CRITICA: VITTORIO ALFIERI

 PESSIMISMO ALFIERIANO

 AUTORE: Mario Fubini    TRATTO DA: Vittorio Alfieri: Il pensiero - la tragedia

 

L'attività letteraria dell'Alfieri si inizia con L'esquisse du jugement universel, tentativo di una rappresentazione satirica della società del tempo, e si conclude con lo scherno amaro delle Commedie: né è un caso che al principiante ancora in cerca di sé medesimo, come all'autore precocemente invecchiato e ormai staccato dai suoi fantasmi più cari, si offrisse come materia della sua scrittura il mondo dei vizi e delle meschinità umane e che la medesima insofferenza che traspare dai passi più significativi dello scritto giovanile erompa dalla chiusa dell'ultima commedia.


Spettatori, fischiate a tutt'andare
L'autor, gli attori, e l'Italia, e voi stessi;
Questo è l'applauso debito ai vostri usi.



Quell'insofferenza non era, o non era soltanto, la manifestazione di aria giovinezza inesperta o di una vecchiaia delusa, ma uno stato d'animo costante, che non viene meno nell'Alfieri durante gli anni del fervore creativo e che diventa sentimento dominante ed esclusivo, appena quel fervore accenna ad attenuarsi o a spegnersi. Anche nel suo tempo migliore, quello della composizione delle tragedie, egli avrebbe potuto dire di sé, - ma l'avrebbe detto con accenti più vigorosi e personali, «J'eus le défaut d'approuver rarement ce qui se passoit autour de moi et un penchant beaucoup plus fort pour blàmer que pour applaudir»: non da questa o da quella circostanza, soggettiva od oggettiva, traevano la loro origine i suoi giudizi negativi intorno a uomini e a cose, ma, quali ne fossero l'occasione e l'oggetto, da una qualità peculiare del suo spirito, che prima di ogni altra attrae l'attenzione di chi si accinga a studiarlo.

«Di questo secolo servile ed ozioso, tutto, ben so, t'è nausea e noia; nulla ti innalza; nulla ti punge; nulla ti lusinga...», gli dice nel dialogo La virtù sconosciuta l'amico estinto, vissuto al pari di lui, come egli scrive piangendo sulla comune sorte, «nei più morti tempi della nostra Italia», o, come dirà di sé in un sonetto del Misogallo, «nel più inerte verno dell'Italia »: e della « feccia nostra presente », si discorre in quel dialogo, e « vile » in un sonetto è chiamato il secolo tutto, - «Ma, non mi piacque il vil mio secolo mai», - e «vile», l'Italia nell'epigramma dedicatorio a Pasquale Paoli.


Tu invan col brando, ed io con penna invano
Risuscitar la Italia vil tentammo...



Il biasimo, come si vede, si converte in condanna, una condanna, che ignora le distinzioni e le sfumature necessarie e colpisce non questo o quell'aspetto dell'Italia contemporanea, ma l'Italia tutta, e con l'Italia tutto il secolo: e la condanna dell'aborrito presente tende a trasformarsi in una condanna dell'uomo, quale dolorosamente egli scopre in ogni luogo e in ogni tempo, e, prima che in altri, in sé medesimo. «Non sempre, anzi le più rade volte scorgerai nel mio pur troppo piccolo cuore sane ed alte ragioni che il muovano», sono queste ancora parole della Virtù sconosciuta, e non diversa da quella di Vittorio suona poco più innanzi la confessione del suo Francesco: «E forse spessissimo la fonte di ciò che virtù chiamavi e che tale ti parca, avresti visto esser tale da dovermi costar lo svelartelo, non modestia, no, bensì ardire molto e vergogna». La preoccupazione dei moventi segreti e meno degni, che ispirano anche le azioni in apparenza più nobili, era, tanti anni prima delle Commedie, viva nell'intimo petto del poeta, che non poteva nasconderla nemmeno nell'operetta dedicata alla celebrazione della virtù singolarissima di quell'«unico» amico.

