L'attività letteraria dell'Alfieri si inizia con L'esquisse du
jugement universel, tentativo di una rappresentazione satirica
della società del tempo, e si conclude con lo scherno amaro
delle Commedie: né è un caso che al principiante ancora in
cerca di sé medesimo, come all'autore precocemente invecchiato
e ormai staccato dai suoi fantasmi più cari, si offrisse come
materia della sua scrittura il mondo dei vizi e delle
meschinità umane e che la medesima insofferenza che traspare
dai passi più significativi dello scritto giovanile erompa
dalla chiusa dell'ultima commedia.
Spettatori, fischiate a tutt'andare
L'autor, gli attori, e l'Italia, e voi stessi;
Questo è l'applauso debito ai vostri usi.
Quell'insofferenza non era, o non era soltanto, la
manifestazione di aria giovinezza inesperta o di una vecchiaia
delusa, ma uno stato d'animo costante, che non viene meno
nell'Alfieri durante gli anni del fervore creativo e che
diventa sentimento dominante ed esclusivo, appena quel fervore
accenna ad attenuarsi o a spegnersi. Anche nel suo tempo
migliore, quello della composizione delle tragedie, egli
avrebbe potuto dire di sé, - ma l'avrebbe detto con accenti
più vigorosi e personali, «J'eus le défaut d'approuver
rarement ce qui se passoit autour de moi et un penchant
beaucoup plus fort pour blàmer que pour applaudir»: non da
questa o da quella circostanza, soggettiva od oggettiva,
traevano la loro origine i suoi giudizi negativi intorno a
uomini e a cose, ma, quali ne fossero l'occasione e l'oggetto,
da una qualità peculiare del suo spirito, che prima di ogni
altra attrae l'attenzione di chi si accinga a studiarlo.
«Di questo secolo servile ed ozioso, tutto, ben so, t'è nausea
e noia; nulla ti innalza; nulla ti punge; nulla ti
lusinga...», gli dice nel dialogo La virtù sconosciuta l'amico
estinto, vissuto al pari di lui, come egli scrive piangendo
sulla comune sorte, «nei più morti tempi della nostra Italia»,
o, come dirà di sé in un sonetto del Misogallo, «nel più
inerte verno dell'Italia »: e della « feccia nostra presente
», si discorre in quel dialogo, e « vile » in un sonetto è
chiamato il secolo tutto, - «Ma, non mi piacque il vil mio
secolo mai», - e «vile», l'Italia nell'epigramma dedicatorio a
Pasquale Paoli.
Tu invan col brando, ed io con penna
invano
Risuscitar la Italia vil tentammo...
Il biasimo, come si vede, si converte in condanna, una
condanna, che ignora le distinzioni e le sfumature necessarie
e colpisce non questo o quell'aspetto dell'Italia
contemporanea, ma l'Italia tutta, e con l'Italia tutto il
secolo: e la condanna dell'aborrito presente tende a
trasformarsi in una condanna dell'uomo, quale dolorosamente
egli scopre in ogni luogo e in ogni tempo, e, prima che in
altri, in sé medesimo. «Non sempre, anzi le più rade volte
scorgerai nel mio pur troppo piccolo cuore sane ed alte
ragioni che il muovano», sono queste ancora parole della Virtù
sconosciuta, e non diversa da quella di Vittorio suona poco
più innanzi la confessione del suo Francesco: «E forse
spessissimo la fonte di ciò che virtù chiamavi e che tale ti
parca, avresti visto esser tale da dovermi costar lo
svelartelo, non modestia, no, bensì ardire molto e vergogna».
La preoccupazione dei moventi segreti e meno degni, che
ispirano anche le azioni in apparenza più nobili, era, tanti
anni prima delle Commedie, viva nell'intimo petto del poeta,
che non poteva nasconderla nemmeno nell'operetta dedicata alla
celebrazione della virtù singolarissima di quell'«unico»
amico.
