CRITICA: L'ARCADIA E IL METASTASIO

 ARCADIA E ILLUMINISMO

 AUTORE: Mario Fubini    TRATTO DA: Questioni e correnti di storia letteraria

 

Non vi era, per il Parini un'antitesi fra arcadia e illuminismo: né facile riesce anche a noi segnare dei limiti precisi quando rinunciamo a fare di quei nomi degli idoli polemici e cerchiamo di vedere più da vicino la realtà delle cose. Ci accadrà allora di trovare di ogni idea, enunciata da un illuminista e che ci era parsa tipica dell'illuminismo, dei precedenti nelle opere dei «riformatori» arcadici: non già per la ragione ovvia che non vi è idea della quale non si possano rintracciare precedenti in epoca diversa da quella in cui si è affermata, ma per un motivo più specifico, vale a dire l'affinità profonda che vi è fra il pensiero degli uni e il pensiero degli altri, fra quelli almeno che ne sono i concetti direttivi, se non fra i propositi ultimi. Quando leggiamo, ad esempio, nell'esordio del discorso pariniano Sopra la poesia, la celebrazione, di tono così schiettamente illuministico, dello «spirito filosofico», che, scrive il poeta del Giorno, «quasi un genio felice sorto a dominare la letteratura del presente secolo, scorre colla facella della verità accesa nelle mani, non pur l'Inghilterra, la Francia e l'Italia, ma la Germania e le Spagne, dissipando le dense tenebre de' pregiudizi autorizzati dalla lunga età e dalle venerande barbe dei nostri maggiori , e, come in ogni altro campo dello scibile, si è affermato anche nella poesia, divenuta essa pure oggetto di indagine della «moderna filosofia» («La poesia medesima ha nuovi lumi acquistati dallo spirito filosofico, e, comeché abbia per una parte perduti i pomposi titoli che non solo i poeti, ma i maggiori filosofi ancora donati le aveano, di «celeste», di «divina», e di «maestra di tutte le cose», ha nondimeno ricevuto dall'altra un merito, meno elevato, a dir vero, ma più solido e più certo»), non ci sembra di trovarci di fronte a un pensiero sostanzialmente diverso da quello del Muratori, il quale l'elle Riflessioni sopra il buon gusto aveva scritto: « Bisognerebbe che la grammatica stessa e le lingue e la poetica, e la retorica e l'istoria e tutte le altre arti e scienze cominciando dalle infime e andando sino alle supreme tutte s'insegnassero e maneggiassero solamente da chi sa ben filosofare», e anch'egli a suo modo aveva tentato di elevare la poetica a filosofia come farà il Parini dando della poesia una giustificazione nell'ambito della filosofia sensistica; né suonano nuove le critiche dello stesso Parini ai libri «volgarmente dotti di rettorica e di poetica» usati nelle scuole, «transunti della dottrina d'Aristotile, di Cicerone, di Quintiliano» e a quella stessa dottrina «ottima, se si considera, nelle sue parti» ma che «se si considera nel suo tutto riesce slegata, intralciata e bene spesso troppo astratta e sottile», e le sue proposte di sostituirli con altri libri, che offrano pochi precetti facilmente comprensibili, i quali, acciocché sian tali, han da «dipendere da pochi principii generali ricavati dalla natura», poiché quelle critiche e quelle proposte riecheggiano nel campo più ristretto della scuola i motivi della polemica condotta, sempre in nome della filosofia, contro la precettistica dei retori, dai trattatisti migliori dell'Arcadia, primo fra tutti il Gravina; così come al Gravina e a quella sua polemica contro gli « mbiziosi e avari precetti» dei retori, i quali «coi loro generi e con le loro regole pretendono di porre limiti al vario e continuo moto dell'umano ingegno» («Onde non so perché non si debba porre questo indiscreto freno alla grandezza della nostra immaginazione ed aprirle strada da vagare per entro quei grandissimi spazi, nei quali è atta a penetrare»), ci fanno pensare le animose pagine di Pietro Verri, di un sapore tra l'illuministico e il preromantico, contro gli «aristotelici delle lettere» che «coi loro rigidi precetti impiccioliscono ed estinguono il genio dei giovani». Anche l'universalismo degli illuministi che avrà la sua più solenne espressione nelle parole del Cesarotti sul buon critico che «concittadino di tutti i popoli intende tutti i linguaggi del bello», ha le sue premesse in quell'impostazione filosofica che i critici dell'Arcadia diedero al problema della poesia, nei loro tentativi di sollevarsi alla «ragione di ogni poesia», concetto universale in cui convengono tutte le forme particolari della bellezza poetica: prima che il Parini annunciasse dalla cattedra il proposito di far conoscere ai discepoli «gli eccellenti esemplari» di «tutti i tempi» e «di tutte le nazioni», giustificando con queste parole, che non gli parvero contrastare col suo classicismo: «E perché, quando tutti i popoli della terra hanno istituito un felice commercio di tutti i beni che la natura ha diviso fra essi, sarà dato ai soli Greci e ai soli Latini il privilegio del bello e del sublime?» , il Muratori aveva ambito anch'egli di dar prova di «buon gusto universale» («Solamente a chi possiede il buon gusto universale, aveva scritto fra l'altro, ed è libero delle anticipate opinioni, è riserbato il ben gustare le bellezze dcll'ebraica poesia. Non si riconoscon queste da molti perché non han l'aria e il vestito delle poesie moderne a cui siamo solamente avvezzi») e aveva cercato di superare le parzialità di quanti allora contendevano per gli antichi e per i moderni, per la poesia italiana e per la poesia francese, in una critica che rendesse giustizia agli uni e agli altri, ricordando a tal fine nella Perfetta poesia autori e opere di diversi tempi e luoghi, e persino, ignoti a lui e non nominati, i poeti «di cui si gloriano, scriveva, le lingue tedesche, inglese e danese». Il che non significa che ai propositi rispondessero i risultati: ma comune ai critici dell'arcadia e ai critici dell'illuminismo è lo schema concettuale, presupposto delle loro aspirazioni universalistiche, e comune, in fondo, il gusto poetico, che potrà nel corso del secolo liberarsi da residui secentistici e da vezzi e modi della prima arcadia, ma avrà sempre il suo limite nel dominante razionalismo, ostacolo a quelle generose aspirazioni, mal superabile, nonché dal timido Muratori, dall'ardito Cesarotti.

E già dei «riformatori» arcadici è la varietà degli interessi culturali, che sarà propria degli illuministi: basti pensare a un Manfredi, a un Conti, a un Maffei, a un Muratori, che sembrano preannunciare coli la loro opera multiforme e la varia attività gli spiriti enciclopedici del secondo Settecento: né sta loro a cuore soltanto una «riforma» delle lettere, ché con maggiore o minore ardimento essi mirano a liberare, del pari che la letteratura propriamente detta, la cultura tutta e la vita sociale dagli u«abusi», dai «pregiudizi» perché meglio esse rispondano a un ideale di ragionevolezza e di umanità. Il Gravina, che combatte la precettistica dei retori in nome di un'«idea eterna» della poesia, è pure, come è noto, e per motivi analoghi, fiero avversario della casistica morale, e si propone nello studio del diritto di ridurre la vasta materia in un sistema organico e razionale; il Maffei nella «Scienza chiamata cavalleresca» vuole colpire la sopravvivenza di costumi contrastanti con le norme del vivere moderno, così come contrastava con lo spirito del tempo il barocchismo letterario, e delinea un programma di riforme politiche, tra i più interessanti dei suoi tempi; l'instancabile Muratori non dimentica mai per lo studio dell'antichità il tempo in cui vive, e cerca di correggere per quel che egli può, i vizii della cultura contemporanea, non disdegna di occuparsi di questioni di carattere pratico come il «governo della peste», o teme di affrontare pericolose polemiche combattendo certe pratiche di devozioni materiali e superstiziose, repugnanti alla sua fede semplice e schietta, e al termine della vita espone nell'opera Della pubblica felicità oggetto dei buoni principi il suo ideale politico, che potrebbe essere definito un assolutismo paternalistico, ponendo l'accento, come è stato detto, piuttosto sull'aggettivo che sul sostantivo, e che è chiaramente riconoscibile anche nella narrazione degli Annali, non mai così cronachisticamente oggettiva da nascondere la sollecitudine dello scrittore per il benessere dei popoli e la sua diffidenza per certe conclamate glorie di politici e di guerrieri. Si è foggiato dagli storici per designare queste tendenze della cultura del primo Settecento il termine di pre-illuminismo, e per vero dell'illuminismo si riconoscono negli scritti che abbiamo ricordati e in altri che si potrebbero ricordare i problemi e le aspirazioni, e ad un tempo caratteristici atteggiamenti di stile. Così gli Annali muratoriani non soltanto contrappongono alla secentesca «ragione di stato» come criterio di valutazione quello dell'unità sociale, ma la tendenza che li informa rilevano in più d'un punto con un'ironia che non diremo volterriana, ma certo manzoniana, del Manzoni quando discorre, illuminista cristiano, di guerre, di conquiste, di maneggi dell'«alta politica»: e nella loro prosa piana, anzi dimessa, non rifuggente da locuzioni familiari o addirittura, come a taluno parve, volgari, ma così naturali per lo scrittore, non abbagliato da nessuna grandezza e non ambizioso da parte sua di assumere pose solenni e magistrali, bene rispondono al proposito di riportare i fatti storici al livello della comune umanità, sia in se stessi che nella forma letteraria; una lezione continua, diremmo di antibarocchismo e un esempio, nel significato buono della parola, di quella «volgarizzazione» del sapere che tanto starà a cuore agli illuministi. E dell'illuminismo, della sua letteratura volgarizzatrice, dello stile che le è proprio, dava, fin dagli anni tra il 1726 e il 1729, una descrizione vivace G. B. Vico quando discorreva del secolo «dilicato e vistoso, nel quale dagli più con poco studio e co' soli naturali talenti si vuole comparir dotti e fanno la loro capacità regola de' libri, onde stimano buoni i soli spiegati e facili, di cui si possa per passatempo ragionare con le dame» (ancora non era stato scritto il «Newtonianismo per le darne»!), o della «debolezza della nostra natura umana, che 'n brevissimo tempo e con pochissima facilità vorrebbe saper di tutto»: « Che è la cagione, aggiungeva, perché oggi non si lavoran altri libri che di nuovi metodi e di compendi, perché la dilicatezza de' sensi, che è fastidiosissima in questo secolo, essendosi tragittata alle menti, i nuovi libri non per altro si commendano che per la facilità la quale così fiacca ed avvelena gl'ingegni siccome la difficoltà gli invigorisce ed avviva». Giudizio di cui è da notare a un tempo la perspicacia e l'unilateralità, poiché al Vico sfuggiva, ed era fatale che così avvenisse, quel che era di positivo in quel favore per i libri «facili», accessibili a tutti, vale a dire l'esigenza intrinseca al razionalismo di affermarsi in una vasta cerchia, chiamando il maggior numero di individui a farsi partecipi del sapere acquisito e più ancora a far buon uso della ragione che è in tutti e di tutti; ma giudizio interessante oltreché per se stesso come documento della diffusione degli spiriti illuministici del mondo dei letterati, fra cui lavorava l'autore della Scienza nuova, se pure è necessaria una testimonianza come questa del Vico, sulla cultura di quella Napoli del primo Settecento da cui uscì, arma formidabile della polemica illuministica, la Storia civile del Giannone.

Sarà per questo da negare ogni distinzione fra quelle che si sogliono considerare due fasi ben distinte anzi contrapposte della storia della nostra cultura? Anche perché, si potrebbe aggiungere, come nell'età che ha preso nome dall'Arcadia, è già più che in nuce l'illuminismo, persistono d'altra parte fin nel più tardo Settecento, e non solo in un Baretti o in un Parini, motivi schiettamente arcadici, anzi dell'Arcadia, per dirla col Carducci, degli «abati pastori», un'Arcadia idillica, che si accompagna e non ne discorda, con la fiducia nei «lumi» e persino con le melanconie e gli «orrori» del preromanticismo? Non una frattura, se pur la storia conosce fratture, e nemmeno uno di quei rivolgimenti radicali di idee e di gusti, come fu, ad esempio, la rivoluzione romantica, divide le due età, bensì le distingue, nella continuità evidente delle idee e dei propositi, la coscienza più chiara e più diffusa, che nel secondo Settecento si ebbe, di quel che era il principio informatore di quelle idee e di quei propositi. Giunsero allora a piena maturazione idee e tendenze, che si erano presentate nell'età dell'Arcadia, e meglio si sentì l'intimo nesso che le congiungeva: perciò mentre le varie «riforme» che i «riformatori» arcadici propugnavano con quella delle lettere erano state per loro problemi ben distinti da trattare di volta in volta tenendosi chiusi nell'ambito delle singole discipline, gli illuministi si sentirono impegnati, quale che fosse la questione affrontata, in un'unica battaglia: basti per tutti ricordare Pietro Verri e confrontare i suoi articoli letterari, che non sono se non un episodio della sua polemica ispirata all'idea di libertà, coi pacati ragionamenti che il Muratori svolgeva nelle sue opere intorno alla «perfetta poesia» e ai «difetti della giurisprudenza», alla «regolata devozione» e alla «pubblica felicità».
Ne veniva, ed è questo uno dei caratteri della letteratura illuministica, un più accentuato tono polemico, e nella polemica un rilievo più forte della personalità degli scrittori, i quali agli «abusi», ai «pregiudizi», agli «errori», da loro avversati, oppongono la forza non soltanto dei ragionamenti, ma della propria persona presente sempre e in primo piano nelle loro pagine: sono di questa età, per citare soltanto i più noti, uomini come il Parini e il Baretti, Pietro Verri e il Bettinelli (il Bettinelli almeno delle Virgiliane e delle Inglesi), che portano nella letteratura un carattere più risentito dei letterati loro predecessori e ci danno l'impressione, quando ci troviamo dinanzi alle loro figure così fortemente individuate, di una vita più piena, più varia, più vigorosa.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis