica. E non è, dunque, un paesaggio del cuore, rinfocolante estetismi cinici, ma il paesaggio della storia, non riluttante al discorso d'idee, che l'artista sveva racconta con le sue episodiche pagine fotografiche, destinate a farsi romanzo del popolo in fuga, di questo popolo calabrese, che dietro di sé ha lasciato attive civiltà materiali e la speranza di risurrezione, che mai è morta, che non muore mai. Romanzo, però, aperto, come vuole e quasi pretende quel suo dialetico occhio fotografico su cui non cala impenitente la caterratta. Ha un inizio, ma non corre verso la fine e non istiga conclusione il romanzo fotografico della Katrin. Procede della Calabria archeologica, da castelli e resti di castelli, da monumenti e resti di monumenti, e poi tutta questa ossatura, gloriosa di sé, trapassa nella carnalità pervicace della sopravissuta e sopravvivente civiltà contadina, insediata nei luoghi storici della umana fatica alla quale fa corona di civiltà cristiana l'inverato irenismo agreste della mucca alle cui mammelle strappano vita piccoli maiali. Nulla. Però, avvolge l'occhio fotografico della Katrin nella voglia di nostalgia regressiva. La voglia, semmai, è quella di correre verso la Calabria contemporanea, segnalata e simboleggiata, oltre tutto, nei suoi mercati ove mare e terra, serrati dalla religione del lavoro ancora irredento, diffondono i prodotti del loro grembo non riottoso. Dove vada questa Calabria contemporanea, dove e verso dove si svolgano i suoi paesi - da Scilla a Bagaladi -, non tocca all'occhio fotografico dirlo. O meglio l'occhio fotografico della Katrin potrebbe dirlo a patto che si trasformasse in occhio visionario. Ma sarebbe come domandargli di uscire dalle orbite, cioè dalle coordinate della storia. La Katrin non è capace di questo. È stata, però, capace con le sue smaglianti immagini fotografiche a colori - splendidi del colore onnilaterale della storia - di liberare la Calabria di tutto il nero luttuoso, che una infingarda e strumentale letteratura della menzogna e della conservazione la ha scaricato addosso. Non è poco. Anzi, è molto. Vuol dire che la sveva Katrin ha la testa alta, originale e che per questo suo occhio fotografico attinge l'arte il cui proprio consiste nell'autonomia dal contesto, pur muovendo dal contesto. Tale è il segno numinoso - silegga: numinoso - del katriniano occhio fotografico, sempre contemporaneo alla nostra epoca, sempre, insomma, capace di vedere e sentire. Di vedere oltre la siepe - il movimento nella fissità. Di sentire oltre la monotonia - la vita nuova nelle cariatidi che trasmettono le loro investiture di morte. Sono miracoli che l'occhio fotografico, nonostante la sua proclività a fissare e a registrare, alleva quando si possiede un cuore, quando si ha la Calabria dentro il cuore. Questo cuore la sveva Katrin lo ha davvero grande e dei suoi palpiti ha fatto palpitare l'occhio fotografico, che per definizione non palpita mai, che, essendo per lo più meccanico, coglie l'attimo fuggente e ne fa foglia secca. Non coglie il battito della storia per farne un momento inalterabile di quel processo incancellabile, che si chiama eternità. Cioè, poesia. Katrin ci è riuscita.
Pasquino Crupi
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