Per l'Alfieri l'eroe e lo scrittore sono della stessa stoffa:
Orazio, Scevola, Regolo sono letterati-autori; dopo, per la
nascente corruzione, questi scemano e nascono i
letterati-scrittori, che insegnano la virtù non più con
l'esempio ma con gli scritti. Poeti, eroi, profeti, santi,
martiri hanno nel mondo una missione simile, sono tutt'uno; e
solo le circostanze diverse fanno sì che si nasca, invece che
eroe o santo, poeta: Siamo sulla stessa linea della poetica
del Parini, ma in un mondo assai più alto. La poetica
dell'Alfieri è testimonianza di una passione esclusiva, motore
unico della vita interna, quale nel Parini non si trova. Solo
Dante avrebbe potuto dire che la poesia è il succedaneo
dell'azione.
Per esser poeta è necessario un bollente volere, «quella
preziosa libera bile che sola è madre d'ogni bell'opra»,
insomma l'esaltazione di tutte le forze spirituali. Premio
della poesia è la gloria: «quella tacita meraviglia» con cui
il mondo rimira un uomo; «quel sorridergli dei buoni con gioia
e venerazione; quel sogguardarlo con torvi e timidi occhi, de'
rei; quell'impallidire degl'invidi; quel fremere dei potenti»:
definizione alfieriana, tragica ed estatica: dice l'animo con
cui l'Alfieri scriveva le sue tragedie, l'effetto che ne
vagheggiava scrivendole. L'Alfieri con le sue tragedie
politiche non lo ha mai raggiunto pienamente - nel fondo è
sempre rimasto qualche cosa di rigido e di pratico, di
impoetico -. ma in tutte si sente l'animo che ha dettato
quella definizione, quel misto veemente di dolcezza e di odio
che si infondeva nei suoi versi al pensiero degli onesti che
egli incoraggiava, dei vili e dei tiranni che percoteva. Si
sente che mentre scriveva le sue tragedie, vedeva la platea e
i posteri, gli spettatori e le generazioni venture.
Questa, infatti, non è poetica, ma una riduzione della propria
poesia a teoria. Fondamento di ogni grande cosa, e quindi
anche della poesia, è, per l'Alfieri, l'«impulso naturale»: «
un bollore di cuore e di mente per cui non si trova mai pace,
né loco; una sete insaziabile di ben fare e di gloria...; una
infiammata e risoluta voglia e necessità, o di esser primo fra
gli ottimi, o di non esser nulla».
Qualche cosa di ben diverso, dunque, dalla nuda volontà di cui
si parlava tanto a proposito dell'Alfieri. C'è qui un
fondamento nativo senza il quale tutta la definizione
cadrebbe. E qui si giunge all'ultima delle identificazioni di
questo libro: non soltanto i poeti, gli eroi, i santi, i
martiri sono di una stessa stoffa, ma anche i tiranni.
L'impeto magnanimo che si accende in un lettore dinanzi alle
pagine dei grandi autori e che rivela in lui lo scrittore, è
per l'Alfieri della stessa natura. dell'ira che invasava
Alessandro all'udire il nome di Achille, Cesare all'udir
quello di Alessandro. L'Alfieri doveva sentire una segreta
affinità fra sé e i tiranni, i potenti della terra, non solo
per la violenza tirannica che egli faceva alla coscienza dei
lettori delle sue tragedie imponendo loro il suo pensiero con
la pressione d'un incubo, ma anche perché egli,
istintivamente, non riconosceva diritto di vita se non alle
anime energiche: meglio i malvagi che gli imbelli. Circostanze
diverse, egli dice, avrebbero fatto di Cesare uno Scevola, di
un tiranno un eroe. Questo spiega perché nelle sue tragedie ci
sia tanta affinità fra quei due mortali nemici che sono l'eroe
e il tiranno, perché entrambi siano capaci della medesima
inflessibile e atroce tensione d'animo.
