A ridurre le dilettose storie cavalleresche e gli scherzi
capricciosi a poesia, e la piccola poesia erotica o narrante e
ragionante a più complessa poesia, a far compiere il passaggio
e l'ascesa dalle opere minori alla veramente maggiore, a
mediare l'immediato, operò il sentimento dell'Armonia,
trasformando quei vari ordini di sentimenti particolari nel
modo che ci facciamo a considerare.
Il primo cambiamento ch'essi soffersero non appena vennero
toccati dall'Armonia che cantava in fondo al petto del loro
poeta, si manifestò nella perdita della loro autonomia, nella
sottomissione a un unico signore, nella discesa da tutto a
parte, da motivi ad occasioni,da fini a strumenti, nel morire
di essi tutti a beneficio di una nuova vita.
La forza magica, che compiva questo prodigio, era il tono
della espressione, quel tono disinvolto, lieve, trasmutabile
in mille guise e sempre grazioso, che i vecchi critici
chiamavano « aria confidenziale » ed enumeravano tra le altre
« proprietà » dello «stile» ariostesco, ed in ,cui non solo
consiste intero lo stile, ma, poiché lo stile non è altro che
l'espressione del poeta e la sua anima stessa, consisteva
tutto intero l'Ariosto, col suo cantare armonioso.
Palpabile è quest'opera di svalutazione e di distruzione
eseguita dal tono espressivo, nei proemi dei singoli canti,
nelle digressioni ragionanti, nelle osservazioni intercalate,
nelle riprese, nei vocaboli adoperati, nel fraseggiare e nel
periodare, e soprattutto nei frequenti paragoni che formano
quadri e non rinforzano la commozione ma la divagano, e nelle
interruzioni dei racconti talvolta nel punto loro più
drammatico, con gli agili passaggi ad altri racconti di
diversa e sovente opposta natura. E nondimeno ciò che vi ha di
palpabile, di rettoricamente isolabile e analizzabile, è solo
piccola parte del tutto, dell'impalpabile, che scorre come
sottile fluido, e non si lascia afferrare con ordigni
scolastici, ma, anima qual'è, si sente con l'anima.
E questo tono è altresì la tante volte notata e denominata, e
non mai bene determinata ironia ariostesca: non bene
determinata, perché è stata troppo per solito riposta in una
sorta di scherzo o di scherno, simile e coincidente con quello
che l'Ariosto usava talvolta nel contemplare le figure e le
avventure cavalleresche; e così è accaduto di restringerla e
materializzarla a un tempo. Ma ciò che non bisogna perdere di
vista è, che quell'ironia non colpisce già un ordine di
sentimenti, per esempio i cavallereschi o i religiosi,
risparmiando altri, ma li avvolge tutti, e perciò non è futile
scherzo, ma qualcosa di assai più alto, qualcosa di
schiettamente artistico e poetico, la vittoria del motivo
fondamentale sugli altri tutti.
Tutti i sentimenti, i sublimi e gli scherzosi, i teneri e i
forti, le effusioni del cuore e le escogitazioni
dell'intelletto, i ragionamenti d'amore e i cataloghi
encomiastici di nomi, le rappresentazioni di battaglie e i
motti della comicità, tutti sono alla pari abbassati
dall'ironia ed elevati in lei. Sopra l'eguale caduta di tutti,
s'innalza la Maraviglia dell'ottava ariostesca, che è cosa che
vive per sé: un'ottava che non sarebbe sufficientemente
qualificata col dirla sorridente, salvo che il sorriso non
s'intenda nel senso ideale, appunto come manifestazione di
vita libera ed armonica, ener jica ed equilibrata, battente
nelle vene ricche di buon sangue e pacata in questo battito
incessante. Quelle ottave hanno la corporeità ora di floride
giovinette ora di efebi ben formati, sciolte le membra
nell'esercizio dei muscoli, e che non si affannano a dar prova
della loro destrezza, perché essa si rivela, in ogni loro
atteggiamento e gesto. - Olimpia, dopo tante traversie, dopo
lungo e tempestoso viaggio per mare, approda col suo amante in
un'isola selvaggia e deserta:
Il travaglio del mare e la paura,
che tenuta alcun dì l'aveano desta;
il ritrovarsi al lito ora sicura,
lontana da rumor, ne la foresta;
e che nessun pensier, nessuna cura,
poi che 'l suo amante ha seco, la molesta;
fúr cagion ch'ebbe Olimpia sì gran sonno,
che gli orsi e i ghiri aver maggior nol ponno. |
C'è qui la completa analisi delle cagioni del gran sonno in
cui cade Olimpia, precisamente dette; ma tutto ciò è
chiaramente secondario innanzi al sentimento intimo che
esprime l'ottava, la quale sembra piacersi di sé stessa, e si
piace in effetto della risoluzione di un moto, di un divenire,
che giunge al suo compimento.
Si direbbe, l'ironia dell'Ariosto, simile all'occhio di Dio
che guarda il muoversi della creazione, di tutta la creazione,
amandola alla pari, nel bene e nel male, nel grandissimo e nel
piccolissimo, nell'uomo e nel granello di sabbia, perché l'ha
fatta lui, e non cogliendo in essa che il moto stesso,
l'eterna dialettica, il ritmo e l'armonia. Con che, dalla
comune accezione della parola «ironia» si è compiuto il
passaggio al significato metafisico che essa ebbe presso i
fichtiani e i romantici, con la cui teoria spiegheremmo
volentieri la natura dell'ispirazione ariostesca, se, presso
quei pensatori e letterati, l'ironia non fosse stata più
confusa col cosiddetto umorismo e con la bizzarria e
stravaganza, ossia Con atteggiamenti che turbano e distruggono
l'arte; laddove la determinazione critica da noi proposta si
tiene rigorosamente nei confini dell'arte, come vi si tenne
col fatto l'Ariosto, che non trascorse mai nell'umorismo e nel
bislacco, indizio di debolezza, e ironizzò da artista, sicuro
della propria forza. E, per avventura, questa è la ragione, o
una delle ragioni, onde l'Ariosto non andò a grado agli
scapigliati romantici, disposti a preferirgli il Rabelais, e,
finanche, Carlo Gozzi.
Fiaccare tutti gli ordini di sentimenti, adeguarli tutti in
questo abbassamento, togliere alle cose la loro autonomia,
privarle della loro particolare e propria anima, vale
convertire il mondo dello spirito in Mondo della natura: un
mondo irreale, che non è se non in quanto noi così lo poniamo.
E, per certi rispetti, « natura » diventa tutto il mondo per
l'Ariosto, superficie disegnata e colorata, splendente ma
senza sostanza. Donde anche quel suo vedere gli oggetti in
ogni loro tratto, come naturalista che esservi minuzioso e
descriva, senza appagarsi del tratto unico che solo rilevano e
segnano altri geni d'artisti, senza impazienze passionali e
conseguenti sprezzature. Può sembrare che la figura di san
Giovanni sia ritratta, al modo in cui è ritratta, per celia:
ch 'l manto ha rosso e bianca la gonnella,
che l'un può al latte, l'altro al minio opporre;
i crini ha bianchi e bianca la mascella
di folta barba ch'al petto discorre... |
Ma, in fondo, con lo stesso metodo viene ritratta la bellezza
di Olimpia, obliando la castità della donna che sarebbe parsa
richiedere altra sorta di figurazioni o piuttosto qualche uso
di velamenti:
Le bellezze d'Olimpia eran di quelle
che son più rare; e non la fronte sola,
gli occhi, e le guance, e le chiome avea belle. |
E con lo stesso metodo perfino Medoro, il cui cuore devote, e
ardito, il cui giovanile eroismo sarebbe parso richiedere uno
sguardo meno attento alla freschezza dell'adolescente e più
attento ai tratti che rivelano l'ardimento e la devozione:
Medoro avea la guancia colorita,
e bianca e grata ne la età novella... |
Le moltissime similitudini dei personaggi, e delle situazioni
in cui si ritrovano, coli spettacoli offerti dalla vita delle
bestie o da fenomeni della natura, sono anch'esse la parte
quasi afferrabile e palpabile di questa conversione del mondo
umano in mondo della natura. Non ne faremo la statistica,
perché la fece già, con irritante pazienza, un filologo
tedesco in un grosso fascicolo, che fa passar la voglia
d'indugiarsi anche per un momento sulle similitudini,
comparazioni e metafore ariostesche.
