Mentre il Parini valica i confini del riformismo politico
settecentesco col suo sentimento di giustizia sociale, con la
sua contrapposizione di classi, l'Alfieri passa oltre a
quello, si può dire, senza neppure entrarvi, in forza del suo
prepotente individualismo. Schiettamente, radicalmente
individualistico era per verità tutto il pensiero politico del
riformismo settecentesco: ma in maniera assai diversa. Il
riformismo settecentesco mirava all'utilità, al benessere
dell'uomo, e cercava di realizzarli nella vita associata con
un individualismo utilitario e sociale (non sembri assurdo
questo accoppiamento: individualismo sociale, come di termini
antitetici. L'antitesi - che naturalmente anch'essa non
esclude la sintesi imposta dalle necessità della vita, - non è
propriamente fra individuo e società, ma fra individuo e
Stato: la società è composta di individui, è intessuta di
bisogni, di interessi, di sentimenti individuali, e come tale
si contrappone essa medesima allo stato, nel senso di governo,
anzichè identificarsi con quello). L'individualismo
dell'Alfieri è un individualismo idealistico, che ha radice
nel bisogno di affermazione del proprio io. Perciò, mentre il
primo fa capo al concetto di utilità sociale, il secondo fa
capo a quello di libertà politica. Neppure la libertà politica
era ignota al riformismo settecentesco; ma non vi acquistava
rilievo netto, e tanto meno preponderanza, centralità. Era
piuttosto un limite dell'ingerenza governativa, una
conseguenza naturale dell'utilitarismo, un sottinteso della
ragione. La politica. del Settecento ha una tendenza, vedemmo,
«apolitica», e in questo apoliticismo trova una delle sue
caratteristiche. Essa postula un governo illuminato come
strumento del proprio riformismo, del benessere
individuale-sociale, piuttosto che formulare direttamente e
principalmente il problema politico dei diritti dell'individuo
e del popolo nella cosa pubblica e occuparsi sistematicamente
della costituzione di questa. Ciò vale non solo per i
pensatori italiani del Settecento da noi fin qui esaminati, ma
in gran parte anche per quelli francesi. Il Contrat Social del
Rousseau è la maggiore eccezione; ma esso sembra aver avuto
per questa parte (cioè per il problema costituzionale) poca
influenza nella stessa Francia prima della rivoluzione o dei
tempi immediatamente antecedenti ad essa, e certamente ne ebbe
ancora meno in Italia.
Non ne ebbe ad ogni modo nessuna sul liberalismo radicale
dell'Alfieri...
Nucleo del pensiero, del sentimento politico alfieriano è la
libertà individuale, quella che gli «uomini veri» chiamano «di
vita parte» (sonetto introduttivo a Della Tirannide). Coloro
che della libertà non godono e non ne sentono la mancanza,
coloro che non conoscono i diritti dell'uomo e non esercitano
le facoltà umane, usurpano il nome di uomini: essi non sono
che «turpissimi armenti» (Della Tirannide, 1. II, c. 3). È
celebre la confessione da lui fatta nella Vita che tra i suoi
sentimenti predominava «una profonda ferocissima rabbia ed
aborrimento contro ogni qualsivoglia tirannide» (epoca IV, c.
I). Egli non volle vedere Caterina II a Pietroburgo per «odio
purissimo della tirannide in astratto», anche se nel caso
specifico l'avversione era accresciuta dal fatto che si
trattava di persona rea di aver fatto uccidere il marito
(Vita, epoca III, c. 9). E precisamente egli odia la tirannide
perché «i pessimi governi» trascurano e soffocano le virtù dei
temperamenti individuali. Del che aveva sperimentato l'effetto
su se stesso: perché in un breve ritorno in Piemonte,
trovandosi coi «barbassori» governanti, stava piuttosto in
atteggiamento di liberto che d'uomo libero (Vita, epoca IV, c.
13).
