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Ermes Dorigo nato a Forni di Sopra il 18/7/47, residente a Tolmezzo (UD) docente di italiano  alle superiori e Supervisore alla SSIS dell'Università di Udine; pubblicista, scrittore, poeta, saggista: notizie più dettagliate nel  sito web personale: space.tin.it/clubnet/ermesdor

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Ermes Dorigo 

Dal sarcasmo all'antifrasi ironica
Una lettura de "Il risorgimento" di Giacomo Leopardi

 

La lirica Il risorgimento del 1828, con la quale Leopardi segnala il ritorno dell'ispirazione poetica dopo alcuni anni di quasi totale silenzio, è citata solitamente dai critici con un certo frettoloso fastidio e imbarazzato conformismo - canzonetta arcadica, versi metastasiani, parodia autoironica del suo giovanile sogno classicistico -, come necessario, ma intrusivo e intrigante, dato cronachistico, considerandola quasi un prodotto metereopatico in relazione al mite clima pisano che avrebbe rinvigorito il fisico e rinnovato la inaridita facoltà poetica, e non come un testo poetico mirato e programmatico, e, come tale, ad alta intensità semantica. 
Nemmeno il sospetto che, alla ripresa della calcolatissima costruzione del proprio io poetico, tale lirica costituisca la prima e vera autodefinizione della sua poetica matura, che non rinnega la produzione precedente, ma traduce in linguaggio poetico le enunciazioni teoriche o le meditazioni prosastiche degli anni 1818-1824, facendo risaltare con la scelta provocatoria del metro sia la sua estraneità e il suo anacronismo rispetto al suo tempo, sia le sue posizioni ideologiche antitetiche allo spiritualismo e al moderatismo cattolico - i 'vecchi credenti'-, parodiando, con fine ironia, colui che di questa egemone corrente di pensiero era divenuto ormai il maggiore e consacrato esponente, cioè il Manzoni: una rentrée, insomma, in forma di giullarata o, se si vuole, di bachtiniano carnevalesco, per infrangere quella sorta di cordone sanitario-ideologico steso intorno a lui dai suoi oppositori e denigratori: l'esecrato autore di "malefici libricciuoli" è ' risorto', più vivo che mai. 
Non sono molto affidabili i suoi giudizi positivi sul Manzoni, conosciuto a Firenze in una serata organizzata da Vieusseux in onore dello scrittore, espressi in alcune lettere (nell'Epistolario appare come reticente, riservato, in sintonia con le aspettative del destinatario, non per piaggeria o ipocrisia, ma come il bambino che ha paura di ferire e perdere l'affetto delle persone da cui lo desidererebbe: lettere per lo più mascherate, insomma, più che rivelatrici): non quello espresso al padre nel giugno 1828: "Ho piacere che Ella abbia veduto e gustato Il Romanzo cristiano del Manzoni. E' veramente una bell'opera; e Manzoni è un bellissimo animo e un caro uomo"; né quelli, in parte concordanti, espressi nel febbraio di quello stesso anno, pur con delle riserve, al conte Antonio Papadopoli: " Ho veduto il romanzo del Manzoni, il quale, non ostante molti difetti, mi piace assai, ed è certamente opera di un grande ingegno; e tale ho conosciuto il Manzoni in parecchi colloqui che ho avuto seco a Firenze. E' un uomo veramente amabile e rispettabile", e allo Stella nel settembre 1827:"uomo pieno di amabilità e degno della sua fama". Infatti al Brighenti scrive: "Hai veduto il suo romanzo che fa tanto romore, e val tanto poco?"; tant'è vero che , scrivendo da Firenze nel giugno 1830 al fratello Pier Francesco, dichiara: "E' vero che io aveva già i suoi Inni (probabilmente una copia inviatagli dal padre e da lui ristampata in occasione di una monacazione e prefata con allusioni pesanti al figlio:" mascherata empietà", "sordide bassezze della errore"): ho ancora e porterò costì tutte le altre sue opere, fuori del Romanzo". Un giudizio, a Monaldo, poco credibile; limitativo quello al conte ; diplomatico quello allo Stella: è certo che gli piace più l'uomo che il romanzo e il cristianesimo metastorico che lo pervade. 
Non c'è, dunque, sempre una coincidenza tra l'elaborazione poetica e i pensieri espressi nelle lettere e anche nello Zibaldone; ad esempio, per tornare a Il risorgimento, in un appunto del 19 gennaio 1828 a Pisa scrive: "Memorie della mia vita. La privazione di ogni speranza, succeduta al mio primo ingresso nel mondo, appoco appoco fu causa di spegnere in me quasi ogni desiderio. Ora, per le circostanze mutate, risorta la speranza, io mi trovo nella strana situazione di aver molta più speranza che desiderio; e più speranze che desiderii ec.", mentre nella lirica 'risorgimentale' di pochi mesi dopo affermerà esattamente il contrario.