Questo apparente naturalizzamento, questo oggettivismo del
quale abbiamo insieme mostrato la profonda soggettività, ha
indotto alla fallace affermazione, che già ci è nota, circa
l'indifferenza e la freddezza osservatrice, tutta versata
nelle cose, che sarebbe la forma dell'Ariosto. A1 quale è
stato dato compagno, per questa parte; il contemporaneo
Machiavelli, che investigò (come si suol dire) con occhio
sagace la storia e la politica, ne descrisse l'andare e ne
formulò le leggi, ed espresse le osservazioni da lui fatte
nella sua prosa con analoga inesorabile oggettività, con
scientifica freddezza. In certo senso, ma in un senso assai
lontano, è vero che entrambi, in diverso campo e per diversi
fini, distrussero un anteriore contenuto spirituale (il
Machiavelli, la concezione religiosa medievale della storia e
della politica), e naturalizzarono. Ma nient'altro che un
detto immaginoso è da tenere quel giudizio sul Machiavelli, il
quale, pensatore, scrutava i fatti e li schiariva con un nuovo
vigoroso pensiero, e, scrittore, esprimeva nell'apparente
freddezza la sua passione severa; e, similmente, nient'altro
che metafora è da considerare quella caratteristica
dell'Ariosto, naturalista e oggettivo, perché l'Ariosto
naturalizzava per ispiritualizzare in nuova guisa, creando
spirituali forme di Armonia.
In opposto verso, e in conseguenza di quanto siamo venuti
dimostrando, conviene abbandonare le lodi che si sono date
all'Ariosto, ora per la sua « epicità », per l'epica nobiltà e
decoro, che in lui tanto esaltava il Galilei, ora per la forza
e la coerenza che si ammirerebbero nei caratteri dei suoi
personaggi, secondo l'avviso di critici vecchi e anche nuovi,
e anzi recenti. Come mai potrebbe essere, nel Furioso,
epicità, quando nel suo autore non solo mancavano i sentimenti
etici dell'epos, ma quel poco, che si può alquanto sottilmente
sostenere che pur ne possedesse in retaggio, veniva con tutto
il resto disciolto nell'armonia ed ironia? E come mai
potrebbero essere nel poema caratteri veri e propri, se i
caratteri dei personaggi non sono altro, in arte, che le note
stesse, varie, diverse e contrastanti, dell'anima del poeta,
le quali s'incorporano in creature che sembrano bensì vivere
di vita propria e particolare, e vivono invece tutte della
stessa vita, variamente distribuita, scintille dello stesso
fuoco centrale? Pessimo pregiudizio critico é quello che
reputa che i caratteri vivano per sé; e quasi che possano
continuare la loro vita fuori delle opere d'arte di cui sono
parti e nelle quali non sono punto dissimili, né dissociabili,
dalle strofe, dai versi e dalle parole. Nel Furioso, non
essendovi libera energia di sentimenti passionali, non vi sono
caratteri ma figure, disegnate bensì e dipinte, ma senza
rilievo e rotondità, e con tratti piuttosto generici e tipici
che individuali. I cavalieri si somigliano e confondono tra
loro, differenziati per bontà e malvagità, per maggiore
gentilezza e maggiore rudezza, ,o per attributi estrinseci ed
accidentali, e spesso per i soli nomi; le donne, allo stesso
modo, come amorose o perfide, virtuose e contente di un solo
amore o dissolute e perverse, e spesso per le avventure
diverse in cui càpitano e pei nomi che le fregiano. Il
medesimo è per le fisionomie dei racconti e delle descrizioni
(tipica e non individuale, o poco individuale, è la pazzia di
Orlando, alla quale solo per compiacimento rettoneo si è
potuta avvicinare da qualche critico quella di Lear), e per le
fisionomie degli oggetti, paesaggi, palazzi, giardini, e ogni
altra cosa. Perfino sulla coerenza dei caratteri, grossamente
intesa, come ubbidienza a un disegno tipico, ci sarebbe da
fare (e a ragione sono state fatte) talune riserve, perché i
personaggi dell'Ariosto si prendono molte libertà verso sé
stessi, secondo i casi nei quali incorrono, o piuttosto
secondo i servigi che loro richiede l'autore.
Tali avvertenze si provano indispensabili, perché il
presupposto dei caratteri oggettivamente rilevati e coerenti,
se dà luogo a lode da parte di coloro che li scoprono presso
l'Ariosto, dà luogo invece a tacce, del pari infondate, da
parte degli altri, che ve li cercano e non ve li trovano. Così
il De Sanctis abbassò una volta le creature femminili
dell'Ariosto a paragone di quelle di Dante e dello Shakespeare
e del Goethe: paragone impossibile, perché Angelica, Olimpia
ed Isabella non posseggono certamente l'intensità passionale
di Francesca, Desdemona e Margherita, ma nemmeno queste
posseggono le armoniose ottave nelle quali le altre si
distendono e si cullano ed effettivamente consistono; e, quel
che val meglio, né le une né le altre soffrono delle
correlative mancanze, che sono mancanze al lume di un
pregiudizio critico, ma non reali privazioni e contraddizioni
poetiche in sé stesse. Anche il De Sanctis ebbe ad accusare,
quasi difetto e privazione, nell'Ariosto la mancanza del
sentimento della natura; ma il cosiddetto sentimento della
natura (come, del resto, esso medesimo, il grande maestro,
insegnava) non dipende dalla natura, sibbene dagli
atteggiamenti dello spirito umano, dei sensi di sollievo, di
malinconia o di religioso terrore che l'uomo infonde volta a
volta nella natura, ritrovandoveli dopo averveli posti; e
questi atteggiamenti, nella loro particolarità, erano esclusi
in conseguenza dell'atteggiamento fondamentale dell'Ariosto, e
se qualche accenno se ne fosse per caso introdotto nel poema,
qualche nota sentimentale vi fosse risonata, subito se ne
avvertirebbe lo stridore e la sconvenienza. Al Lessing, altro
oggettiviste della critica, parve errato ed eccedente i
confini della poesia il ritratto ariostesco delle bellezze di
Alcina : al che il De Sanctis rispondeva che la materialità,
biasimata dal Lessing, era in quella descrizione, il segreto
della poeticità, perché la bellezza di Alcina maga,
consistendo in un rivestimento fittizio, voleva descrizione
materiale. Censura ingiusta, e risposta assai ingegnosa bensì,
ma non forse altrettanto vera, perché si è già visto che
l'Ariosto, cori quel metodo, descriveva sempre, così le
bellezze schiette come le finte, le Olimpie come le Alcine; e
la risposta genuina sembra la già data, che invano si
cercherebbero nell'Ariosto tratti energici, fisionomie vive
ottenute con due pennellate, cose che presuppongono un modo di
sentire che egli non possedeva e, in ogni caso, reprimeva. Gli
occhi « ridenti e fuggitivi », che sono tutta Silvia, il «doux
sourire amoureux et souffrant», che è tutta la spirituale
amica della Maison du berger, appartengono non all'Ariosto, ma
al Leopardi e al De Vigny.
Vi ha due modi nei quali non bisogna leggere il Furioso. Il
primo è quello con cui si legge un libro euritmico di alto
soffio morale, come i Promessi sposi, seguendo cioè nelle
varie parti il processo di un serio affetto umano, che in
tutte le parti, anche nelle più piccole, circola e tutte le
configura e le determina; e il secondo, quello che si adotta
per opere come, per esempio, il Faust, nelle quali la
composizione generale, più o meno guidata da concetti della
mente, non coincide del tutto con l'ispirazione poetica delle
singole parti e nelle quali conviene discernere parti poetiche
e legamenti impoetici, e il lettore, che sia di spirito
poetico dotato, trascorre sugli uni per soffermarsi sulle
altre e goderle. Nel Furioso, non c'è, o assai lievemente
(ossia nella misura della imperfezione di ogni più perfetta
opera umana) la inequalità di questa seconda sorta di opere, e
c'è, invece, l'equalità delle prime; ma vi manca la
particolare forma di serietà passionale, che è nel tutto delle
prime e nelle singole parti delle seconde. Si deve perciò
leggere in un terzo modo, che è quello di seguire, oltre la
particolarità dei racconti e delle descrizioni, un contenuto
che è sempre il medesimo e si attua in forme sempre nuove e ci
attrae con la magia di questa, insieme, medesimezza ed
inesauribile varietà di apparenze. |