CRITICA: VITTORIO ALFIERI

 LA POETICA E LA TRAGEDIA DELL'ALFIERI

 AUTORE: Attilio Momigliano    TRATTO DA: Storia della letteratura italiana

 

Per l'Alfieri l'eroe e lo scrittore sono della stessa stoffa: Orazio, Scevola, Regolo sono letterati-autori; dopo, per la nascente corruzione, questi scemano e nascono i letterati-scrittori, che insegnano la virtù non più con l'esempio ma con gli scritti. Poeti, eroi, profeti, santi, martiri hanno nel mondo una missione simile, sono tutt'uno; e solo le circostanze diverse fanno sì che si nasca, invece che eroe o santo, poeta: Siamo sulla stessa linea della poetica del Parini, ma in un mondo assai più alto. La poetica dell'Alfieri è testimonianza di una passione esclusiva, motore unico della vita interna, quale nel Parini non si trova. Solo Dante avrebbe potuto dire che la poesia è il succedaneo dell'azione.
Per esser poeta è necessario un bollente volere, «quella preziosa libera bile che sola è madre d'ogni bell'opra», insomma l'esaltazione di tutte le forze spirituali. Premio della poesia è la gloria: «quella tacita meraviglia» con cui il mondo rimira un uomo; «quel sorridergli dei buoni con gioia e venerazione; quel sogguardarlo con torvi e timidi occhi, de' rei; quell'impallidire degl'invidi; quel fremere dei potenti»: definizione alfieriana, tragica ed estatica: dice l'animo con cui l'Alfieri scriveva le sue tragedie, l'effetto che ne vagheggiava scrivendole. L'Alfieri con le sue tragedie politiche non lo ha mai raggiunto pienamente - nel fondo è sempre rimasto qualche cosa di rigido e di pratico, di impoetico -. ma in tutte si sente l'animo che ha dettato quella definizione, quel misto veemente di dolcezza e di odio che si infondeva nei suoi versi al pensiero degli onesti che egli incoraggiava, dei vili e dei tiranni che percoteva. Si sente che mentre scriveva le sue tragedie, vedeva la platea e i posteri, gli spettatori e le generazioni venture.

Questa, infatti, non è poetica, ma una riduzione della propria poesia a teoria. Fondamento di ogni grande cosa, e quindi anche della poesia, è, per l'Alfieri, l'«impulso naturale»: « un bollore di cuore e di mente per cui non si trova mai pace, né loco; una sete insaziabile di ben fare e di gloria...; una infiammata e risoluta voglia e necessità, o di esser primo fra gli ottimi, o di non esser nulla».

Qualche cosa di ben diverso, dunque, dalla nuda volontà di cui si parlava tanto a proposito dell'Alfieri. C'è qui un fondamento nativo senza il quale tutta la definizione cadrebbe. E qui si giunge all'ultima delle identificazioni di questo libro: non soltanto i poeti, gli eroi, i santi, i martiri sono di una stessa stoffa, ma anche i tiranni. L'impeto magnanimo che si accende in un lettore dinanzi alle pagine dei grandi autori e che rivela in lui lo scrittore, è per l'Alfieri della stessa natura. dell'ira che invasava Alessandro all'udire il nome di Achille, Cesare all'udir quello di Alessandro. L'Alfieri doveva sentire una segreta affinità fra sé e i tiranni, i potenti della terra, non solo per la violenza tirannica che egli faceva alla coscienza dei lettori delle sue tragedie imponendo loro il suo pensiero con la pressione d'un incubo, ma anche perché egli, istintivamente, non riconosceva diritto di vita se non alle anime energiche: meglio i malvagi che gli imbelli. Circostanze diverse, egli dice, avrebbero fatto di Cesare uno Scevola, di un tiranno un eroe. Questo spiega perché nelle sue tragedie ci sia tanta affinità fra quei due mortali nemici che sono l'eroe e il tiranno, perché entrambi siano capaci della medesima inflessibile e atroce tensione d'animo.
Tutto questo spiega anche le tragedie non politiche; anch'esse hanno per fondamento una forza strapotente, ben simile a quella dei due antagonisti delle altre tragedie: Mirra, Saul, Oreste, Rosmunda hanno l'immane forza spirituale di Filippo, Timoleone, Bruto.