Il cosiddetto "silenzio poetico" è in realtà sapientemente scandito e intervallato: nell'agosto 1824 scrive il Coro di morti del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, nel pieno fervore della scrittura delle prime venti Operette morali e a ridosso della lirica Alla sua donna del settembre 1823, che concludeva - ma nella edizione Starita del 1835 la conclusione-palingenesi sarà affidata al Consalvo - il tormentato itinerario poetico giovanile, ancorandosi all'illusione, artificiale non naturale, della donna-ideale, alla donna che non si trova, supremo miraggio e interiore forza e coraggio per reggere il viaggio nel nulla che stava compiendo; nulla, figurato nel Coro citato. Del 1826 è l'amara e desolata epistola in versi al conte Carlo Pepoli, che pare una dichiarazione di resa alla "poesia sentimentale" dell'arido vero e alla "noia immortale"; pare, perché essa è tale sul piano razionale del logos, non per il mythos, per il cuore, sorretto, fra "cotanto dolore" dall'invenzione della "cara beltà", alla quale solamente "pensando/ a palpitar mi sveglio". Il 'risorgimento' ha, dunque, un suo sotterraneo retroterra, cova come la brace sotto la cenere dell'impegno razionale ed editoriale per le Operette morali, che vedono la luce nel 1827 insieme ai Promessi sposi di Alessandro Manzoni, che nell'Italia cattolica vince nettamente il confronto con grande sconforto di Leopardi che, da persona per nulla indulgente e autocommiserante da arrendersi facilmente, prepara, nella forma a lui più congeniale, una rivincita sottilmente polemica ed un risarcimento psicologico, che rinvigorisca la coscienza di sé e l'accettazione piena della sua posizione storico-letteraria, dissolvendo il vitreo o 'lunare' sarcasmo delle Operette, sintetizzato poeticamente in Al conte Carlo Pepoli - che agisce da prolettico ossimoro ideologico su Il Risorgimento (si veda il rimando tra le due dei "dolci inganni",v. 123 e v.110), così come a Silvia si pone come analettico ossimoro metrico su un piano di continuità tematica (soprattutto quella della "speme") -, e dissolvendolo in palpitante ironico leggero canto. 
Dal 7 al 13 aprile 1828 compone Il risorgimento, venti strofette di otto settenari, e subito a ridosso, dal 19 al 20 aprile, a Silvia, che "segna il passaggio dalle canzoni della prima maniera a quelle della seconda" (Chiarini). Sembrerebbe la storia del dottor Jackill e mister Hyde, e invece si registra questa dissonanza con pedissequa e notarile diligenza: il passaggio da un metro di maniera ad una rivoluzione metrica, punto d'arrivo dell'incessante sperimentalismo leopardiano, è annotata burocraticamente, quasi in-significante, un inutile ingombro nella stereotipia che etichetterà i canti pisano-recanatesi, nonostante la netta opposizione del poeta, come "grandi idilli".
Un sospetto 'metrico', per analogiche consonanze, poteva almeno essere suscitato dal fatto che le strofe di settenari rinviano al Natale(N), alla Pentecoste(P), al Cinque maggio(CM) e al Coro(ER) della morte di Ermengarda del Manzoni; e 'sospetto' è pure il titolo, sottile canzonatura della Risurrezione dello stesso autore ( "E' risorto") e, sul piano cultural-politico più generale, del Risorgimento - con la 'r' maiuscola - dei moderati e del loro appellarsi non più agli individui, ma alle masse, "leggiadrissima parola moderna." Questo riferimento è antifrastico, fondato su un capovolgimento sistematico dell'ideologia cattolica, a ribadire la sua laicità materialistica e il rifiuto di ogni consolazione fideistica; ed è un ribaltamento insistito, che non rivela solo una reazione alla psicologica paura edipica di castrazione (pensiamo alle pressioni perché ritornasse sulla retta via e ai colpi bassi del padre, che culmineranno nei Dialoghetti delle cose occorrenti nell'anno 1831), ma soprattutto una reazione all'immaginario collettivo 'paterno', che lo soffocava, lo emarginava, lo opprimeva col suo infantilismo esorcizzatore del "vero": la sovrapposizione-identificazione tra figura paterna e il suo secolo troverà la sua sintesi nell'hapax legòmenon "pargoleggiare" della Ginestra, che sibila nella sua liquidità come una staffilata indelebile, come giudizio assoluto e definitivo sul padre e sui suoi contemporanei "sonnacchiosi ed egri". 
Proviamo a verificare se la mia ipotesi interpretativa regge, seguendo la lirica nel suo svolgimento e cercando di cogliere i segnali intertestuali antifrastici che essa contiene, a cominciare dalla prima strofa: 

