Prendiamo il primo suo dramma, la Didone. Volea fare una
tragedia. Studiò l'argomento in Virgilio, e più in Ovidio. Ma
andate a fare una tragedia con quell'uomo e con quella
società. Non capiva che a quella società e a lui stesso
mancava la stoffa da cui può uscire una tragedia. Fare una
tragedia con la Bulgarelli consigliera, con maestro Porpora
direttore, con quel Sarro compositore, e col pubblico
dell'Angelica e degli Orti Esperidi, e in presenza della sua
anima elegiaca, idillica, melodica, impressionabile e
superficiale, come il suo pubblico! Ne uscì non una tragedia,
che sarebbe stata una pedanteria nata morta, ma un capolavoro,
tutto caldo della vita che era in lui e intorno a lui, e che
anche oggi si legge con avidità da un capo all'altro. La
Didone virgiliana è sfumata. Le reminiscenze classiche sono
soverchiate da impressioni fresche e contemporanee. Sotto nome
di Didone qui vedi l'Armida del Tasso, messa in musica. La
donna olimpica e paradisiaca cede il posto alla donna terrena,
come l'ha abbozzata il Tasso in questa tra le sue creature la
più popolare, dalla quale scappan fuori i più vari e concitati
moti della passione femminile, le sue smanie e le sue furie.
Ma è un'Armida col commento della Bulgarelli, alla cui
ispirazione appartengono i movimenti comici penetrati in
questa natura appassionata, com'è nella scena della gelosia,
applauditissima alla rappresentazione. Una Didone così fatta
non ha niente di classico, qui non ci è Virgilio, e non
Sofocle: tutto è vivo, tutto è contemporaneo. La passione non
ha semplicità e non ha misura, e nella sua violenza rompe ogni
freno, perde ogni decoro. Se in Didone fosse eminente il
patriottismo, il pudore, la dignità di regina, l'amore de'
suoi, la pietà verso gl'iddii, se in lei fosse più accentuata
l'eroina, il contrasto sarebbe drammatico, altamente tragico.
Ma l'eroina c'è a parole, e la donna è tutto: la passione,
unica dominatrice, diviene come una pazzia del cuore, cinica e
sfrontata sino al grottesco, e scende dritta la scala della
vita sino alle più basse regioni della commedia. AI buon
Pindemonte dànno fastidio alcuni tratti comici, e non vede che
sotto forme tragiche la situazione è sostanzialmente comica,
sicché, se in ultimo Enea si potesse rappattumare con l'amata,
sarebbe il dramma con lievi mutazioni una vera commedia. E non
già una commedia costruita artificialmente, ma colta dal vero,
perché è la donna come poteva essere concepita in quel tempo,
ispirata dalla Bulgarelli e da quel pubblico nell'anima
conforme del poeta, e contro le sue intenzioni, e senza sua
coscienza. A Metastasio, che voleva fare una tragedia, dire
che aveva partorito una commedia in forma tragica, sarebbe
stato come dire una bestemmia. Il comico è in quei sì e no
della passione, in quei movimenti subitanei, irrefrenabili,
che scoppiano improvvisi e contro l'aspettazione,
nell'irragionevole spinto sino all'assurdo, negl'intrighi e
nelle scaltrezze, di bassa lega, piú da donnetta che da
regina, e tutto così a proposito, così naturale, con tanta
vivacità, che il pubblico ride e applaude, come volesse dire:
- E vero -. Fu per il poeta un trionfo. Alcuni motti rimasero
proverbiali, come:
quando allora allora avea detto:
Mai più non mi vedrà Quell'alma rea. |
O come:
Passato é il tempo, Enea,
Che Dido a te pensò |
La sua sortita contro Arbace, quasi nello stesso punto che gli
aveva promessa la sua mano, quel cacciar via da sé Osmida e
Selene nella cecità del suo furore, le sue credulità, le sue
dissimulazioni, le sue astuzie, tutto ciò è tanto più, comico,
quanto è meno intenzionale, contemperato co' moti più variati
di un'anima impressionabile e subitanea, sdegni che son
tenerezze, e minacce che sono carezze. C'è della Lisetta e
della Colombina sotto quel regio manto. E tutto il quadro è
conforme. Iarba con le sue vanterie e le sue pose rasenta il
bravo della commedia popolare; Selene, ch'è l'«Anna, soror
mea», rappresenta la parte della «patita» con molta
insipidezza; e il pio Enea nella sua parte di amoroso attinge
il più alto comico, massime quando Didone lo costringe a
tenerle la candela. Il nodo stesso dell'azione ha l'aria di un
intrigo di bassa commedia, co' suoi equivoci e i suoi incontri
fortuiti.
La Didone fece il giro de' teatri italiani. E dappertutto
piacque. Metastasio indovinava il suo pubblico e trovava sé
stesso. Quel suo dramma a superficie tragica, a fondo comico,
coglieva la vita italiana nel più intimo, quel suo contrasto
tra il grandioso del di fuori e la vacuità del di dentro. Il
tragico non era elevazione dell'anima, ma una semplice fonte
del maraviglioso, così piacevole alla plebe, come incendi,
duelli, suicidi. Il comico riconduceva quelle magnifiche
apparenze di una vita fantastica nella prosaica e volgare
realtà, piccoli intrighi, amori pettegoli, stizze, braverie.
Concordare elementi così disparati, fondere insieme fantastico
e reale, tragico e comico, sembra poco meno che impossibile:
pure qui è fatto con una facilità piena di brio e senz'alcuna
coscienza, com'è la vita nella sua spontaneità. L'illusione è
perfetta. Una vita così fatta pare un'assurdità: pure è là,
fresca, giovane, vivace, armonica, e t'investe e ti trascina.
Il povero Metastasio, inconscio del grande miracolo, si
difendeva con Aristotile e con Orazio: alle vecchie critiche
si aggiunsero le nuove; oggi la ragione e l'estetica
condannano quella vita, come convenzionale e incoerente. Ma
essa è là, nella stia giovanezza immortale, e le basta
rispondere: - Io vivo -. E se l'estetica non l'intende, tanto
peggio per l'estetica. |