Intransigenza di una severa coscienza morale? Non lo si può
negare, ma più ancora di quella intransigenza, la quale non
escluderebbe di per sé una superiore temperanza e pacatezza di
giudizio, i passi citati e i molti altri che si potrebbero
citare, fanno palese un senso acuto e tormentoso delle
debolezze umane. «Il grand'uomo, è pure uomo, e quindi
piccolissima cosa è anch'egli» : il pensiero di questa
piccolezza non abbandona, si può dire, mai l'Alfieri, che è
costretto a riconoscerla anche in quei pochi rari individui
verso i quali bramosamente si volge, offeso dalla mediocrità
degli infiniti altri, e che anche in sé stesso ritrova sempre,
accanto al «gigante», il «nano», ogni qualvolta va meditando
qualche «alta cosa». Davvero, non si può dire che egli nutra
illusioni sulla «vera e scalza, trista natura nostra»: basti
ricordare gli accenni alla «ferocia naturale» dell'uomo o
qualcuno di quegli aforismi, non indegni del Machiavelli,
sparsi nella Vita e nelle opere politiche, o la parola divina,
che nell'Abele si fa sentire ammonitrice dal cielo dopo il
delitto di Caino: «Uom, lasciato a te stesso, ecco qual sei».
Né mancano fra i suoi scritti richiami, in prosa e in versi,
all'animalità dell'uomo e ai suoi inevitabili e meno piacevoli
aspetti, non diversi per l'argomento e per la crudezza
dell'espressione da qualche articolo, a lui ben noto, del
Dictionnaire philosophique. Non per quei passi soli del resto,
coi quali si manifesta in forma estrema quel suo tormentoso
sentimento, siamo indotti a riconoscere in lui quasi una vena
di cinismo: e per vero il suo volto, nel quale una donna,
Isabella Albrizzi, credette di vedere «l'immagine di una
divinità corrucciata», illuminato com'era «da certo splendore
che dopo avergli indorato i capelli pareva diffondersi per
tutta la faccia e irradiarla», ci sembra talora contrarsi in
un ghigno, che non può non far pensare a quello del Voltaire,
l'autore mai dimenticato delle letture giovanili...
Sembra che quanto vi è di positivo nella cultura del tempo
debba inevitabilmente sfuggirgli e che egli ne esasperi le
negazioni, traendone nuovo alimento al suo cruccio e al suo
sdegno. Così, venuta meno in lui la ragionata fiducia del
Voltaire, la considerazione dei mali umani gli ispira soltanto
uno stato di rancore contro la sua condizione di uomo e contro
tanta parte dei suoi simili: ignaro della saggezza predicata
nei libri che gli sono familiari, lo vediamo ribellarsi contro
quei limiti, che i suoi contemporanei stimarono invalicabili,
e talora, diremmo, contro quegli stessi, che gli uomini di
ogni età devono, per vivere, riconoscere. Naturale conclusione
del sonetto Cose omai viste, che si è citato più sopra, è
l'esortazione che il poeta, conscio della vanità della vita,
fa a sé medesimo: «Muori: ei n'è tempo il dì che indarno
arditi Gli occhi addentrando nei futuri lutti, Cieco esser
senti e d'esserlo t'irriti»: ma al rifiuto della vita, prima
ancora dei suoi eroi, egli sembra tendere in tutta la sua
opera.
È negli Annali la nota confessione, «1749. A' 17 gennaio
nacqui per mia disgrazia», e, parecchi anni innanzi in uno dei
primi sonetti, aveva scritto: «Nascer, sì nascer chiamo aspra
vicenda, Non il morir, ond'io d'angosce tante Scevro
rimango...», e in una pagina dei Giornali, discorrendo del suo
proposito di rendersi familiare il pensiero della morte:
«M'arrabbia il vedere nella natura umana una tenacità
nell'amar codesta prigione corporea tanto più quanto val
meno». Quasi potremmo crederlo un mistico, quest'uomo del
secolo decimottavo, che pure in quello stesso anno faceva
professione di fede sensistica, - «Veder, toccare, udir,
gustar, sentire, Tanto, e non più, ne diè Natura avara...» - e
che come qui di «prigione corporea», parla altrove del
«mondo», non diversamente d'un cristiano, tutto rivolto alla
patria celeste!
Non giunto a mezzo di mia vita ancora,
Pur sazio e stanco del goder fallace
Son di quest'empio, traditor, mendace mondo...
La sua irrequietezza non era l'uneaseness del Locke, in cui il
pensiero del tempo riconosceva la molla necessaria
dell'azione, bensì l'inquietudine che sarà dei romantici,
tormento di chi si sente troppo più grande del mondo in cui è
posto a vivere e in cui pensa non gli sia dato manifestare la
sua singolare, intima forza. Già nella sua pagina diremmo di
aver letto le parole estreme del suo minore fratello
recanatese: «Non val cosa nessuna I moti tuoi...»: ma, ad
esprimere anzi a simboleggiare il suo sentire, basta, con
quella del carcere, l'immagine del «deserto», che più d'una
volta incontriamo ne' suoi scritti, s'a che della solitudine
selvaggia il poeta si compiaccia quasi in essa sola trovi la
sua patria vera, - «Sol nei deserti tacciono i miei guai», -
sia che, guardando intorno a sé, non riesca a scorgere nello
spettacolo vario del mondo se non un eguale, tedioso grigiore.
Non soltanto la disperazione per il distacco dalla sua donna
gli faceva vagheggiare la «vita muta, solitaria, dura» dei
monaci della Grande Chartreuse e gli ispirava questa grande,
desolata quartina!
Dell'empio mondo traditore il vuoto,
I casi vari e sempre pur gli stessi,
E l'aspra noia, e il rio languor mi è noto,
Né più vedrei, se in lui mill'anni stessi.
Anche quando quel tristissimo 1783 sarà un ricordo lontano, il
concetto e qualcuna delle espressioni di questi versi
ritorneranno in quel sonetto, nel quale con animo più pacato
il poeta cerca di chiarire quel sentimento, che da tanto tempo
gli è ormai familiare.
Cose ormai viste, e a sazietà riviste,
Sempre vedrai, s'anco mill'anni vivi:
E studia, e ascolta, e pensa, e inventa, e scrivi,
Mai non fia ch'oltre l'uom passo ti acquiste.
E certo non mai così chiaramente come in questo sonetto egli
riconobbe quale fosse la cagione vera della sua tristezza:
quell'ansia di grandezza, che, dopo averlo spinto a farsi «singular
fra l'altra gente», e poi a cercare fuori del consorzio umano,
nei «deserti», il mondo più veramente suo, non mai placata,
gli faceva intravedere, al di là dell'umanità, il fantasma,
irraggiungibile, del superuomo, e, infondendogli nel petto
l'amore della vita più che umana, gli toglieva il gusto stesso
del vivere.
Mai non fia ch'oltre l'uom passo ti
acquiste...
Il grido d'orgoglio della sua età, così fiera delle proprie
conquiste e così fiduciosa nelle tante altre, che attendeva
prossime, e in un progresso indefinito, che vedeva schiudersi
dinanzi, moriva sulle sue labbra: ma l'impulso che spingeva i
suoi contemporanei ad un'opera varia e feconda di rinnovamento
in ogni campo del sapere e della vita civile, non era spento
in lui, che, nulla stimando i fini conseguiti o quelli più
facilmente conseguibili, «nil actum credens dum quid
superesset agendum», si protendeva col desiderio verso un fine
così elevato, che scolorava ai suoi occhi ogni risultato
possibile dell'umana attività. L'esaltazione dell'uomo cedeva
il luogo al sogno del superuomo, e le conseguenze pratiche non
erano per questo molto diverse - alla persuasione di essere
circondato da tanti, che «usurpano il nome di uomini», e che
l'uomo vero fosse da cercare soltanto in un passato remoto o
in un avvenire lontano e mal determinato. Regresso? Eppure,
quel pessimismo che sembrava negare l'opera multiforme del
secolo e inaridire le fonti stesse dell'azione, rappresentava
un affinamento nella coscienza morale del tempo, poiché
opponeva alla soddisfazione per i risultati conseguiti un
dubbio salutare sul loro effettivo valore e lasciava
intravedere al di là degli scopi immediati un superiore ideale
di vita. Ricordiamo che l'Alfieri, seguace fedele, se pur
riluttante, dei suoi maestri, non mostra mai nei suoi scritti
di considerare il piacere come il fine della nostra vita, così
come non si preoccupa nella sua speculazione politica del
benessere dei singoli o delle collettività: per istinto,
diremmo, - ché per una critica di concetti non era fatto, -
egli respingeva l'edonismo della morale contemporanea, ed
anche il suo pessimismo non sorgeva dalla persuasione che
irraggiungibile è la felicità, ma, come si è detto, dalla
preoccupazione della grandezza, ossia della affermazione piena
ed intera della personalità umana, che egli sentiva, in sé
stesso e in altrui impedita e limitata da tanti ostacoli
interni ed esterni e talora gli pareva addirittura possibile
soltanto in condizioni affatto diverse da quelle in cui siamo
posti a vivere, e, perciò in effetto, mero e doloroso
desiderio.
Mai non fia ch'oltre l'uom passo ti
acquiste.
Non così avevano salutato quel sogno, che gonfiava
d'entusiasmo il loro petto, i rappresentanti dello Sturm und
Drang germanico, negatori, al pari dell'Alfieri, degli spiriti
utilitari e antieroici della morale illuministica e dotati,
come egli era, di un senso vivissimo e quasi esasperato della
propria singolare ed unica individualità. La gioia trionfale
del titanismo, il nostro poeta non la conobbe, o forse appena
la presenti nella sua prima giovinezza - come ci par di
intravedere attraverso la narrazione della Vita: -- né fu
anche sua l'orgogliosa coscienza, che gli Sturmer ebbero, di
poter improntare, non diversamente dalla divinità, del loro
spirito creatore un proprio mondo. Se la figura, che impersona
nella forma artisticamente più pura quello stato d'animo, il
Prometeo goethiano, leva sereno e impavido il suo sguardo
incontro a Zeus, in mezzo alle creature che va formando a sua
immagine («Hier sitz' ich, forme Menschet, - Nach meinem Bilde
- Ein Geschlecht, das mir gleich sei, - Zu leiden, zu weinen,
- Zu geniessen und zu freuen sich, - Und dein nicht zu achten
- Wie ich»), Saul, la massima espressione del titanismo
alfieriano, soltanto nell'istante supremo si erge di fronte
all'inesorabile Dio, ma la forza della sua volontà altrimenti
non può manifestare che col darsi la morte. È palese la
ragione, culturale e confessionale, di questi diversi sviluppi
di un medesimo stato d'animo: come è anche palese che, in
confronto con quello germanico, il titanismo alfieriano debba
sembrare assai povero di senso cosmico e metafisico, tutto
rivolto com'è il nostro poeta al mondo limitato degli uomini e
al conflitto dei loro ideali politici - anche il Saul più che
il contrasto fra il re ebreo e il suo Dio, rappresenta il
contrasto fra Saul e Davide, o meglio, il travaglio del
vecchio sovrano, anelante a ricuperare l'integrità del proprio
volere. Ma è anche da aggiungere che la coscienza della vanità
del suo sogno superumano, preservò l'Alfieri da quel che di
torbido ed impuro ci colpisce nelle manifestazioni dei minori
Sturmer (quanto innocenti, al confronto, il rosso mantello
svolazzante, e le corse sfrenate a cavallo, e le altre famose
sue originalità): nella sua sofferenza, che è così visibile
sul suo volto e che lo purifica da quanto vi era d'orgoglioso
nel suo desiderio di grandezza, come da quel che vi potè
essere di cinico e di crudele in certi atteggiamenti verso i
suoi simili, riconosciamo il segno di una viva sensibilità
morale, e nel pessimismo di tanti suoi accenti, la serietà di
uno spirito che non si abbandona a un facile entusiasmo, e,
non riuscendo a convertire il proprio ideale etico in una fede
rasserenatrice, non maschera la propria incapacità con vane
effusioni, ma insiste più che sul contenuto positivo della sua
idealità, su quanto le si oppone e sembra negarla. |