Intransigenza di una severa coscienza morale? Non lo si può negare, ma più ancora di quella intransigenza, la quale non escluderebbe di per sé una superiore temperanza e pacatezza di giudizio, i passi citati e i molti altri che si potrebbero citare, fanno palese un senso acuto e tormentoso delle debolezze umane. «Il grand'uomo, è pure uomo, e quindi piccolissima cosa è anch'egli» : il pensiero di questa piccolezza non abbandona, si può dire, mai l'Alfieri, che è costretto a riconoscerla anche in quei pochi rari individui verso i quali bramosamente si volge, offeso dalla mediocrità degli infiniti altri, e che anche in sé stesso ritrova sempre, accanto al «gigante», il «nano», ogni qualvolta va meditando qualche «alta cosa». Davvero, non si può dire che egli nutra illusioni sulla «vera e scalza, trista natura nostra»: basti ricordare gli accenni alla «ferocia naturale» dell'uomo o qualcuno di quegli aforismi, non indegni del Machiavelli, sparsi nella Vita e nelle opere politiche, o la parola divina, che nell'Abele si fa sentire ammonitrice dal cielo dopo il delitto di Caino: «Uom, lasciato a te stesso, ecco qual sei». Né mancano fra i suoi scritti richiami, in prosa e in versi, all'animalità dell'uomo e ai suoi inevitabili e meno piacevoli aspetti, non diversi per l'argomento e per la crudezza dell'espressione da qualche articolo, a lui ben noto, del Dictionnaire philosophique. Non per quei passi soli del resto, coi quali si manifesta in forma estrema quel suo tormentoso sentimento, siamo indotti a riconoscere in lui quasi una vena di cinismo: e per vero il suo volto, nel quale una donna, Isabella Albrizzi, credette di vedere «l'immagine di una divinità corrucciata», illuminato com'era «da certo splendore che dopo avergli indorato i capelli pareva diffondersi per tutta la faccia e irradiarla», ci sembra talora contrarsi in un ghigno, che non può non far pensare a quello del Voltaire, l'autore mai dimenticato delle letture giovanili...

Sembra che quanto vi è di positivo nella cultura del tempo debba inevitabilmente sfuggirgli e che egli ne esasperi le negazioni, traendone nuovo alimento al suo cruccio e al suo sdegno. Così, venuta meno in lui la ragionata fiducia del Voltaire, la considerazione dei mali umani gli ispira soltanto uno stato di rancore contro la sua condizione di uomo e contro tanta parte dei suoi simili: ignaro della saggezza predicata nei libri che gli sono familiari, lo vediamo ribellarsi contro quei limiti, che i suoi contemporanei stimarono invalicabili, e talora, diremmo, contro quegli stessi, che gli uomini di ogni età devono, per vivere, riconoscere. Naturale conclusione del sonetto Cose omai viste, che si è citato più sopra, è l'esortazione che il poeta, conscio della vanità della vita, fa a sé medesimo: «Muori: ei n'è tempo il dì che indarno arditi Gli occhi addentrando nei futuri lutti, Cieco esser senti e d'esserlo t'irriti»: ma al rifiuto della vita, prima ancora dei suoi eroi, egli sembra tendere in tutta la sua opera.

È negli Annali la nota confessione, «1749. A' 17 gennaio nacqui per mia disgrazia», e, parecchi anni innanzi in uno dei primi sonetti, aveva scritto: «Nascer, sì nascer chiamo aspra vicenda, Non il morir, ond'io d'angosce tante Scevro rimango...», e in una pagina dei Giornali, discorrendo del suo proposito di rendersi familiare il pensiero della morte: «M'arrabbia il vedere nella natura umana una tenacità nell'amar codesta prigione corporea tanto più quanto val meno». Quasi potremmo crederlo un mistico, quest'uomo del secolo decimottavo, che pure in quello stesso anno faceva professione di fede sensistica, - «Veder, toccare, udir, gustar, sentire, Tanto, e non più, ne diè Natura avara...» - e che come qui di «prigione corporea», parla altrove del «mondo», non diversamente d'un cristiano, tutto rivolto alla patria celeste!