Tutto questo spiega anche le tragedie non politiche; anch'esse
hanno per fondamento una forza strapotente, ben simile a
quella dei due antagonisti delle altre tragedie: Mirra, Saul,
Oreste, Rosmunda hanno l'immane forza spirituale di Filippo,
Timoleone, Bruto.
Da quello che abbiamo detto, deriva che l'Alfieri dà una
grande importanza all'estro; e da questo deriva il suo modo di
lavorare: un sunto di due pagine; una tumultuosa stesura in
prosa per fermare l'estro; una riposata verseggiatura. Per
l'Alfieri la poesia è già nella stesura in prosa; e se non
c'è, l'elaborazione posteriore non ve la può aggiungere.
L'epoca IV della Vita è interessantissima per i tratti di
psicologia della creazione che vi si trovano sparsi; e
contribuisce a darci ragione dei pregi e dei difetti delle
tragedie dell'Alfieri. Quel suo modo romantico di comporle ci
spiega perché per lo più sembrino insieme così unite e così
grezze, così calde e così monotone.
Questo è visibile soprattutto nelle tragedie più strettamente
politiche, nelle quali si esprime una parte sola dello spirito
dell'Alfieri. In esse la passione politica è viva, ma la
fantasia - ossessionata - ruota sopra due punti soli: la paura
che incute il tiranno, e il gagliardo allenamento dell'eroe
all'idea della ribellione e della morte. Il che nasce dal
fatto che nell'Alfieri la passione politica era violenta ma
l'esperienza storico-politica era scarsa ed astratta; il suo
amore per la storia era troppo circoscritto fra i due limiti
della libertà e della schiavitù. Per ideare una tragedia
politica gli bastava conoscere il fatto generico: perché la
trama la riempiva sempre con la materia del suo trattato,
buona per tutti i tempi, e quindi insufficiente per tutti.
Non basta a diversificare il Timoleone dalla Virginia
l'intenzione patetica di rappresentare il protagonista
costretto a farsi fratricida per amore della libertà; né basta
a vivificare La congiura dei Pazzi il fatto che il contrasto
fra gli affetti domestici e i sentimenti politici vi sia
espresso meglio che nel Timoleone e nel Bruto primo, e che
questa tragedia voglia essere un esempio della tirannide
moderna, più blanda e perciò più difficile da distruggere.
Migliori, perché più ricchi di motivi umani, sono il Don
Garzia e l'Ottavia...
In queste tragedie la ricchezza della poesia dell'Alfieri si
intravvede sempre soltanto quando il motivo politico accenna a
lasciare il posto a motivi più complessi e più umani. E perciò
l'esame di queste non può essere che preparazione all'analisi
delle altre in cui il soggetto politico manca e non domina.
Nel Filippo, nel Saul, ecc. i motivi delle tragedie di libertà
sono assorbiti in un quadro spirituale molto più profondo.
Carattere dominante di queste tragedie è una volontà asperrima
che si alimenta da una passione (Agamennone, Oreste, Rosmunda)
o si divincola fra le strette furibonde di una passione (Mírra,
Saul). La nobiltà delle tragedie alfieriane deriva da questo
elemento volontario che proietta, la passione in un mondo più
grande del reale. Per questo dominio dei propri sentimenti le
figure femminili acquistano una solennità regale, e i tiranni
suscitano, con l'abominio, il rispetto, e figure così
dissimili come Antigone, Filippo, Saul si avvicinano come
figli di un medesimo padre. Nel codice della magnanimità che
si può ricavare dalle tragedie dell'Alfieri, anche i tiranni
hanno qualche cosa da insegnare.
Questi magnanimi sono grandi sopra tutto nella morte, nella
virilità con cui l'affrontano: Isabella come Mirra, Carlo come
Saul. La morte, più spesso il suicidio, è la consacrazione
suprema della nobiltà degli eroi, la liberazione dal destino
troppo inferiore alla purezza della loro coscienza, l'unico
modo di affermare gli ideali a cui il mondo è avverso o
immaturo.