Da quello che abbiamo detto, deriva che l'Alfieri dà una grande importanza all'estro; e da questo deriva il suo modo di lavorare: un sunto di due pagine; una tumultuosa stesura in prosa per fermare l'estro; una riposata verseggiatura. Per l'Alfieri la poesia è già nella stesura in prosa; e se non c'è, l'elaborazione posteriore non ve la può aggiungere. L'epoca IV della Vita è interessantissima per i tratti di psicologia della creazione che vi si trovano sparsi; e contribuisce a darci ragione dei pregi e dei difetti delle tragedie dell'Alfieri. Quel suo modo romantico di comporle ci spiega perché per lo più sembrino insieme così unite e così grezze, così calde e così monotone.
Questo è visibile soprattutto nelle tragedie più strettamente politiche, nelle quali si esprime una parte sola dello spirito dell'Alfieri. In esse la passione politica è viva, ma la fantasia - ossessionata - ruota sopra due punti soli: la paura che incute il tiranno, e il gagliardo allenamento dell'eroe all'idea della ribellione e della morte. Il che nasce dal fatto che nell'Alfieri la passione politica era violenta ma l'esperienza storico-politica era scarsa ed astratta; il suo amore per la storia era troppo circoscritto fra i due limiti della libertà e della schiavitù. Per ideare una tragedia politica gli bastava conoscere il fatto generico: perché la trama la riempiva sempre con la materia del suo trattato, buona per tutti i tempi, e quindi insufficiente per tutti.
Non basta a diversificare il Timoleone dalla Virginia l'intenzione patetica di rappresentare il protagonista costretto a farsi fratricida per amore della libertà; né basta a vivificare La congiura dei Pazzi il fatto che il contrasto fra gli affetti domestici e i sentimenti politici vi sia espresso meglio che nel Timoleone e nel Bruto primo, e che questa tragedia voglia essere un esempio della tirannide moderna, più blanda e perciò più difficile da distruggere.

Migliori, perché più ricchi di motivi umani, sono il Don Garzia e l'Ottavia...
In queste tragedie la ricchezza della poesia dell'Alfieri si intravvede sempre soltanto quando il motivo politico accenna a lasciare il posto a motivi più complessi e più umani. E perciò l'esame di queste non può essere che preparazione all'analisi delle altre in cui il soggetto politico manca e non domina. Nel Filippo, nel Saul, ecc. i motivi delle tragedie di libertà sono assorbiti in un quadro spirituale molto più profondo. Carattere dominante di queste tragedie è una volontà asperrima che si alimenta da una passione (Agamennone, Oreste, Rosmunda) o si divincola fra le strette furibonde di una passione (Mírra, Saul). La nobiltà delle tragedie alfieriane deriva da questo elemento volontario che proietta, la passione in un mondo più grande del reale. Per questo dominio dei propri sentimenti le figure femminili acquistano una solennità regale, e i tiranni suscitano, con l'abominio, il rispetto, e figure così dissimili come Antigone, Filippo, Saul si avvicinano come figli di un medesimo padre. Nel codice della magnanimità che si può ricavare dalle tragedie dell'Alfieri, anche i tiranni hanno qualche cosa da insegnare.

Questi magnanimi sono grandi sopra tutto nella morte, nella virilità con cui l'affrontano: Isabella come Mirra, Carlo come Saul. La morte, più spesso il suicidio, è la consacrazione suprema della nobiltà degli eroi, la liberazione dal destino troppo inferiore alla purezza della loro coscienza, l'unico modo di affermare gli ideali a cui il mondo è avverso o immaturo.
Altro carattere dominante e autobiografico delle tragedie alfieriane è la solitudine morale dei personaggi: Saul solo coi suoi presentimenti e con le sue angosce; Mirra, sola col suo ardore inconfessabile; Filippo, solo coi suoi sospetti e col suo delitto; Creonte, solo dinanzi alla giustizia divina; gli offesi che maturano la vendetta nel cuore chiuso; gli eroi della libertà immensamente lontani dal popolo vile. E tutti destano insieme un sentimento di ammirazione e di pietà.

Questa solitudine è sottolineata dalla riduzione assoluta dell'ambiente, materiale o umano. Goldoni è tutto ambiente, conversazione multipla e volubile, così nelle commedie come nei Mémoires; Alfieri è tutto individuo, dialogo corpo a corpo, concentrazione, monologo, così nelle tragedie come nella Vita. In Alfieri l'ambiente c'è: ma è, nella Vita, il deserto o il mare, nelle tragedie, una tomba - l'altare della vendetta familiare -, o una reggia - la meta della vendetta politica -. E la reggia non è mai quella delle cerimonie o delle feste: si sente che è nuda e squallida, che i colloqui vi si svolgono in piedi e in guardia.
In parecchie tragedie questi caratteri sono esagerati. Gli elementi foschi si accumulano con energia fittizia; per esempio nella Rosmunda, nel Polinice, in buona parte dell'Oreste, nell'ultimo atto dell'Antigone; e la tragedia, corsa da continue alternative sanguinose, adombrata da troppe tinte funeree, ci si configura nell'immaginazione più coll'aspetto d'una maschera che d'un volto.
Così non accade nel Filippo, nell'Agamennone, nella Mirra e nel Saul.

La prima tragedia insieme passionale e politica, è tutta mossa dallo spirito gelido e inflessibile di Filippo, che decide della sorte del figlio e della moglie. È questa la prima rappresentazione del deserto che circonda il tiranno. Tutta la pietà del duro e appassionato Alfieri sembra riserbata a Carlo e ad Isabella, nella quale si presenta il tema poetico di Mirra; tutto l'abbominio a quella mostruosa pietrificazione di uomo in re che è Filippo. Si delineano qui per la prima volta il contrasto fra il sospetto e la generosità - e quindi quell'aspetto di incubo che hanno quasi tutte le tragedie dell'Alfieri, e la liberazione dall'incubo con la morte degli eroi -; e l'arte di far soccombere le anime grandi per attirar su di loro, con l'ammirazione, la pietà, e farle più simpatiche e più reverende. E si rivela qui per la prima volta e meglio che mai, quell'arcana e involontaria pietà che si riverbera per un istante sul tiranno, condannato, come per una nemesi interna, a sentire la solitudine e la tristezza della sua feroce potenza. Il solo difetto evidente della tragedia nasce dalla preoccupazione pratica di contrapporre Perez a Gomez e a Leonardo e di mostrar chiesa e tirannide congiurate contro la libertà e la giustizia.

L'Agamennone (1776-1777) è la maturazione occulta e fatale di un delitto. Da ogni parte, da ogni indizio la catastrofe balena e trapela, come nella Mirra la confessione dell'amore incestuoso. In queste due tragedie e nel Saul quel senso della catastrofe che incalza, visibile in tutte le tragedie dell'Alfieri, trova la sua misura perfetta.

Nell'Agamennone c'è, qua e là, qualche cosa di troppo scoperto; ma il complesso è di una straordinaria potenza: e Clitennestra che, trascinata dalla passione, rilutta invano al delitto; Egisto che lo vuole, senza rimorsi, con una fredda e stringente tenacia di vendicatore; Elettra che, con femminile sensibilità, presente la catastrofe; Agamennone che, tornato in patria dopo la vittoria conquistata col sacrificio della figlia, si scopre a poco a poco così solo e insidiato: testimoniano di quale ricchezza sentimentale sia capace l'Alfieri appena abbandona la tragedia politica, e con quale lucida ansia sappia penetrare nelle più terribili profondità della coscienza.

Il Saul (1782) è la più densa espressione del mondo eroico e procelloso che ribolliva nell'anima dell'Alfieri. Il protagonista delle sue tragedie è l'uomo che esce dai confini mediocri dei comuni mortali; e quello che lo rappresenta più compiutamente è Saul che per tutta la tragedia urta vacillando contro la tempesta oscura dei suoi sentimenti più profondi, e finisce per vincerla. In lui si raccolgono i sentimenti smisurati sparsi nelle altre opere. Egli è feroce, indagatore, geloso e superbo della propria regalità, come Filippo, ma innalzato da un più eroico decoro; è sconvolto come Clitennestra, Polinice, Oreste, come i personaggi greci, da un sentimento quasi fatale che lo circonda dell'atmosfera caratteristica di tutte le buone tragedie alfieriane; è travolto da ire di origine arcana come il sentimento di Mirra; ha, nei momenti di lucidità, una saggezza magnanima superiore a tutti gli eroi plutarchiani dell'Alfieri. Se in tutta l'opera dell'Alfieri si può sentire, senza sempre notarla come difetto, una certa linearità, in Saul si nota invece una tempestosa abbondanza di vita spirituale. Nel corso della tragedia Saul è un re furibondo, nella fine - vinto se stesso - uno stoico solenne.
Saul è un'anima grande sconvolta da un momento di empietà: di qui le visioni paurose e le inquietudini tremende, che hanno una parte grandiosa nella tragedia; ma la parte più intima è quella sofferenza per aver perduto il dominio di sé, quel sentirsi menomato nella propria dignità regale per gli avvilimenti e le collere insensate da cui è vinto. Questa dignità regale, offuscata nel corso della tragedia, risorge intera dinanzi alla catastrofe della famiglia e alla sconfitta. Dalla sconfitta esterna nasce la vittoria intima, la liberazione dai sentimenti meschini. Ambizione, rivalità, orgoglio del potere materiale sfumano d'un tratto: la catastrofe dà a Saul intera e non più contrastata quella forza e quella dirittura morale che nel corso della tragedia erano combattute e velate ma trapelavano sicuramente. La catastrofe sgombra le complicazioni del suo carattere, lo rivela in tutta la sua grandezza morale.

Dopo il Saul nacque la Mirra (1784-1787), in cui l'Alfieri si espresse ancora una volta potentemente, ma senza uguagliare l'opera dove aveva riassunto il suo mondo di passioni assediatrici implacabili e dispotiche dell'animo.
È, come il Saul, una tempesta della volontà risolta con una funebre vittoria. Incoerenze, silenzi, parole esitanti tradiscono via via quella volontà che lotta invano. Qualche grido sfrenato e qualche parola incauta è tutto quello che giunge sulla scena della silenziosa lotta di Mirra figura muta e tristissima, accarezzata segretamente da una mano misericorde.

Era naturale che con la sua tempra l'Alfieri trovasse la sua materia e i suoi atteggiamenti nella morale romana, rettilinea e fiera; nella saggezza e rettitudine plutarchiana; nei miti greci che sommovono i fondi più paurosi del destino umano; nella ferocia barbara; nella proditoria freddezza delle Signorie; nell'indeprecabile vendetta del Dio ebraico; e che si formasse uno stile ferreo, angoloso, congestionato, una tecnica torrenziale e tagliante, che, nei momenti d'ispirazione, produce effetti grandiosi, e, dove questa vien meno, si sgretola in un linguaggio forzato e stridente.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis