È stato talvolta segnato l'inizio della nuova letteratura
italiana nel Parini; ma il Parini è di mente e d'animo uomo
del Settecento, del periodo razionalistico e delle riforme, e
settecentesca sebbene elegantissima è l'arte sua didascalica e
ironica nei toni maggiori, erotica e galante nei minori. Il
vero inizio (quando si guardi al moto delle idee e alla
qualità dei sentimenti) è in Vittorio Alfieri, che tocca corde
le quali vibreranno a lungo nel secolo decimonono, dal Foscolo
e dal Leopardi fino al Carducci; in Vittorio Alfieri, che io
non posso considerare se non come strettamente affine ai
contemporanei Sturmer und Drànger di Germania, i quali
s'ispirarono come lui alle pagine di Plutarco e risentirono
profonda l'efficacia del Rousseau, neanche a lui estranea. Al
pari degli Sturmer und Drànger, egli è fortemente
individualista; e individualismo è il suo amore perla libertà
e il frenetico odio alla tirannia, così indeterminato nel suo
contenuto politico, perché egli aborre con la stessa
risolutezza re e demagoghi e patrizi di repubblica (l'«oscena
libertà posticcia» di Venezia e le «sessanta parrucche
d'idioti» di Genova), e non cerca nella sua vita altro stato,
e non persegue nella sua arte altro ideale, che quello del «liber'uomo»,
che possa cioè muoversi, parlare, operare, attuare il proprio
pensiero e la propria vocazione, non oppresso e soffocato da
veruna forza estranea, non contrastato impacciato da verun
ostacolo. Come gli altri consapevoli o inconsapevoli
roussoviani, moventi all'assalto delle Bastiglie morali, le
sue passioni sono estreme per violenza; e, quasi per dar loro
qualche lenimento, egli ama la solitudine, si abbandona con
voluttà alla malinconia, sente l'incanto degli spettacoli
naturali, delle montagne, delle acque, delle spiagge. Il
freddo intellettualismo, e il Voltaire che lo rappresenta, gli
ripugnano, e non sopporta il «lepido stile», la leggiera e
facile prosa degli illuministi, ben adatta alla divulgazione,
ma che per ciò appunto a lui sembrava che prostituisse «la
viril nostr'arte». E se egli non è tutto Shakespeare, come
erano i suoi affini tedeschi, se presto intermise la lettura
che aveva cominciato di quel poeta, non è già perché esso non
gli piacesse, ma anzi perché gli piaceva troppo: «quanto più
(scrive) mi andava a sangue quell'autore, tanto più me ne
volli astenere»: cioè per non correre il rischio di imitarlo,
e per serbarsi spontaneamente shakespeariano. C'è perfino
qualche concetto sul cattolicismo, di lui non cattolico, che
anticipa lo Chateaubriand (il quale veramente non si è potuto
mai sapere se poi fosse sul serio cattolico). Alludo a quel
singolare sonetto, che, comincia: «Alto, devoto, mistico,
ingegnoso, Grato alla vista, all'ascoltar soave, Di puri inni
celesti armonioso È il nostro culto: amabilmente grave...», e
più oltre ha il verso: «Dell'uom gli arcani appien sol Roma
intende».
Si deve dunque, a mio avviso, considerare l'Alfieri come un
Protoromantico: il che non vuol dire propriamente romantico,
come ora si è preso il vezzo di chiamarlo, confondendo ben
distinti periodi spirituali.
Del romantico all'Alfieri mancano tratti essenziali, l'ansia
religiosa sul fine e il valore della vita, l'interessamento
per la storia, e il compiacimento per gli aspetti particolari
e realistici delle cose. Anche la sua autobiografia sta sulla
linea delle confessioni alla Rousseau, ricca di passione e
scarsa di senso storico così rispetto al proprio tempo come
alla sua vita medesima. Di questo suo limite, e della
incapacità a ritrarre, come diceva, «la vera e scalza triste
natura nostra», la patologia individuale e sociale, ebbe
consapevolezza. «E carmi e prose in vario stil finora, lo
scrissi, abil non dico, ardimentoso; Storie non mai...».
L'epica, l'oratoria la tragedia, la filosofia cioè le
riflessioni morali e politiche: ecco il suo campo: «Arti tutte
divine, in cui, ritratto L'uom qual potria pur essere,
s'innalza Al ciel chi scrive e il leggitore a un tratto» .
Tale, all'incirca, la collocazione dell'Alfieri nella moderna
storia mentale e morale. Ma per intendere e giudicare l'arte
di lui, per risolvere il quesito, anch'esso storico, del suo
svolgimento estetico, bisogna farsi presente la particolare
conformazione di quell'anima. Perché l'Alfieri, prima che
poeta o al tempo stesso che poeta, era un uomo di passione
così ardente («furore» è la parola che più spesso torna nelle
sue pagine) da rivolgersi diritto all'azione e alla pratica,
guidato da inflessibile fermezza di proposito. Azione e
pratica, la quale certamente non si attuava altrove che nella
parola e nelle carte, ma azione era nondimeno, se tale è
essenzialmente l'oratoria. L'anelito alla libertà e
l'aborrimento per la tirannia gli avevano ingenerato
nell'immaginazione un fantasma pauroso, il Tiranno, che non è
già un fantasma poetico ma un incubo passionale, una sorta di
condensazione della più nera nequizia umana, che ha luogo in
un determinato individuo non si sa perché, se non forse per
incoercibile potere di attrazione e agglomeramento. Sono
colpevoli i suoi tiranni? Non si oserebbe affermarlo; o non
più colpevoli, certo, di chi ha la disgrazia di essere preso
da un'infezione, dall'idrofobia o dal tetano. «Ah forse voi
dite il vero!» - esclama il tiranno Timofane verso i suoi
congiunti ed amici, che procurano di richiamarlo ai doveri del
cittadino -, «ma non v'ha più detti, E sien pur forti, che dal
mio proposto Svolger passanmi ormai. Buon cittadino Più non
posso tornare. A me di vita Parte or s'è fatta la immutabil,
sola, Alta mia voglia: di regnar... fratello, Tel dissi io
già: corregger me sol puoi Col ferro: invano ogni altro
mezzo...». Un altro di quei tiranni, Polifonte, nella
«Merope», - anche lui non figlio, non sposo, non padre, «tutto
tiranno», che non vede «altro che regno», - sospira, alla fine
del primo atto, stanco sotto il cumulo della sua propria
ineluttabile malvagità: «Oh quanta è impresa il mantenerti, o
trono!» Ad abbattere con un colpo di mazza ferrata il Tiranno,
tanto più a lui odioso perché se lo rappresentava in modo da
dovergli riuscire necessariamente incomprensibile, l'Alfieri
costrusse la sua tragedia, nella nota forma, senza confidenti,
senza episodi, senza intermezzi di amore, scheletrica, precisa
e rapida come una macchina, tagliente col ben noto stile.
Stile che ha anch'esso del proposito, dell'intestamento, della
fissazione, e poiché egli non tollerava, come si è visto, la
lepidezza e la leggerezza della prosa illuministica, e poiché
gli moveva nausea la correlativa poesia canterellante di quel
tempo, che in Italia, e non solo in Italia, era la
metastasiana, il suo dramma e lo stile di esso sono il
rovescio violento del melodramma metastasiano (come ebbero già
a notare, credo per primi, la signora di Staél e Guglielmo
Schlegel), e le cabalette e ariette, con cui i suoi
personaggi, al pari di quelli del Metastasio, palesano se
stessi, stridono in digrignamenti di denti e suoni aspri e
rotti. E quando per avventura la sua ira si volge al sarcasmo
e all'irrisione, come nelle satire e nel Misogallo, il
cipiglio tragico si cangia in comico, ma resta pur sempre
cipiglio: onde quel suo coniare, nel «furor comicus», vocaboli
grotteschi, parole bizzarramente composte o stranamente
diminutive, e versi duri e ferrei non meno di quelli delle
tragedie. |