Altro carattere dominante e autobiografico delle tragedie
alfieriane è la solitudine morale dei personaggi: Saul solo
coi suoi presentimenti e con le sue angosce; Mirra, sola col
suo ardore inconfessabile; Filippo, solo coi suoi sospetti e
col suo delitto; Creonte, solo dinanzi alla giustizia divina;
gli offesi che maturano la vendetta nel cuore chiuso; gli eroi
della libertà immensamente lontani dal popolo vile. E tutti
destano insieme un sentimento di ammirazione e di pietà.
Questa solitudine è sottolineata dalla riduzione assoluta
dell'ambiente, materiale o umano. Goldoni è tutto ambiente,
conversazione multipla e volubile, così nelle commedie come
nei Mémoires; Alfieri è tutto individuo, dialogo corpo a
corpo, concentrazione, monologo, così nelle tragedie come
nella Vita. In Alfieri l'ambiente c'è: ma è, nella Vita, il
deserto o il mare, nelle tragedie, una tomba - l'altare della
vendetta familiare -, o una reggia - la meta della vendetta
politica -. E la reggia non è mai quella delle cerimonie o
delle feste: si sente che è nuda e squallida, che i colloqui
vi si svolgono in piedi e in guardia.
In parecchie tragedie questi caratteri sono esagerati. Gli
elementi foschi si accumulano con energia fittizia; per
esempio nella Rosmunda, nel Polinice, in buona parte
dell'Oreste, nell'ultimo atto dell'Antigone; e la tragedia,
corsa da continue alternative sanguinose, adombrata da troppe
tinte funeree, ci si configura nell'immaginazione più coll'aspetto
d'una maschera che d'un volto.
Così non accade nel Filippo, nell'Agamennone, nella Mirra e
nel Saul.
La prima tragedia insieme passionale e politica, è tutta mossa
dallo spirito gelido e inflessibile di Filippo, che decide
della sorte del figlio e della moglie. È questa la prima
rappresentazione del deserto che circonda il tiranno. Tutta la
pietà del duro e appassionato Alfieri sembra riserbata a Carlo
e ad Isabella, nella quale si presenta il tema poetico di
Mirra; tutto l'abbominio a quella mostruosa pietrificazione di
uomo in re che è Filippo. Si delineano qui per la prima volta
il contrasto fra il sospetto e la generosità - e quindi
quell'aspetto di incubo che hanno quasi tutte le tragedie
dell'Alfieri, e la liberazione dall'incubo con la morte degli
eroi -; e l'arte di far soccombere le anime grandi per attirar
su di loro, con l'ammirazione, la pietà, e farle più
simpatiche e più reverende. E si rivela qui per la prima volta
e meglio che mai, quell'arcana e involontaria pietà che si
riverbera per un istante sul tiranno, condannato, come per una
nemesi interna, a sentire la solitudine e la tristezza della
sua feroce potenza. Il solo difetto evidente della tragedia
nasce dalla preoccupazione pratica di contrapporre Perez a
Gomez e a Leonardo e di mostrar chiesa e tirannide congiurate
contro la libertà e la giustizia.
L'Agamennone (1776-1777) è la maturazione occulta e fatale di
un delitto. Da ogni parte, da ogni indizio la catastrofe
balena e trapela, come nella Mirra la confessione dell'amore
incestuoso. In queste due tragedie e nel Saul quel senso della
catastrofe che incalza, visibile in tutte le tragedie
dell'Alfieri, trova la sua misura perfetta.
Nell'Agamennone c'è, qua e là, qualche cosa di troppo
scoperto; ma il complesso è di una straordinaria potenza: e
Clitennestra che, trascinata dalla passione, rilutta invano al
delitto; Egisto che lo vuole, senza rimorsi, con una fredda e
stringente tenacia di vendicatore; Elettra che, con femminile
sensibilità, presente la catastrofe; Agamennone che, tornato
in patria dopo la vittoria conquistata col sacrificio della
figlia, si scopre a poco a poco così solo e insidiato:
testimoniano di quale ricchezza sentimentale sia capace
l'Alfieri appena abbandona la tragedia politica, e con quale
lucida ansia sappia penetrare nelle più terribili profondità
della coscienza.
Il Saul (1782) è la più densa espressione del mondo eroico e
procelloso che ribolliva nell'anima dell'Alfieri. Il
protagonista delle sue tragedie è l'uomo che esce dai confini
mediocri dei comuni mortali; e quello che lo rappresenta più
compiutamente è Saul che per tutta la tragedia urta vacillando
contro la tempesta oscura dei suoi sentimenti più profondi, e
finisce per vincerla. In lui si raccolgono i sentimenti
smisurati sparsi nelle altre opere. Egli è feroce, indagatore,
geloso e superbo della propria regalità, come Filippo, ma
innalzato da un più eroico decoro; è sconvolto come
Clitennestra, Polinice, Oreste, come i personaggi greci, da un
sentimento quasi fatale che lo circonda dell'atmosfera
caratteristica di tutte le buone tragedie alfieriane; è
travolto da ire di origine arcana come il sentimento di Mirra;
ha, nei momenti di lucidità, una saggezza magnanima superiore
a tutti gli eroi plutarchiani dell'Alfieri. Se in tutta
l'opera dell'Alfieri si può sentire, senza sempre notarla come
difetto, una certa linearità, in Saul si nota invece una
tempestosa abbondanza di vita spirituale. Nel corso della
tragedia Saul è un re furibondo, nella fine - vinto se stesso
- uno stoico solenne.
Saul è un'anima grande sconvolta da un momento di empietà: di
qui le visioni paurose e le inquietudini tremende, che hanno
una parte grandiosa nella tragedia; ma la parte più intima è
quella sofferenza per aver perduto il dominio di sé, quel
sentirsi menomato nella propria dignità regale per gli
avvilimenti e le collere insensate da cui è vinto. Questa
dignità regale, offuscata nel corso della tragedia, risorge
intera dinanzi alla catastrofe della famiglia e alla
sconfitta. Dalla sconfitta esterna nasce la vittoria intima,
la liberazione dai sentimenti meschini. Ambizione, rivalità,
orgoglio del potere materiale sfumano d'un tratto: la
catastrofe dà a Saul intera e non più contrastata quella forza
e quella dirittura morale che nel corso della tragedia erano
combattute e velate ma trapelavano sicuramente. La catastrofe
sgombra le complicazioni del suo carattere, lo rivela in tutta
la sua grandezza morale.
Dopo il Saul nacque la Mirra (1784-1787), in cui l'Alfieri si
espresse ancora una volta potentemente, ma senza uguagliare
l'opera dove aveva riassunto il suo mondo di passioni
assediatrici implacabili e dispotiche dell'animo.
È, come il Saul, una tempesta della volontà risolta con una
funebre vittoria. Incoerenze, silenzi, parole esitanti
tradiscono via via quella volontà che lotta invano. Qualche
grido sfrenato e qualche parola incauta è tutto quello che
giunge sulla scena della silenziosa lotta di Mirra figura muta
e tristissima, accarezzata segretamente da una mano
misericorde.
Era naturale che con la sua tempra l'Alfieri trovasse la sua
materia e i suoi atteggiamenti nella morale romana, rettilinea
e fiera; nella saggezza e rettitudine plutarchiana; nei miti
greci che sommovono i fondi più paurosi del destino umano;
nella ferocia barbara; nella proditoria freddezza delle
Signorie; nell'indeprecabile vendetta del Dio ebraico; e che
si formasse uno stile ferreo, angoloso, congestionato, una
tecnica torrenziale e tagliante, che, nei momenti
d'ispirazione, produce effetti grandiosi, e, dove questa vien
meno, si sgretola in un linguaggio forzato e stridente. |