Credei ch'al tutto fossero
in me, sul fior degli anni
mancati i dolci affanni
della mia prima età:
i dolci affanni, i teneri
moti del cor profondo
qualunque cosa al mondo
grato il sentir ci fa.


Osserviamo subito l'iterazione del sintagma ossimoricamente provocatorio "dolci affanni" (vv.3 e 5) - nelle liriche precedenti la parola 'affanno' Leopardi l'aveva utilizzata 21 volte in senso esclusivamente negativo - che richiama, per opposizione, sia "l'ansia/ mente" che i "terrestri ardori", considerati dal Manzoni negativi, di Ermengarda: "Sgombra, o gentil, dall'ansia/ mente i terrestri ardori;/ leva all'Eterno un candido/ pensier d'offerta, e muori:/ fuor della vita è il termine/del lungo tuo martir." Se a questo aggiungiamo che il "risveglio" ha un movimento ascensional-corporale - "i teneri/ moti del cor profondo" -, avvertiamo fin dall'incipit l'intenzione di ribaltare la concezione trascendente, metafisico-escatologica manzoniana per una visione materialistica e terrena: funereo e lugubre, così, diventa il Manzoni che invita alla morte, alla rinuncia alla vita, non il Leopardi che ricerca ed esorta al piacere dei sensi e alla felicità della mente nella vita terrena, unica vita concessa all'uomo dalla natura.
La liquida autoironica ilarità dei primi versi della seconda strofa con quel "querele" (quasi uno sberleffo a chi considerava la sua poesia lamentosa e generata dal suo tetro umor malinconico) che anticipa, fonicamente, le "pupille tenere" del v.57 e le "pupille tremule" del v.133, parodia della "pupilla cerula" di Ermengarda, e quel "sparsi" ("Sparsa le trecce morbide") e il "cor gelato" ("la gelida/fronte") alludono ancora al campo semantico di quel Coro (invece "mancò", "mancar", "irrigidito" rimandano ai versi del Pepoli: "della prima stagione i dolci inganni/ mancàr",122-123, e: "irrigidito e freddo/questo petto sarà", 127-128:

Quante querele e lacrime
sparsi nel novo stato
quando al mio cor gelato
prima il dolor mancò!
Mancàr gli usati palpiti,
L'amor mi venne meno,
e irrigidito il seno
di sospirar cessò!


Negli ultimi due versi l'invito del coro all'eroina a distaccarsi dai desideri terreni e soprattutto dall'amore è capovolto e condensato con una immagine da rigor mortis - "irrigidito il seno" - in uno schernevole anticattolicesimo che, negando l'essenza materiale dell'esistenza, trasforma l'uomo in un morto vivente, che comincerebbe a vivere veramente solo dopo aver "dato il mortal sospiro"(CM,v.2).
Questo ribaltamento ideologico è rincalzato nella terza strofa:

Piansi spogliata, esanime
fatta per me la vita;
la terra inaridita,
chiusa in eterno gel;
deserto il dí; la tacita
notte piú sola e bruna;
spenta per me la luna,
spente le stelle in ciel.


"Spogliata" richiama "la spoglia" (CM,v.3 e ER. v.90) come "esanime" - che è un significativo hapax nei Canti, come più oltre, fortissimo, "immemore", e come il foscoliano "allettatrice" in Aspasia - la "faccia esanime" (ER.v.109): citazione intertestuale antagonistica ancora rinforzata lapidariamente dall'emistichio "eterno gel", cui è condannato l'uomo che rifiuta la vita in attesa dei "campi eterni"(CM.v.93) e che "leva all'Eterno un candido/ pensier d'offerta"(ER,vv.87-88) come una vittima sacrificale, che tutto accetta con rassegnazione, rinunciando a se stesso, per cui tutta la terra si trasforma in un desertificato e buio nulla, "inaridita". Questo aggettivo merita una riflessione particolare - che sia un aggettivo 'forte' lo conferma il calco carducciano in Pianto antico, ed anche sull'antico ci sarebbe da dire -, non solo perché viene usato una sola volta (troviamo la forma verbale solo in A Silvia: "pria che l'erbe inaridisse il verno", v.40), ma perché contiene una indiretta dissacrazione di una similitudine della Risurrezione manzoniana: il coperchio che chiude il sepolcro viene gittato" via da Cristo risorgente "come a mezzo del cammino,/ riposato alla foresta,/ si risente il pellegrino,/ e si scote dalla testa/ una foglia inaridita,/ che dal ramo dipartita,/ lenta lenta vi ristà". Non paia, questa analogia, una forzatura: per l'uomo abbandonato dagli dei l'rida lastra sepolcrale che gela e opprime il cuore, unica fonte di vita, è un sigillo mortale che nullifica e svuota tutto l'orizzonte umano; solo dall'ambivalente e ambigua natura - madre e matrigna, nel mythos gli opposti coincidono - possono derivare piacere e dolore, vita e morte, desiderio e frustrazione di esso, speranza e disillusione, che costituiscono l'unica sostanza ed essenza dell'uomo 'naturale'.

Pur di quel pianto origine
era l'antico affetto:
nell'intimo del petto
ancor viveva il cor.
Chiedea l'usate immagini
la stanca fantasia;
e la tristezza mia
era dolore ancor.


Qui le antitesi sono ancora più incalzanti: "l'antico affetto" cita per antitesi la "cima antica"(N.v.12) e attraverso "intimo" ribadisce l'opposizione: dall'alto vs dal basso, caduta/perdita vs noia/mancanza; mentre le "usate immagini" richiamano con violenza contrastiva ancora le "sviate immagini2(ER.v.84). Chiarisco: nel Natale l'uomo, dopo il peccato originale, viene precipitato in basso dall'Eden come un masso rotola dal "vertice" della montagna e non ha speranza di ritornare sulla cima di essa se non attraverso la discesa del Salvatore che lo riporti in alto (" Qual masso che dal vertice/ di lunga erta montana,/ abbandonato all'impeto/ di rumorosa frana,/ per lo scheggiato calle/ precipitando a valle,/ batte sul fondo e sta;/ là dove cadde, immobile/ giace in sua lenta mole,/ né, per mutar di secoli, fia che riveda il sole/ della sua cima antica,/ se una virtude amica/ in alto nol trarrà"); mentre le immagini e i ricordi d'amore che agitano Ermengarda sono considerati dal Manzoni negativi - "l'empia/ virtù d'amor fatica" -, per il Leopardi essi e solo essi hanno un valore; senza, c'è la non-vita: ancora, al Manzoni Psicopompo, accompagnatore delle anime nel mondo dei defunti, contrappone una concezione vitalistica, qualcuno l'ha definita "epicurea", dell'esistenza umana. 
Nella strofa successiva ricompare il tono autoironico delle "querele":

Fra poco in me quell'ultimo
dolore anco fu spento,
e di piú far lamento
valor non mi restò.


e la parodia manzoniana si fa esplicita con veri e propri calchi provocatori: "Giacqui" vs "giacque" (CM.v.16) e soprattutto "attonito vs attonita" (CM.v.5): però Leopardi non si affida al "dio... che consola"; e, forte tra i due, s'intrude "insensato", privo di sensibilità, dei sensi corporali:

Giacqui: insensato, attonito,
non dimandai conforto:
quasi perduto e morto
il cor s'abbandonò.


anzi: la citazione opposizione è ipersemantizzata nell'incipit della strofa successiva, che ironizza ad un tempo l'ideologia del Natale (v. 1,"Qual masso che dal vertice" e v.22, "Qual mai tra i nati all'odio") e del Cinque maggio: "Ei fu", mentre il "tanto ardore" che nutriva il "beato errore" rinforza l'antinomia sempre ai "terrestri ardori" di Ermengarda, che Leopardi valorizza positivamente, mentre il Manzoni pone come condizione di felicità proprio la rinuncia ad essi e a quei "dì", rimpianti da Leopardi, nefasti per la pace interiore di Ermengarda e come tali definiti, v.30, "irrevocati dì".

Qual fui! quanto dissimile
da quel che tanto ardore,
che sí beato errore
nutrii nell'alma un dí!


Nella strofa successiva, in forma più sotterranea, la citazione ironica rinvia alla Pentecoste, dove "vigile" è la Chiesa, che chiusa nel suo "terror" attende la discesa dello Spirito Santo, attraverso il quale (v.73 e sgg.) "Nova franchigia annunciano/ i cieli...;/ nove conquiste..../ nova pace":

La rondinella vigile,
alle finestre intorno
cantando al novo giorno,
il cor non mi ferí:


e la negazione iniziale della strofa successiva, ripresa e accentuata da "invan... invan", ribalta il finale del Coro (vv.115-120): "dalle squarciate nuvole/ si svolge il sol cadente,/ e dietro il monte imporpora/ il trepido occidente:/ al pio colono augurio/ di più sereno dì":

non all'autunno pallido
in solitaria villa,
la vespertina squilla,
il fuggitivo Sol.
Invan brillare il vespero
vidi per muto calle,
invan sonò la valle
del flebile usignol.


Una sottesa opposizione terrestrità vs divinità prepara il climax memoriale della mancanza:

E voi, pupille tenere,
sguardi furtivi, erranti
voi de' gentili amanti
primo, immortale amor,
ed alla mano offertami
candida ignuda mano,
foste voi pure invano
al duro mio sopor.


sempre con la tecnica del rovesciamento ideologico: "immortal" in Manzoni è utilizzato con due significati opposti: uno positivo, teologico, riferito alla Chiesa ("figlia immortal", P.v.23) e alla Fede ("bella Immortal! benefica/ Fede ai trionfi avvezza", CM.vv.97-98); uno negativo, quando in Ermengarda si rinfocola l'amorosa, indomabile, fiamma: "torna immortal/ l'amor sopito" (vv.80-81), che impedisce l'abbandono fiducioso e sereno nelle mani di Dio; quell'amore che invece per Leopardi è l'unica ragione di vita, senza il quale non v'è salvezza dal vivere; amore sensuale, accennato da una mano "ignuda", ben diversa da quella celeste che trasporta verso l'alto Napoleone: "ma valida/ venne una man dal cielo,/ e in più spirabil aere/ pietosa il trasportò" (CM.vv. 87-90) e dalla "man leggiera" che "sulla pupilla cerula/ stende l'estremo vel" (ER.vv.10-12); anche "erranti", civettuoli, è un po' birbante: come un ragazzaccio sbeffeggia ancora il Manzoni che condanna chi abbandonò la retta via, "chi rubello/ torse, ahi stolto!, i passi erranti/ nel sentier che a morte guida"(R.vv.108-110) e il suo senso mortuario: "nel guardo errante/ di chi sperando muor" (P.vv.143-144).

D'ogni dolcezza vedovo,
tristo; ma non turbato
ma placido il mio stato,
il volto era seren.
Desiderato il termine
avrei del viver mio;
ma spento era il desio
nello spossato sen.


L'ironia sfiora il sarcasmo nella parafrasi antifrastica di questa strofa, dove il suo catatonico "placido" stato fa il verso all'invito manzoniano ad Ermengarda di morire "compianta e placida" (v.105) e a rivolgere i suoi pensieri "ai placidi/ gaudii d'un altro amor" (vv.71-72), e alla sua ideologia, giocando sull'ambivalenza della parola "termine": fine, ma per Manzoni - "fuor della vita è il termine"- anche obiettivo, scopo, senso della sofferenza terrena: redenzione nell'al di là, cui Leopardi irride coi giocosi e dispettosi ultimi due versi, buttati lì quasi con nonchalance, come quelli della strofa successiva in cui fa il verso a se stesso, utilizzando la maschera che di lui avevano forgiato i suoi avversari, soprattutto il livoroso Tommaseo:

Qual dell'età decrepita
l'avanzo ignudo e vile,
io conducea l'aprile
degli anni miei cosí:
cosí quegl'ineffabili
giorni, o mio cor, traevi,
che sí fugaci e brevi
il cielo a noi sorti.


Un altro hapax significativo è "ineffabili" che parodia la terza strofa del Natale: "tal si giaceva il misero/ figliol del fallo primo,/ dal dì che un'ineffabile/ ira promessa all'imo/ d'ogni malor gravollo"; e maliziosa è l'iterazione di "così...così" che ci riporta al Cinque maggio (così percossa, attonita) introducendo un paradossale parallelismo tra il 'grande' Napoleone e il 'piccolo' Leopardi, che prepara il 'risorgimento' terreno della strofa successiva, che raggiunge il burlesco parodico con la resurrezione di un morto: di Napoleone "stette la spoglia immemore", mentre una "virtù nova" 
( non "empia o celeste", come in Pentecoste, vv. 73, 74, 75, 77) lo ridesta dalla sua "immemore/ quiete", e riempie la vita proprio di quell'immaginario affettivo che il Manzoni nega ad Ermengarda: essa è la vera "luce" non quella che scende dall'alto nei pur bei versi della Pentecoste: "come la luce rapida/ piove di cosa in cosa,/ e i colori vari suscita/ ovunque si riposa"; e "obblio", negativo per Leopardi è invece positivo in Manzoni: "sempre un obblio di chiedere/ che le sarìa negato"(ER.vv.21-22), per cui anche il senso di "negato" viene capovolto. Questa "luminosa notturna virtù", che emerge dalle tenebre delle profondità dell'anima, ricrea il mondo e lo vivifica attraverso una rinnovata sensibilità, che lo toglie dal torpore del tedio e gli fa provare nuovamente il piacere del dolore e il dolore del piacere, la splendida e gorgonica bellezza della vita: 

Chi dalla grave, immemore
quiete or mi ridesta?
che virtú nova è questa,
questa che sento in me?
Moti soavi, immagini,
palpiti, error beato,
per sempre a voi negato
questo mio cor non è?

siete pur voi quell'unica
luce de' giorni miei?
gli affetti ch'io perdei
nella novella età?
Se al ciel, s'ai verdi margini,
ovunque il guardo mira,
tutto un dolor mi spira,
tutto un piacer mi dà.

Meco ritorna a vivere
la piaggia, il bosco, il monte;
parla al mio core il fonte,
meco favella il mar.
Chi mi ridona il piangere
dopo cotanto obblio?
e come al guardo mio
cangiato il mondo appar?


Consequenziale a questo materialismo antispiritualistico è il rifiuto di ogni speranza escatologica: "l'avviò pei floridi/ sentier della speranza,/ ai campi eterni, al premio/ che i desideri avanza(CM.vv.91-94):

Forse la speme, o povero
mio cor, ti volse un riso?
ahi della speme il viso
io non vedrò mai piú.


I versi successivi non sono più allusivi né parodici, ma esplicitamente ideologici: figliastri della natura gli uomini non debbono attendersi da essa nessuna misericordia, e nessuna "pietà" scenderà dall'alto dei cieli; sulla terra infatti non esiste "provvida/ sventura"(CM.v,103-104) né "al regno i miseri/ seco il Signor solleva"(N.vv.69-70); la dea Natura ha il volto terribile di chi "miserar non sa", ma Essa ha dato anche l'immaginazione, che non può annullare: l'uomo riesce a vivere proprio in questa terra di nessuno, instabile e periclitante, nella frattura interna alla natura, sottolineata dalle chiastiche rimalmezzo "non l'annullàr" e "miserar non": 

Proprii mi diede i palpiti,
natura, e i dolci inganni.
Sopiro in me gli affanni
l'ingenita virtú;

non l'annullàr: non vinsela
il fato e la sventura
non con la vista impura
l'infausta verità.
Dalle mie vaghe immagini
so ben ch'ella discorda:
so che natura è sorda,
che miserar non sa.

Che non del ben sollecita
fu, ma dell'esser solo:
purché ci serbi al duolo,
or d'altro a lei non cal.
So che pietà fra gli uomini
il misero non trova;
che lui, fuggendo, a prova
schernisce ogni mortal.


Dopo aver eliminato ogni provvidenzialismo trascendentale e ribadita la totale naturalità dell'esistenza umana, lo sguardo si apre sulla storia, sul suo "secol morto"(Ad angelo Mai,v.4), e in pochi versi richiama e ripropone le tematiche delle canzoni civili:

Che ignora il tristo secolo
Gl'ingegni e le virtudi;
che manca ai degni studi
l'ignuda gloria ancor.


Un secolo che non rispetta i valori, disprezza pure i sentimenti; disprezzo metaforizzato nella donna - allusione forse alla delusione per l'amore non corrisposto dalla bolognese Teresa Carniani Malvezzi -, che 'gioca' vilmente proprio coi sentimenti altrui , amorale rispetto alla morale "Paolina" e indegna degli attributi celesti della "sua donna", che delinea con un'asprezza sarcastica che non troviamo neppure in Aspasia: 

E voi, pupille tremule,
voi, raggio sovrumano,
so che splendete invano,
che in voi non brilla amor.

Nessuno ignoto ed intimo
affetto in voi non brilla:
non chiude una favilla
quel bianco petto in se.
anzi d'altrui le tenere
cure suol porre in gioco;
e d'un celeste foco
disprezzo è la mercè.


Delusione che non riesce a scalfire lo forza interiore del suo cuore rinato, e vivificato dal ritorno , in forma di "ricordanza" , delle "fole" della fanciullezza e della giovinezza, non più in sé e per sé, ma nel desertico contesto-contrasto col "vero":

Pur sento in me rivivere
gl'inganni aperti e noti
e de' suoi proprii moti
si maraviglia il sen.
Da te, mio cor, quest'ultimo
spirto, e l'ardor natio,
ogni conforto mio
solo da te mi vien.


per cui può permettersi un ultimo ritratto autoironico, chiudendo l'autorappresentazione con una marionetta, che lega il presente al passato (dietro la deformazione caricaturale si riconosce Saffo) ed apre al futuro: 

Mancano, il sento, all'anima
alta, gentile e pura,
la sorte, la natura,
il mondo e la beltà.
Ma se tu vivi, o misero,
se non concedi al fato,
non chiamerò spietato
chi lo spirar mi dà.
 

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