Che cosa intende l'Alfieri per tirannide? Non occorre
ricordare che i governi tirannici erano riprovati dagli
scrittori settecenteschi, o per meglio dire erano stati
riprovati sempre dagli scrittori politici anche più ortodossi.
Ma già dalle citazioni che abbiamo fatto s'intravede quale
ampio concetto, diverso dal comune della sua età, avesse
l'Alfieri della tirannide. Lo ha spiegato con molta precisione
egli stesso nei due primi capitoli del suo trattato intitolato
appunto così, trattato che è del 1777. Tiranno va detto non
soltanto chi ha una facoltà illimitata di nuocere, anche se
non ne abusa; ma altresì tirannico è qualsiasi governo nel
quale chi è preposto all'esecuzione delle leggi può farle,
distruggerle, sospenderle, sia poi il governante ereditario o
elettivo, uno o più, legittimo o usurpatore (l. I, c. 2).
Tirannide è anche quando i legislatori sono essi medesimi gli
esecutori delle leggi, o quando i detti esecutori non devono
renderne conto (ivi). E con questi concetti in mano egli
identifica monarchia e tirannide. Non è soltanto nelle
tragedie ch'egli fa chiamare da Giocasta «il fero trono»
un'ingiustizia antica ognor sofferta, e più aborrita ognora, e
fa definire da Polinice il regnare come il far legge d'ogni
propria voglia, il farsi pari ai Numi (Polinice, a. II, sc.
4). Le tirate delle tragedie corrispondono abbastanza
esattamente al pensiero alfieriano, per quanto si può parlare
di un pensiero riflesso riguardo a un così bollente
effonditore dei propri sentimenti nella loro spontaneità
originaria. Non manca tuttavia di un certo vigore logico quel
che egli dice nel secondo capitolo di Della Tirannide: la
monarchia è tirannide, se le leggi non hanno forza per se
stesse, indipendentemente dalla volontà del monarca; se hanno
questa forza, allora non è più monarchia, cioè governo di un
solo. Principe, insomma, è per l'Alfieri uguale a tiranno: è
rilevato espressamente in Della Tirannide (l. 1, c. I) come la
definizione del primo, data in Del Principe e delle Lettere
(l. I, c. 2), sia uguale a quella del secondo. Egli fa
applicazione di questo principio nella Vita (epoca IV, c. 6)
chiamando tirannide la monarchia sabauda e quella francese di
avanti la Rivoluzione.
L'effetto generale della tirannide - o della monarchia - per
l'Alfieri è che «sotto all'assoluto governo di un solo ogni
cosa debb'essere indispensabilmente sconvolta e viziosa»
(Della Tirannide, l. I, c. 5). L'individualismo morale
alfieriano va diritto alle conseguenze etiche di un regime
privo di libertà. Gli stessi sentimenti, le stesse forze
morali subiscono, in un simile regime, un capovolgimento, una
trasformazione totale, che è una totale corruzione. «L'amor di
se stesso nella tirannide non è già l'amore dei propri
diritti, né della propria gloria, né del proprio onore; ma è
semplicemente l'amor della vita animale » (Della Tirannide, l.
I, c. 15). L'ambizione, che è lo stimolo a farsi maggiori
degli altri e di se stessi, «produce del pari e le più
gloriose e le più abbominevoli imprese»: sotto la tirannide si
verifica il secondo caso, perché l'ambizione trova impediti
tutti i fini virtuosi e sublimi (ivi, l. I, c. 5). Nonostante
ogni differenza fra lo spirito dell'Alfieri e quello del
riformismo settecentesco, occorre qui ricordare come nel
Filangieri abbiamo trovato espressi concetti perfettamente
analoghi circa il differente atteggiarsi dell'amor proprio
sotto i governi dispotici e in quelli liberi. La tirannide,
che in Asia fece l'uomo meno che uomo, estirpata dalla Grecia,
fece i Greci pari ai Numi, il primo popolo della terra (Timoleone,
a. III, sc. 4). Sempre per questo suo individualismo morale,
la critica alfieriana s'interessa a rilevare i mali effetti
della tirannide sul tiranno medesimo: quali che siano le
intenzioni sue originarie, il tiranno o re, diviene nemico
della virtù, grave a sé ed agli altri.
di mercar laude
avido ognor, ma convinto in te stesso
che esecrazion sol merti,
sempre pieno di sospetti e di paura, sempre assetato d'oro e
di sangue, privo di amici e di parenti,
a infami schiavi
non libero signor; primo di tutti,
e minor di ciascuno
(Timoleone, a. III, sc. 4).
