Il romanzo dell'Ariosto è sì pieno, sì vario, sì fecondo di
bellezze d'ogni maniera, che più d'una volta m'avvenne, dopo
lettolo tutto intero, di non avere altro desiderio che
ricominciare da capo. Qual è dunque il fascino della poesia
naturale! Non ho mai potuto leggere un solo canto di questo
poema in una delle nostre traduzioni in prosa.
Quello che soprattutto mi affascina in cotesta opera
meravigliosa è che l'autore sempre superiore alla sua materia
la tratta scherzando. Dice senza sforzo le cose più sublimi e
spesso le termina con tratti di piacevolezza non mai ricercati
né fuor di luogo. Cotesto poema è insieme l'Iliade, l'Odissea
e il Don Quichotte, perché il cavaliere principale divien
matto come l'eroe spagnolo ed è senza paragone più piacevole.
Ancora: a Orlando uno s'affeziona, ma nessuno s'interessa a
Don Quichotte, il quale è rappresentato come un forsennato a
cui tutti fanno delle burle e dei tiri...
Il Furioso ha un merito ignoto a tutta l'antichità, quello
degli esordi. Ogni canto è come un palazzo incantato, il cui
vestibolo è sempre di gusto differente, ora maestoso, ora
semplice, qualche volta anche grottesco. C'è della morale,
della gaiezza o della galanteria, sempre della natura e della
verità.
Osservate solo l'esordio del quarantaquattresimo canto di
questo poema che ne contiene quarantasei, e che non è tuttavia
troppo lungo, di questo poema che è tutto in stanze rimate, e
che purtuttavia non ha nulla di greve, di questo poema che
prova la necessità della rima in tutte le lingue moderne; di
questo poema delizioso che scopre soprattutto la sterilità e
la grossolanità dei poemi epici barbari, nei quali gli autori
si sono scaricati del peso della rima, perché non avevano la
forza di sopportarlo; come diceva Pope, e come ha scritto
Luigi Raéine che ebbe ragione.
Spesso in poveri alberghi, e in picciol tetti, Nelle
calamitadi, e nei disagi, Meglio s'aggiongon d'amicizia i
petti, Che fra ricchezze invidiose, ed agi Delle piene
d'insidie, e di sospetti Corti regali, e splendidi palagi,
Dove la caritade è in tutto estinta; Né si vede amicizia se
non finta.
Quindi avien che tra principi, e signori
Patti, e convenzion' sono sì frali.
Fan' lega oggi re, papi, imperatori;
Doman saran nemici capitali;
Perché, qual l'apparenze esteriori,
Non hanno i cor, non han gli animi tali,
Ché non mirando al torto, più ch'al dritto
Attendon solamente al lor profitto... |
A lui solo fu dato d'andare e venire da queste descrizioni
terribili alle più voluttuose pitture e da queste pitture alla
più sana morale. E più anche straordinario riesce
nell'interessar così vivamente i lettori a' suoi eroi e alle
eroine, quanti e quante pur siano. V'ha nel suo poema forse
tante storie commoventi quante avventure grottesche; ma il
lettore s'abitua così bene a quella screziata varietà, che
passa dall'una all'altra senza stupore...
Egli fu il maestro del Tasso. Armida deriva da Alcina. Il
viaggio dei due cavalieri che vanno a sottrarre Rinaldo
all'incanto, è in tutto imitato dal viaggio di Astolfo. E
bisogna ancora confessare che le immagini fantastiche che si
trovano così di sovente nell'Orlando furioso, convengono ben
di più a questo soggetto misto di serio e di piacevole, che al
poema serio del Tasso, il cui soggetto sembrava esigere
costumi più severi.
Né voglio passar sotto silenzio un altro merito dell'Ariosto:
voglio dire i deliziosi prologhi di tutti i canti.
Altra volta non osai annoverar l'Ariosto tra i poeti epici, e
lo considerai soltanto come il primo dei grotteschi; ma
rileggendolo l'ho trovato tanto sublime quanto piacevole, e
gli faccio umilissima riparazione. È pur vero che il papa
Leone X pubblicò in favore dell'Orlando furioso una bolla, e
dichiarò scomunicati quelli che avessero detto male di questo
poema. Non voglio certo correre il rischio di esser
scomunicato. |