Non giunto a mezzo di mia vita ancora,
Pur sazio e stanco del goder fallace
Son di quest'empio, traditor, mendace mondo...



La sua irrequietezza non era l'uneaseness del Locke, in cui il pensiero del tempo riconosceva la molla necessaria dell'azione, bensì l'inquietudine che sarà dei romantici, tormento di chi si sente troppo più grande del mondo in cui è posto a vivere e in cui pensa non gli sia dato manifestare la sua singolare, intima forza. Già nella sua pagina diremmo di aver letto le parole estreme del suo minore fratello recanatese: «Non val cosa nessuna I moti tuoi...»: ma, ad esprimere anzi a simboleggiare il suo sentire, basta, con quella del carcere, l'immagine del «deserto», che più d'una volta incontriamo ne' suoi scritti, s'a che della solitudine selvaggia il poeta si compiaccia quasi in essa sola trovi la sua patria vera, - «Sol nei deserti tacciono i miei guai», - sia che, guardando intorno a sé, non riesca a scorgere nello spettacolo vario del mondo se non un eguale, tedioso grigiore. Non soltanto la disperazione per il distacco dalla sua donna gli faceva vagheggiare la «vita muta, solitaria, dura» dei monaci della Grande Chartreuse e gli ispirava questa grande, desolata quartina!


Dell'empio mondo traditore il vuoto,
I casi vari e sempre pur gli stessi,
E l'aspra noia, e il rio languor mi è noto,
Né più vedrei, se in lui mill'anni stessi.



Anche quando quel tristissimo 1783 sarà un ricordo lontano, il concetto e qualcuna delle espressioni di questi versi ritorneranno in quel sonetto, nel quale con animo più pacato il poeta cerca di chiarire quel sentimento, che da tanto tempo gli è ormai familiare.


Cose ormai viste, e a sazietà riviste,
Sempre vedrai, s'anco mill'anni vivi:
E studia, e ascolta, e pensa, e inventa, e scrivi,
Mai non fia ch'oltre l'uom passo ti acquiste.



E certo non mai così chiaramente come in questo sonetto egli riconobbe quale fosse la cagione vera della sua tristezza: quell'ansia di grandezza, che, dopo averlo spinto a farsi «singular fra l'altra gente», e poi a cercare fuori del consorzio umano, nei «deserti», il mondo più veramente suo, non mai placata, gli faceva intravedere, al di là dell'umanità, il fantasma, irraggiungibile, del superuomo, e, infondendogli nel petto l'amore della vita più che umana, gli toglieva il gusto stesso del vivere.


Mai non fia ch'oltre l'uom passo ti acquiste...


Il grido d'orgoglio della sua età, così fiera delle proprie conquiste e così fiduciosa nelle tante altre, che attendeva prossime, e in un progresso indefinito, che vedeva schiudersi dinanzi, moriva sulle sue labbra: ma l'impulso che spingeva i suoi contemporanei ad un'opera varia e feconda di rinnovamento in ogni campo del sapere e della vita civile, non era spento in lui, che, nulla stimando i fini conseguiti o quelli più facilmente conseguibili, «nil actum credens dum quid superesset agendum», si protendeva col desiderio verso un fine così elevato, che scolorava ai suoi occhi ogni risultato possibile dell'umana attività. L'esaltazione dell'uomo cedeva il luogo al sogno del superuomo, e le conseguenze pratiche non erano per questo molto diverse - alla persuasione di essere circondato da tanti, che «usurpano il nome di uomini», e che l'uomo vero fosse da cercare soltanto in un passato remoto o in un avvenire lontano e mal determinato. Regresso? Eppure, quel pessimismo che sembrava negare l'opera multiforme del secolo e inaridire le fonti stesse dell'azione, rappresentava un affinamento nella coscienza morale del tempo, poiché opponeva alla soddisfazione per i risultati conseguiti un dubbio salutare sul loro effettivo valore e lasciava intravedere al di là degli scopi immediati un superiore ideale di vita. Ricordiamo che l'Alfieri, seguace fedele, se pur riluttante, dei suoi maestri, non mostra mai nei suoi scritti di considerare il piacere come il fine della nostra vita, così come non si preoccupa nella sua speculazione politica del benessere dei singoli o delle collettività: per istinto, diremmo, - ché per una critica di concetti non era fatto, - egli respingeva l'edonismo della morale contemporanea, ed anche il suo pessimismo non sorgeva dalla persuasione che irraggiungibile è la felicità, ma, come si è detto, dalla preoccupazione della grandezza, ossia della affermazione piena ed intera della personalità umana, che egli sentiva, in sé stesso e in altrui impedita e limitata da tanti ostacoli interni ed esterni e talora gli pareva addirittura possibile soltanto in condizioni affatto diverse da quelle in cui siamo posti a vivere, e, perciò in effetto, mero e doloroso desiderio.


Mai non fia ch'oltre l'uom passo ti acquiste.


Non così avevano salutato quel sogno, che gonfiava d'entusiasmo il loro petto, i rappresentanti dello Sturm und Drang germanico, negatori, al pari dell'Alfieri, degli spiriti utilitari e antieroici della morale illuministica e dotati, come egli era, di un senso vivissimo e quasi esasperato della propria singolare ed unica individualità. La gioia trionfale del titanismo, il nostro poeta non la conobbe, o forse appena la presenti nella sua prima giovinezza - come ci par di intravedere attraverso la narrazione della Vita: -- né fu anche sua l'orgogliosa coscienza, che gli Sturmer ebbero, di poter improntare, non diversamente dalla divinità, del loro spirito creatore un proprio mondo. Se la figura, che impersona nella forma artisticamente più pura quello stato d'animo, il Prometeo goethiano, leva sereno e impavido il suo sguardo incontro a Zeus, in mezzo alle creature che va formando a sua immagine («Hier sitz' ich, forme Menschet, - Nach meinem Bilde - Ein Geschlecht, das mir gleich sei, - Zu leiden, zu weinen, - Zu geniessen und zu freuen sich, - Und dein nicht zu achten - Wie ich»), Saul, la massima espressione del titanismo alfieriano, soltanto nell'istante supremo si erge di fronte all'inesorabile Dio, ma la forza della sua volontà altrimenti non può manifestare che col darsi la morte. È palese la ragione, culturale e confessionale, di questi diversi sviluppi di un medesimo stato d'animo: come è anche palese che, in confronto con quello germanico, il titanismo alfieriano debba sembrare assai povero di senso cosmico e metafisico, tutto rivolto com'è il nostro poeta al mondo limitato degli uomini e al conflitto dei loro ideali politici - anche il Saul più che il contrasto fra il re ebreo e il suo Dio, rappresenta il contrasto fra Saul e Davide, o meglio, il travaglio del vecchio sovrano, anelante a ricuperare l'integrità del proprio volere. Ma è anche da aggiungere che la coscienza della vanità del suo sogno superumano, preservò l'Alfieri da quel che di torbido ed impuro ci colpisce nelle manifestazioni dei minori Sturmer (quanto innocenti, al confronto, il rosso mantello svolazzante, e le corse sfrenate a cavallo, e le altre famose sue originalità): nella sua sofferenza, che è così visibile sul suo volto e che lo purifica da quanto vi era d'orgoglioso nel suo desiderio di grandezza, come da quel che vi potè essere di cinico e di crudele in certi atteggiamenti verso i suoi simili, riconosciamo il segno di una viva sensibilità morale, e nel pessimismo di tanti suoi accenti, la serietà di uno spirito che non si abbandona a un facile entusiasmo, e, non riuscendo a convertire il proprio ideale etico in una fede rasserenatrice, non maschera la propria incapacità con vane effusioni, ma insiste più che sul contenuto positivo della sua idealità, su quanto le si oppone e sembra negarla.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis