L'elemento dell'arte negativo e dissolvente aveva già percorso
tutto il suo ciclo a Firenze, giunto sino alla pura
buffoneria. Il Boccaccio, il Sacchetti, il Magnifico, il
Pulci, il Berni hanno il proposito espresso della caricatura,
hanno innanzi un mondo reale, di cui mettono in rilievo il
lato comico. L'Ariosto non ha intenzione di mettere in gioco
la cavalleria, come fece il Cervantes, e nel suo mondo
s'incontrano episodi comici, e anche licenziosi, e anche
grotteschi, come la Gabrina, con la stessa indifferenza che
s'incontrano episodi tragici ed elegiaci. Ma, se il suo riso
non è intenzionale, non è neppure un semplice mezzo di stile
per divertire i lettori buffoneggiando, come fece poi il Berni
nel suo Orlando. Il suo riso è più serio e più profondo.
È il riso dello spirito moderno, diffuso sul soprannaturale di
ogni qualità; è, se non ancora la scienza, il buon senso,
generato da un sentimento già sviluppato del reale e del
possibile, è il riso precursore della scienza.
Ludovico è innanzi tutto un artista. A questo mondo
cavalleresco egli non ci crede; pur se ne innamora, ci si
appassiona, ci vive entro, ne fa il suo mondo, più serio a lui
che tutto il mondo che lo circonda. Ma è un amore, un
interesse semplicemente di artista. La sua immaginazione se lo
assimila, ne acquista una piena intelligenza, fa e disfà,
compone e ricompone, con assoluta padronanza, come materia di
cui conosce tutti gli elementi, e che atteggia e configura a
suo genio. La materia in Dante così resistente e scabra qui
perde i suoi angoli e le sue punte, e come cera, riceve tutte
le impressioni. L'immaginazione le si accosta sgombra di ogni
preconcetto e di ogni intenzione, e vi si cala e vi si oblia,
e pare non sia altro che la stessa materia. Il creatore è
scomparso nella creatura. L'obiettività è perfetta. Ma guarda
bene, e vedrai sulla faccia di quella creatura la fisonomia
poco riverente di colui che l'ha creata, e che in certi
momenti pare si burli della tua emozione e ti squadri la mano.
Non sai se è di te che si burli o della sua creatura, e a ogni
modo ci mette una grazia, che gli daresti un bacio. La burla
ti coglie improvviso, nella maggiore serietà della
rappresentazione. Una barzelletta, un motto ti disfà in un
istante le creazioni più interessanti, e ti avviene così
spesso, che non ti abbandoni più e prendi guardia, e ti
avvezzi a poco a poco a quell'ambiente equivoco nel quale si
aggira quel mondo. Quando l'autore sembra interamente
scomparso dalla sua creazione, tu non te la lasci fare, e sai
che un bel momento metterà fuori il capo e ti farà una
smorfia. Di sotto a quella obiettività omerica si sviluppa di
un tratto sotto forma d'ironia l'elemento subbiettivo e
negativo...
Vedi come concepisce. Il protagonista non è il savio Orlando,
ma Orlando matto e furioso. Questo tipo della cavalleria così
trasformato è già una concezione ironica. Ma guarda ora come
vien fuori questa concezione. Il momento della pazzia è
rappresentato con tale realtà di colorito, che la tua
illusione è perfetta. Ci si vede una profonda conoscenza della
natura umana nelle sue più fini gradazioni. È un «crescendo»
di particolari e di colori, che ti rendono naturalissimo un
fatto così straordinario. Venuto in furore e matto, il poeta
te lo abbandona alle risate del pubblico. Ad una scena tenera
succede la più schietta allegrezza comica, la caricatura
spinta fino alla buffoneria. Anche il modo come Orlando
riacquista il senno, ha un profondo senso comico. Secondo le
tradizioni del medio evo, l'uomo non può trovare la pace che
nell'altro mondo. È la base della Divina Commedia. Il poeta
materializza questo concetto e lo rende comico, cavandone la
bizzarra concezione, che ciò che si perde in terra, si trova
nell'altro mondo. Di qui il viaggio di Astolfo sull'ippogrifo
nell'altro mondo, che è una vera parodia del viaggio dantesco.
Il fumo e il puzzo gli impedisce di entrare nell'inferno; ma
all'ingresso trova le prime peccatrici, punite, come Lidia,
per la soverchia crudeltà verso gli amanti. È il. concetto
della Francesca da Rimini preso a rovescio, e divenuto comico.
Poi sale al paradiso terrestre, e in un bel palagio di gemme
trova san Giovanni evangelista, Enoch ed Elia, che gli dànno
alloggio in una stanza e provvedono di buona biada il suo
cavallo, e a lui dànno frutti di tal sapore,
che a suo giudicio sanza
Scusa non sono i due primi parenti
Se per quei fur sì poco ubbidienti. |
Astolfo vi trova buon cibo, buon riposo « e tutti comodi ». È
il paradiso terrestre materializzato. Di là, « uscito dal
letto », con san Giovanni ascende sulla Luna. Qui la parodia
prende forma satirica, senza fiele e in aria scherzosa. In un
vallone è ammassato ciò che tu terra si perde:
Le lacrime le i sospiri degli amanti,
L'inutil tempo che si perde a gioco,
E l'ozio lungo d'uomini ignoranti;
Vani disegni che non han mai loco,
I vani desiderii sono tanti,
Che la più parte ingombran di quel loco.
Ciò che in somma qua giù perdesti mai,
Là su salendo ritrovar potrai.
(XXXIV, 75) |
Per comprendere questa ironia, bisogna ricordare che la Luna
era come un castello di Spagna o un castello in aria nelle
idee popolari, e anche oggidì uno che vive nelle astrattezze
si dice che sta nel regno della luna. Là si trova in varie
ampolle un liquore sottile e molle, che è il senno che si
perde in terra.
Di sofisti e di astrologhi raccolto
E di poeti ancor ve n'era molto.
(XXXIV, 85, vv. 7-8) |
Chiama sofisti i filosofi e li mette a un mazzo con gli
astrologhi e i poeti. Dove il medio evo vedea il maggior
senno, egli vede vacuità e astrazione. La fine è di una
schietta allegria:
E vi son tutte l'occorrenze nostre;
Sol la pazzia, non vi è poca, né assai,
Ché sta qua giù, né se ne parte mai...
(XXIXIV 81, vv. 6-8) |
Questo inondo, dove non è alcuna serietà di vita interiore,
non religione, non patria, non famiglia, e non sentimento
della natura, e non onore e non amore, questo mondo della pura
arte, scherzo di una immaginazione che ride della sua opera e
si trastulla a proprie spese, è in fondo una concezione
umoristica profondata e seppellita sotto la serietà di un'alta
ispirazione artistica. Il poeta considera il mondo non come un
esercizio serio della vita nello scopo e ne' mezzi, ma come
una docile materia abbandonata alle combinazioni e a'
trastulli della sua immaginazione. Ci è in lui la coscienza
che il suo lavoro è così serio artisticamente, come è serio il
lavoro di Omero, di Virgilio o di Dante, e ci è insieme la
coscienza che è un lavoro semplicemente artistico, e perciò
dal punto di vista del reale uno scherzo, o come dicea il
cardinale Ippolito, una corbelleria. E sarebbe stato una
corbelleria, se l'autore avesse voluto dargli più serietà che
non portava, e fondarvi sopra una vera epopea. Ma la
corbelleria diviene una concezione profonda di verità, perché
il poeta è il primo a riderne dietro la tela, ed ha l'aria di
beffarsi lui de' suoi uditori. Questo stare al di sopra del
mondo, e tenere in mano le fila, e fare e disfare a talento,
considerandolo non altrimenti che un arsenale d'immaginazione
è ciò che dicesi capriccio e umore. Se non che il poeta è
zimbello spesso della sua immaginazione, e si oblia in quel
suo mondo, e gli dà l'ultima finitezza. Di che nasce che
l'umore piglia la forma contenuta dell'ironia, e tu ondeggi in
una atmosfera equivoca e mobile, dove vizio e virtù, vero e
falso confondono i loro confini, e dove tutto è superficie,
passioni, caratteri, mezzi e fini, superficie meravigliosa per
chiarezza, semplicità e naturalezza di esposizione, che
all'ultimo dispare come un fantasma, cacciato via da una frase
ironica, dispare, ma dopo di aver destata la tua ammirazione e
suscitate in te molte emozioni. In questo mondo fanciullesco
dell'immaginazione, dove si rivela un così alto sentimento
dell'arte e insieme la coscienza di un mondo adulto e
illuminato, si dissolve il medio evo e si genera il mondo
moderno. E perché questo è fatto senza espressa intenzione,
anzi con la bonomia e naturalezza di chi sente e concepisce a
quella guisa, i due mondi non sono tra loro in antitesi, come
nel Cervantes, ma convivono, entrano l'uno nell'altro, sono la
rappresentazione artistica dell'un mondo con sopravi
l'impronta dell'altro. In questa fusione più sentita che
pensata, e che fa dell'autore e della sua creazione un solo
mondo armonico perfettamente compenetrato, sta la verità e la
perpetua giovinezza del mondo ariostesco, per la sua
eccellenza come opera di pura arte il lavoro più finito
dell'immaginazione italiana, e per il profondo significato
della sua ironia una colonna luminosa nella storia dello
spirito umano. |