Soprattutto egli è schiavo della ragion di stato, che adultera
in lui i sentimenti più naturali, più fondamentali
dell'umanità. Così Emone dice al padre Creonte:
Tutto sei re: tuo figlio
non puoi tu amare, a tirannia sostegno
cerchi, non altro
(Antigone, a. IV, sc. 2).
Agli occhi dell'Alfieri non vi sono giustificazioni alla
tirannide in artifici giuridici, in vantaggi pratici. Invano
Timofane, il tiranno di Corinto, adduce nel Timoleone che egli
ha avuto il suo potere dai più, che è stato creato in forza di
una legge (a. II, sc. 3); invano adduce l'esempio di Licurgo
che per far servire il suo potere al bene comune dovette farsi
tiranno, ed enuncia un aforisma che ha dietro di sé tutta una
storia dottrinale:
Ah! sola
può la forza al ben far l'uom guasto trarre
(a. I, sc. I).
Invano egli fa il ragionamento (anche questo non meno
tradizionale nel pensiero politico) che, se l'unico reggitore
è ottimo, ottimo sarà anche il suo governo, ed enumera tutti i
vantaggi di un principe saggio, anche se malamente asceso al
trono: buone leggi, sicurezza e tranquillità interna, energia
e rapidità di azione, e forza e grandezza dello Stato.
Timoleone risponde con quel confronto che abbiamo già
riportato fra l'Asia e la Grecia, sostenendo l'effetto morale
disastroso prodotto dall'assolutismo sul carattere morale (a.
III, se. 4), sulla "pianta uomo", per servirsi di un'altra
espressione alfieriana. Può il sovrano assoluto aver buona
indole, far più bene che male (come Carlo Emanuele III e
Vittorio Amedeo III in Piemonte); «con tutto ciò quando si
pensa e vivamente si sente che il loro giovare o nuocere
vengono dal loro assoluto volere, bisogna fremere, e fuggire»
(Vita, epoca IV, c. 13).
Non senza acutezza di osservazione, raggiunta attraverso
l'intensità medesima della sua passione libertaria, l'Alfieri
afferma che la «tirannide» può cambiare forme col cambiare dei
tempi, senza perdere la propria sostanza, che è quella
dell'arbitrio: «In questo mansuetissimo secolo, cotanto si è
assottigliata l'arte del tiranneggiare, ed ella (come ho
dimostrato nel primo libro) si appoggia su tante e cosí ben
velate e varie saldissime basi, che non eccedendo i tiranni, o
rarissimamente eccedendo i modi coll'universale, e non gli
eccedendo quasiché mai co' privati, se non sotto un qualche
velo di apparente legalità, la tirannide si è come assicurata
in eterno» (Della Tirannide, 1. II, c. 7). A questo proposito
egli osserva come il cambiamento lentissimo prodotto dai libri
finisca per trasformare totalmente l'opinione; ma
contemporaneamente si trasforma anche l'arte del comandare, e
gli uomini rimangono sudditi ugualmente (Del Principe e delle
lettere, 1. I, c. 8). È lo stesso assolutismo illuminato che
qui l'Alfieri colpisce; ma la sua chiaroveggenza non è giunta
a tanto da scorgere come in realtà la nuova «mansuetudine»
minasse le basi della «tirannia» e preparasse, sia pure senza
saperlo e volerlo, lo scoppio, di lì a qualche anno, della
rivoluzione. |