CRITICA: VITTORIO ALFIERI

 PENSIERO E SENTIMENTO POLITICO DELL'ALFIERI

 AUTORE: Luigi Salvatorelli    TRATTO DA: Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870

 

Mentre il Parini valica i confini del riformismo politico settecentesco col suo sentimento di giustizia sociale, con la sua contrapposizione di classi, l'Alfieri passa oltre a quello, si può dire, senza neppure entrarvi, in forza del suo prepotente individualismo. Schiettamente, radicalmente individualistico era per verità tutto il pensiero politico del riformismo settecentesco: ma in maniera assai diversa. Il riformismo settecentesco mirava all'utilità, al benessere dell'uomo, e cercava di realizzarli nella vita associata con un individualismo utilitario e sociale (non sembri assurdo questo accoppiamento: individualismo sociale, come di termini antitetici. L'antitesi - che naturalmente anch'essa non esclude la sintesi imposta dalle necessità della vita, - non è propriamente fra individuo e società, ma fra individuo e Stato: la società è composta di individui, è intessuta di bisogni, di interessi, di sentimenti individuali, e come tale si contrappone essa medesima allo stato, nel senso di governo, anzichè identificarsi con quello). L'individualismo dell'Alfieri è un individualismo idealistico, che ha radice nel bisogno di affermazione del proprio io. Perciò, mentre il primo fa capo al concetto di utilità sociale, il secondo fa capo a quello di libertà politica. Neppure la libertà politica era ignota al riformismo settecentesco; ma non vi acquistava rilievo netto, e tanto meno preponderanza, centralità. Era piuttosto un limite dell'ingerenza governativa, una conseguenza naturale dell'utilitarismo, un sottinteso della ragione. La politica. del Settecento ha una tendenza, vedemmo, «apolitica», e in questo apoliticismo trova una delle sue caratteristiche. Essa postula un governo illuminato come strumento del proprio riformismo, del benessere individuale-sociale, piuttosto che formulare direttamente e principalmente il problema politico dei diritti dell'individuo e del popolo nella cosa pubblica e occuparsi sistematicamente della costituzione di questa. Ciò vale non solo per i pensatori italiani del Settecento da noi fin qui esaminati, ma in gran parte anche per quelli francesi. Il Contrat Social del Rousseau è la maggiore eccezione; ma esso sembra aver avuto per questa parte (cioè per il problema costituzionale) poca influenza nella stessa Francia prima della rivoluzione o dei tempi immediatamente antecedenti ad essa, e certamente ne ebbe ancora meno in Italia.
Non ne ebbe ad ogni modo nessuna sul liberalismo radicale dell'Alfieri...

Nucleo del pensiero, del sentimento politico alfieriano è la libertà individuale, quella che gli «uomini veri» chiamano «di vita parte» (sonetto introduttivo a Della Tirannide). Coloro che della libertà non godono e non ne sentono la mancanza, coloro che non conoscono i diritti dell'uomo e non esercitano le facoltà umane, usurpano il nome di uomini: essi non sono che «turpissimi armenti» (Della Tirannide, 1. II, c. 3). È celebre la confessione da lui fatta nella Vita che tra i suoi sentimenti predominava «una profonda ferocissima rabbia ed aborrimento contro ogni qualsivoglia tirannide» (epoca IV, c. I). Egli non volle vedere Caterina II a Pietroburgo per «odio purissimo della tirannide in astratto», anche se nel caso specifico l'avversione era accresciuta dal fatto che si trattava di persona rea di aver fatto uccidere il marito (Vita, epoca III, c. 9). E precisamente egli odia la tirannide perché «i pessimi governi» trascurano e soffocano le virtù dei temperamenti individuali. Del che aveva sperimentato l'effetto su se stesso: perché in un breve ritorno in Piemonte, trovandosi coi «barbassori» governanti, stava piuttosto in atteggiamento di liberto che d'uomo libero (Vita, epoca IV, c. 13).

Che cosa intende l'Alfieri per tirannide? Non occorre ricordare che i governi tirannici erano riprovati dagli scrittori settecenteschi, o per meglio dire erano stati riprovati sempre dagli scrittori politici anche più ortodossi. Ma già dalle citazioni che abbiamo fatto s'intravede quale ampio concetto, diverso dal comune della sua età, avesse l'Alfieri della tirannide. Lo ha spiegato con molta precisione egli stesso nei due primi capitoli del suo trattato intitolato appunto così, trattato che è del 1777. Tiranno va detto non soltanto chi ha una facoltà illimitata di nuocere, anche se non ne abusa; ma altresì tirannico è qualsiasi governo nel quale chi è preposto all'esecuzione delle leggi può farle, distruggerle, sospenderle, sia poi il governante ereditario o elettivo, uno o più, legittimo o usurpatore (l. I, c. 2). Tirannide è anche quando i legislatori sono essi medesimi gli esecutori delle leggi, o quando i detti esecutori non devono renderne conto (ivi). E con questi concetti in mano egli identifica monarchia e tirannide. Non è soltanto nelle tragedie ch'egli fa chiamare da Giocasta «il fero trono» un'ingiustizia antica ognor sofferta, e più aborrita ognora, e fa definire da Polinice il regnare come il far legge d'ogni propria voglia, il farsi pari ai Numi (Polinice, a. II, sc. 4). Le tirate delle tragedie corrispondono abbastanza esattamente al pensiero alfieriano, per quanto si può parlare di un pensiero riflesso riguardo a un così bollente effonditore dei propri sentimenti nella loro spontaneità originaria. Non manca tuttavia di un certo vigore logico quel che egli dice nel secondo capitolo di Della Tirannide: la monarchia è tirannide, se le leggi non hanno forza per se stesse, indipendentemente dalla volontà del monarca; se hanno questa forza, allora non è più monarchia, cioè governo di un solo. Principe, insomma, è per l'Alfieri uguale a tiranno: è rilevato espressamente in Della Tirannide (l. 1, c. I) come la definizione del primo, data in Del Principe e delle Lettere (l. I, c. 2), sia uguale a quella del secondo. Egli fa applicazione di questo principio nella Vita (epoca IV, c. 6) chiamando tirannide la monarchia sabauda e quella francese di avanti la Rivoluzione.

L'effetto generale della tirannide - o della monarchia - per l'Alfieri è che «sotto all'assoluto governo di un solo ogni cosa debb'essere indispensabilmente sconvolta e viziosa» (Della Tirannide, l. I, c. 5). L'individualismo morale alfieriano va diritto alle conseguenze etiche di un regime privo di libertà. Gli stessi sentimenti, le stesse forze morali subiscono, in un simile regime, un capovolgimento, una trasformazione totale, che è una totale corruzione. «L'amor di se stesso nella tirannide non è già l'amore dei propri diritti, né della propria gloria, né del proprio onore; ma è semplicemente l'amor della vita animale » (Della Tirannide, l. I, c. 15). L'ambizione, che è lo stimolo a farsi maggiori degli altri e di se stessi, «produce del pari e le più gloriose e le più abbominevoli imprese»: sotto la tirannide si verifica il secondo caso, perché l'ambizione trova impediti tutti i fini virtuosi e sublimi (ivi, l. I, c. 5). Nonostante ogni differenza fra lo spirito dell'Alfieri e quello del riformismo settecentesco, occorre qui ricordare come nel Filangieri abbiamo trovato espressi concetti perfettamente analoghi circa il differente atteggiarsi dell'amor proprio sotto i governi dispotici e in quelli liberi. La tirannide, che in Asia fece l'uomo meno che uomo, estirpata dalla Grecia, fece i Greci pari ai Numi, il primo popolo della terra (Timoleone, a. III, sc. 4). Sempre per questo suo individualismo morale, la critica alfieriana s'interessa a rilevare i mali effetti della tirannide sul tiranno medesimo: quali che siano le intenzioni sue originarie, il tiranno o re, diviene nemico della virtù, grave a sé ed agli altri.

di mercar laude
avido ognor, ma convinto in te stesso
che esecrazion sol merti,



sempre pieno di sospetti e di paura, sempre assetato d'oro e di sangue, privo di amici e di parenti,


a infami schiavi
non libero signor; primo di tutti,
e minor di ciascuno
(Timoleone, a. III, sc. 4).



Soprattutto egli è schiavo della ragion di stato, che adultera in lui i sentimenti più naturali, più fondamentali dell'umanità. Così Emone dice al padre Creonte:


Tutto sei re: tuo figlio
non puoi tu amare, a tirannia sostegno
cerchi, non altro
(Antigone, a. IV, sc. 2).



Agli occhi dell'Alfieri non vi sono giustificazioni alla tirannide in artifici giuridici, in vantaggi pratici. Invano Timofane, il tiranno di Corinto, adduce nel Timoleone che egli ha avuto il suo potere dai più, che è stato creato in forza di una legge (a. II, sc. 3); invano adduce l'esempio di Licurgo che per far servire il suo potere al bene comune dovette farsi tiranno, ed enuncia un aforisma che ha dietro di sé tutta una storia dottrinale:


Ah! sola
può la forza al ben far l'uom guasto trarre
(a. I, sc. I).



Invano egli fa il ragionamento (anche questo non meno tradizionale nel pensiero politico) che, se l'unico reggitore è ottimo, ottimo sarà anche il suo governo, ed enumera tutti i vantaggi di un principe saggio, anche se malamente asceso al trono: buone leggi, sicurezza e tranquillità interna, energia e rapidità di azione, e forza e grandezza dello Stato. Timoleone risponde con quel confronto che abbiamo già riportato fra l'Asia e la Grecia, sostenendo l'effetto morale disastroso prodotto dall'assolutismo sul carattere morale (a. III, se. 4), sulla "pianta uomo", per servirsi di un'altra espressione alfieriana. Può il sovrano assoluto aver buona indole, far più bene che male (come Carlo Emanuele III e Vittorio Amedeo III in Piemonte); «con tutto ciò quando si pensa e vivamente si sente che il loro giovare o nuocere vengono dal loro assoluto volere, bisogna fremere, e fuggire» (Vita, epoca IV, c. 13).

Non senza acutezza di osservazione, raggiunta attraverso l'intensità medesima della sua passione libertaria, l'Alfieri afferma che la «tirannide» può cambiare forme col cambiare dei tempi, senza perdere la propria sostanza, che è quella dell'arbitrio: «In questo mansuetissimo secolo, cotanto si è assottigliata l'arte del tiranneggiare, ed ella (come ho dimostrato nel primo libro) si appoggia su tante e cosí ben velate e varie saldissime basi, che non eccedendo i tiranni, o rarissimamente eccedendo i modi coll'universale, e non gli eccedendo quasiché mai co' privati, se non sotto un qualche velo di apparente legalità, la tirannide si è come assicurata in eterno» (Della Tirannide, 1. II, c. 7). A questo proposito egli osserva come il cambiamento lentissimo prodotto dai libri finisca per trasformare totalmente l'opinione; ma contemporaneamente si trasforma anche l'arte del comandare, e gli uomini rimangono sudditi ugualmente (Del Principe e delle lettere, 1. I, c. 8). È lo stesso assolutismo illuminato che qui l'Alfieri colpisce; ma la sua chiaroveggenza non è giunta a tanto da scorgere come in realtà la nuova «mansuetudine» minasse le basi della «tirannia» e preparasse, sia pure senza saperlo e volerlo, lo scoppio, di lì a qualche anno, della rivoluzione.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis