Non è ricchissimo l'epistolario dell'Alfieri ed a un lettore
poco iniziato può sembrare perfino poco alfieriano un
epistolario in cui non si sente il continuo scatto di una
passione che si fa ritmo gagliardo, in cui non ritorna il
romanzesco procedere della Vita.
Ed è proprio a una precisazione migliore del temperamento
alfieriano, troppo spesso presentato in maniera scolastica
come crucciato e fremente, che le lettere servono
mirabilmente, lumeggiando con accenni minuti e poco retorici
quelle venature, presenti in ogni opera alfieriana, di una
sostanza di umanità non astrattamente eroica, di un'attenzione
poetica acuta e sensibile ai dati più elementari della
giornata umana che anche nelle prime pagine della Vita hanno
fatto parlare di poesia della memoria, di Proust, di analisi
poetica. Perciò l'uso dell'epistolario nella conoscenza
dell'Alfieri appare essenziale, in quanto, fuori della
pettegola e assurda misurazione del possibile divario fra
l'uomo reale e il suo ritratto poetico, ci permette di
accertare la concretezza, l'aderenza vitale, ricca anche di
abbandoni, di care nostalgie, che nutrono la tensione di un
grande poeta che la tradizione più comune ha immaginato troppo
convulsa, continuamente clamorosa. Donde derivava quella
impressione di venerazione e di fastidio in una lettura
scolastica e retorica che distacca dall'Alfieri tanti lettori
che pure amano Leopardi e Foscolo.
Il vero Alfieri, il grande poeta del preromanticismo italiano,
il poeta di una passione di liberazione non solo politica e
patriottica, ma diremmo religiosa e profondamente personale
che si inserisce nella storia della spiritualità romantica, è
assai più complesso e presuppone un atteggiamento intimo che
non è semplice furia di lotta, di gesti essenziali, ma è anche
agio di osservazione, bisogno di concretezza, possibilità di
sogno, di tristezza nostalgica. Così che le sue orribili
melanconie, il suo romantico amore d'infinito hanno la base su
sentimenti più limitati e gustati, su visioni di paesaggi non
astratti. E proprio l'Alfieri, il «volontarista» dell'arte,
rivela così invece un gusto intimo di esperienza, una
sensibilità di quotidiane sensazioni, che, se non equivalgono
certo all'attenzione leopardiana per il proprio vivere
dolente, hanno una sicura validità nel rendere tanto più
concreto e sensibile l'alto mondo di Saul e di Mirra.
Certo, sempre gli epistolari rivelano i poeti nella loro
espressione più nuda, nella loro reazione alle vicende, nel
loro volto meno mascherato ma, nel caso dell'Alfieri, una
specie di nudo lirismo sale da queste pagine poco elaborate e
coincide con quel tono di esperienza non sempre rapita, di
sensibilità più pacata che si può ben sentire in certe parti
della Vita, perfino in versi delle Rime o delle Tragedie: quel
gusto sobriamente edonistico delle azioni mescolate sempre a
un tedio nascente, a un fremito, a un disperato bisogno di
affetti realmente vissuti, che nutre la più esaltata poesia
alfieriana, che porta il suo segreto sapore nella scena più
desolata.
Tutta un'aria di vita non eccezionale e non convulsa circola
nell'epistolario e ci assicura l'esclusione di un persistere
maniaco in una posa, aggiunge agli impeti alfieriani il
sostegno di una concretezza quotidiana nella relazione con gli
uomini e con le cose. Torna vivo nelle lettere il senso del
tempo vissuto; il milieu settecentesco con le sue relazioni
affettuose, ma scrupolosamente riguardose, con i suoi
particolari di scomodo e di agio lussuoso (viaggi, carrozze,
poste, locande, palazzi grandiosi e mal riscaldati), con il
suo brio riposato, con il suo accento accademico, e insieme il
tono sensibile ed elegante che nella cortesia un po' brusca
dell'Alfieri si fa sentimentale, a volte già integralmente
romantico. «E chi sa ch'io da una donna che sente non cavi più
lumi assai che da professori che hanno il cuor col pelo?»:
scrive in una lettera dell'85, e questi accenni a una
sensibilità che da sensistica si fa romantica, si moltiplicano
specie in quel gruppo di lettere - il più unitario e il più
gustoso - scritte a Mario Bianchi e Teresa Mocenni, la coppia
amante di Siena a cui l'Alfieri indirizza le sue espressioni
più intime e continue in una sorta di diario ravvivato da una
nostalgia che non si precisa, ma s'intende, per Siena, e da
una confidenza, da un legame nati da una morte e conclusi con
una morte (quella di «Checco» il Gori-Gandellini, il modello
della «virtù sconosciuta» e quella dello stesso Bianchi),
confermati da una simpatia di situazione simile (una coppia
irregolare come quella dell'Alfieri e della Albany), da una
intesa di «fini amanti» («Mi s'arricciano i capelli sempre che
io penso al pericolo che si corre quando si vive in altri come
facciam noi», al Bianchi, 9 aprile '86) e da una sollecitudine
affettuosa e quasi protettrice per la malattia dell'amico, che
danno a queste lettere un incanto di stile insolitamente
tenero e triste, sorridente e pessimistico in uno sfondo di
comprensione senza coturno tragico, senza pensiero di gloria.
C'è in queste lettere, ben più sensibili di quelle scritte
alla madre o all'abate di Caluso (confidente piuttosto di
preoccupazioni culturali ed artistiche), un fondo di tristezza
non corrucciata, coerente con il tono amichevole e sorridente
di racconti, di inviti. Una tristezza pensosa che sale fino ad
espressioni risolute e potenti («Sono tristissimo e solo nel
mondo»), ma che per lo più le svolgono da un contesto più
calmo e quasi abbandonato: «Mi saluti la Teresina caramente e
beato lei che ogni giorno può pur vederla e contarle i suoi
guai e sentire i suoi, sola dolcezza della vita: il resto è
morir continuo» (al Bianchi, 20 dicembre '84). Questa
malinconia non è certo la «ninfa gentile» del Pindemonte e
mantiene la serietà grave della tragedia, ma è insieme un tono
d'intimità, che dà un sapore più profondo alle maggiori
tensioni delle tragedie e le giustifica fuori di una astratta
grandezza, in una concreta, sofferta umanità. Una malinconia
che placa il ritmo prosastico, lo scioglie in un abbandono di
timbro romantico, in cui si affaccia il motivo, che sarà poi
foscoliano, della morte come affermazione antiretorica e pace
del tumulto passionale. «Penso spessissimo a Checco nelle mie
passeggiate mattutine e dico: questo luogo gli piacerebbe,
questa città, questo fiume, e poi piango e poi leggo il
Petrarca, che sempre ho in tasca; penso alla Donna mia e
ripiango; e così tiro innanzi e desidero la morte, e mi spiace
di non aver ragioni per darmela» (al Bianchi, da Pisa, 8
luglio '8S). Abbandoni nostalgici sempre più intimi e avidi di
una zona di silenzio, colmata solo da intensi affetti, da un
senso del nuovo valore del sentimento che distacca recisamente
l'Alfieri dall'equilibrio settecentesco: «Giova assai più alla
fantasia e all'affetto il credere che il nostro Mario sia col
Candido e col Gori, e che stiano parlando e pensando di noi, e
che li rivedremo una volta, che non di crederli tutti un pugno
di cenere. Se tal credenza ripugna alla fisica e all'evidenza
gelida matematica, non è perciò da disprezzarsi; il primo
pregio dell'uomo è il sentire; e le scienze insegnano a non
sentire. Viva dunque l'ignoranza e la poesia, per quanto elle
possono stare insieme: immaginiamo, e crediamo l'immaginato
per vero: l'uomo vive d'amore, l'amore lo fa Dio: ché Dio
chiamo io l'uomo vivissimamente sentente» (scriveva il 10
dicembre '96 alla Mocenni dopo la morte del Bianchi).
Ma sempre queste esplosioni più forti, che si collegano poi a
espressioni più facilmente riferibili all'Alfieri eroico e
tragico, al suo tormento, che qui ha mostrato la sua origine
più intima e altrove ha le sue giustificazioni ideali più
vaste, sono preparate e sostenute da una trama più minuta di
cronaca quotidiana modesta e sincera, di atteggiamenti assorti
che costituiscono la chiara base di uno stato d'animo poetico,
sognante e attento, che era necessario anche per gli scatti di
una tensione più drammatica. Ecco così formarsi da certe sue
lettere un'aura di quiete, in cui il fremito alfieriano perde
il suo battere più convenzionale, è pena intima bisognosa di
espressione; è l'orario scrupolosamente seguito in giornate
ormai prive dell'avventurosità giovanile, il lavoro notturno
alla lucerna interrotto da cavalcate mattutine entro panorami
pisani o alsaziani (ma il «suo» panorama è quello toscano e
soprattutto l'incontro ideale Pisa-Siena), il cocciuto
colloquio con il Caluso sul senile studio del greco e sulla
letteratura seguìta nei segreti più tecnici dello stile (e
illuminata da rapide e audaci intuizioni: «Il Petrarca avrebbe
eternato la sua gatta se ne avesse voluto scrivere quanto la
sua Laura», 25 novembre '99), la esplicita dichiarazione di
una vita tutta in profondità e in casalinga tranquillità: «I
veri letterati, che non fanno bottega del loro sapere, sono
veramente i re di questo mondo e le gerarchie e i santi
dell'altro. Lo studio e i libri e le dolcezze domestiche,
aspettando la morte, sono veramente le sole cose che meritino
d'esser considerate dall'uomo, quando ha sfogata la gioventù»
(al Caluso, 21 aprile 18oo). È appunto di questo Alfieri
impegnato ormai nella sua vita più vera di poeta, prima calda
d'affetti che tendono e giustificano la sua poesia, poi sempre
più rinchiusa nello studio come preparazione «alla morte» (e
la presenza della morte è tra le più assidue presenze, con
l'amicizia, e l'amore, in questo epistolario), è di questo
Alfieri, fermo nel suo «degno amore» e nella sua poesia, che
le lettere ci parlano nel loro stile poco retorico e avviato a
soluzioni più alleggerite e sottili, più modestamente concrete
nel loro carattere poco impegnativo, rispetto all'alto
linguaggio poetico, che proprio in queste prove meno solenni
ha la riprova migliore di una sublimità non astratta, di una
tensione non vacua e retorica. |