CRITICA: LUDOVICO ARIOSTO

 MISURA DELL'UMANITA' ARIOSTESCA

 AUTORE: Walter Binni    TRATTO DA: Metodo e poesia di Ludovico Ariosto

 

«Sic me contingat vivere sicque mori»: è l'insegna alla quale sulle orme dello Harington, i devoti dell'Ariosto possono affermare la loro aspirazione ad una vita di fuochi tranquilli e costanti, di silenzioso sviluppo di sogno entro una cornice di atti quotidiani senza pretese, e il loro sguardo ad una vita trasposta in un ritmo medio di poesia dalle Satire, può struggersi di fronte a quegli interni pacifici, a quei gesti essenziali e negletti, a quel beato viaggio sul mappamondo, al cruccio dolcemente egoistico di comodità sobrie e rapite da una sorte maligna ma non spietata. E il baldiniano « Lodovico della tranquillità » (in cui passa la suggestione del boccaccesco Johannes tranquillitatum) accentua il calore tra ferrarese e romano dell'antiascetico lodatore di bellezze femminili o di seccatissimo ed eroicomico governatore della Garfagnana. Ma queste grazie sottolineate da calligrafie ben più grosse e carnose di quella genuina, finiscono per sfarsi in discutibile pittoresco come riducono e deformano il vero valore di una costatazione preliminare: è una vita che si sottrae al romanticizzamento avventuroso, che è difficilissimo trasformare in una qualsiasi « storia di un'anima », in dramma ideologico e spirituale (un Tasso, un Dante, un Petrarca), che è priva di ansie eppure non priva di quella tensione e attenzione pensosa, di quella cognizione della rugosa realtà (« in questa assai più oscura - che serena vita ») che altrove sfociano in dramma, problema, rivolta.
È possibile invece vedere questa vita esemplare, estremamente istruttiva per i rapporti vita-poesia ed estremamente coerente con il tono poetico che nella sua maggiore purezza raggiunge l'esperienza dell'Ariosto, senza forzature indebite e ricercandovi non tanto le linee di caratterizzazione gustosa (presi troppo dalla trasfigurazione volontaria delle Satire) quanto la giusta situazione di un atteggiamento umano ed estetico che non implica alcuno scambio estetizzante dei due termini e la loro reciproca falsificazione. È possibile indicare, ad esempio, come luogo d'incontro di vita e poesia quel fondo di serietà semplice, di gusto delle cose che perfino i poeti romantici affidano al loro epistolario: sì che la faccia corrucciata dell'Alfieri si spiana in un idillio insospettato in certe lettere che parlano di stufe, di cioccolato, di appartamenti. O quell'attaccamento alle cose comuni ed agli affetti essenziali, quel saper dare una linea alle proprie azioni senza portarle mai su di un piano programmatico (senza farsene un programma di azione e di moralità esplicita), quel certo fastidio delle cose pratiche pur vivendole e gustandole in quanto costituiscono abitudine e clima della nostra giornata, quel lamentarsi, che si sente già da sé esagerato e poco drammatico, di faccende che però si compiono senza ribellione: sono caratteri che allontanano l'Ariosto dal « genio » scattante. e dolente come l'ottocento ce lo ha rappresentato e lo avvicinano ad una umanità intensa e semplice, istintiva nella sua apparente mediocrità e che ci appare essenziale in uomini, che con modestia di artigiani vivono l'arte senza boria, senza gesti, senza giustificazioni a ritroso, mantenendo le loro azioni nella misura più istintiva e civile. Ci sono poeti vistosi e spesso retorici che hanno bisogno di rivelarsi sul piano pratico e di imprimere i loro monogrammi fastosi su ogni minima azione, mentre i poeti più intimi riservano ai loro vizi e alle loro virtù uno stadio di sincerità e di sobrietà intatte da ogni moda esteriore. Tanto che questo atteggiamento semplicemente umano ed assorto (e senza gusto di falsa primitività) pare distinguere proprio coloro che del tempo hanno un sentimento interiore che li sottrae alla rovina dei programmi e degli impegni e che più si conservano in una condizione poetica che non e lo stato di trance della pitonessa, ma piuttosto una profonda attenzione ai movimenti dell'intima fantasia, una lettura costante e piena di un testo di sentimenti e di impressioni. Un atteggiamento che si può sentire in un Boccaccio, in un Orazio, e che se naturalmente non può indicarsi come sine qua non di ogni vita poetica, si ritrova essenzialmente anche nei più allucinati, nei più « visionari », e si impianta bene e in modo caratteristico nel clima umanistico rinascimentale, in un clima di armonia non ricercata ad ogni costo, ma vissuta in concrete forme di civiltà.
Ma è pur chiaro che questo tentativo di riconoscere nell'atteggiamento ariostesco uno «speculum» di vita di poeta si limita poi in concreto all'illuminazione più larga di una particolare individualità, vista sempre dalla parte dell'opera nella sua vita intera. Anche l'accenno fatto ad Orazio va subito limitato per non calcare su di una linea della fisionomia ariostesca che neppure nelle Satire è completamente ritrovatile se non con una volontaria falsificazione. Orazio, che certo l'Ariosto amò e risentì nella sua formazione, è troppo esplicitamente e programmaticamente maestro di saggezza poetica e di sobrietà edonistica e nel suo sguardo pacato c'è una lentezza di buon senso poco sollevato da un primato della fantasia, il suo ricorso alle cose nella sua concretezza è troppo gustato e si traduce facilmente nella sua poetica del verosimile e dell'«utile dulci». Mentre l'attacco ariostesco fra vicenda umana e storia poetica è più spontaneo, mai moralistico e mai programmatico sì che i fatti, gli avvenimenti si sciolgono facilmente in modo di vivere, in apprensioni di realtà assunte nel loro significato più vasto di accenti del ritmo vitale di cui pochi poeti han sentito l'unità e la preminenza al pari dell'Ariosto sapendo mantenere alla poesia la sua destinazione di alleggerimento, di astrazione stilistica che diventerebbe gusto di decorazione calligrafica se non fosse calda di una sua umana contemporaneità...

Attacco diretto fra vita e visione artistica in cui la cultura non costituisce diaframma di soprastrutture e di pregiudizi boriosi. E se l'Ariosto aderisce alla mentalità del suo « milieu » non ne nutre le esagerazioni conformistiche. Così va giudicata la sua cortigianeria: non come condizione spirituale di cui certi umanisti sono lieti e orgogliosi (« il cortegiano ») ; né d'altra parte si deve, sulla falsariga del ritratto troppo coerente delle Satire, far di lui quasi un romantico sdegnoso di ogni obbedienza, geloso della sua assoluta indipendenza personale, quasi nel senso di quel letterato di « Del Principe e delle lettere » che l'Alfieri vien proprio a contrapporre ai letterati cortigiani tra cui include lo stesso Ariosto. Si tenga conto che i numerosissimi lamenti contro la vita di corte e il servizio dell'« Erculea prole », contenuti nelle Satire, risentono in parte di una tradizione letteraria e in parte nascono da un fastidio non convenzionale di uno spirito schiettamente poetico per un'attività che lo distraeva dal suo gusto di una vita tranquilla come vestibolo indispensabile al regno della fantasia, come punto di vista e di partenza per il suo viaggio poetico. Se il problema della cortigianeria non era sentito nell'epoca se non come mancanza eventuale di misura o come stimolo a vane ambizioni, l'Ariosto sentì il suo servizio come una limitazione seria della sua libertà in quanto possibilità di quiete, di attenzione tranquilla, condizione dell'aprirsi della fantasia dai beati vestiboli del silenzio e dell'immobilità. Non c'era in lui umiliazione morale o disagio nell'approfittare di un mecenatismo che anzi lamentava troppo avaro e mal disposto. E viceversa le sue adulazioni vanno prese alla stessa stregua delle invettive contro i tiranni (e artisticamente quasi un fregio sontuoso di uno stemma che non impegna moralmente l'artista cinquecentesco) e contro gli adulatori, che mentre esprimono risentimento contro l'eccesso, la mancanza di misura entro schemi oraziani, vanno considerate non come ritrattazioni delle espressioni cortigiane, ma come altri motivi di arricchimento estetico: non come impegnative rivolte, ma al massimo come momentanei sfoghi facilmente rasserenabili nel fondamentale interesse di conoscenza poetica di un sopramondo fantastico in cui vive veramente l'animo « tutto umano » dell'Ariosto.

Né sdegni brutiani né viltà cortigiane e mescolanza di satira e adulazione sullo stesso piano decorativo (sì che nelle liriche latine ad un distico irrispettoso, il LVI, sugli Este segue uno sperticato elogio di Ippolito), e piuttosto una serietà in un altro piano di coerenza personale e di dignità poetica. Certo può colpire che l'Ariosto nelle sue Rime sanzioni (Egloga I) l'orribile violenza di Alfonso e di Ippolito contro i fratelli Ferrante c Giulio, ma è ingenuo inserire l'Ariosto in un giudizio storico a posteriori e volerlo rendere estraneo allo spirito cinquecentesco del diritto della forza e del signore. Era l'epoca in cui il Principe, pur nella sua rivoluzionarietà, doveva apparire non in contrasto con il più generale modo di sentimento e di giudizio, e la tenace ragione per cui le Signorie si erano impiantate e restavano, il desiderio cioè delle forze borghesi e aristocratiche di non essere disturbate da sussulti comunque originati, teneva alto posto nell'« ordine » di quella civiltà. Ragione di vita di un'epoca storica di cui l'Ariosto si faceva eco nell'elogio citato con una esagerazione tendenziosa che rivela però il suo istintivo e storico conservatorismo:

 

Prima a' nimici e poi veniamo a' ricchi,
fingendo novi falli e nove leggi,
perché si squarti l'un, l'altro s'impicchi
.........................................
Qual cosa non faria, qual già non fece
un popolar tumulto che si trove sciolto
ed a cui ciò ch'appetisce lece?


Fedeltà intima a certi motivi essenziali del suo tempo e fedeltà al suo bisogno di un ordine civile per la sua elaborazione del ritmo vitale colto sotto le forme della civiltà e nel moto delle cose e degli affetti essenziali. Figlio di una aristocrazia borghesizzata, ancora capace di prendere la spada in pugno nella guerra sotto le insegne del signore, ma più lieta di una vita agiata e tranquilla, l'Ariosto è pur lontano dal modello di un Sancho, e ricco di impeti generosi e combattivi. « Che cuore aveva l'Ariosto! », ma d'altra parte se la frase desanctisiana coagula e liricizza l'impressione dell'animo ariostesco, della sua altissima possibilità di adesione su piano umano e poetico a motivi di intensa commozione, non si può arrivare alla precisazione di certi atteggiamenti pratici che una critica deteriore potrebbe prendere anche a spiegazione dell'Orlando. Così il preteso patriottismo dell'Ariosto che ha fatto fremere qualche vecchio trombone provinciale, così la satira antiecclesiastica tanto comune nel poema. Inutile insistere sul primo, tradizionalmente basato sulle invettive antistraniere quanto mai volubili e fugaci: sin dal '94, ad es., in occasione della discesa di Carlo VIII, d giovane poeta scrisse due componimenti dello stesso argomento («ad Philiroem», «ad Pandulphum») in cui lo stesso accenno alla calata del re francese serve in un caso ad un contrasto sanato in edonistica indifferenza, nell'altro ad una brusca interruzione dell'idillio amoroso: «me nulla tangat cura...» «Hic est qui super impiam - cervicem gladius pendulus imminet».
E accanto alla famosa invettiva del XXXIV («o fameliche ecc.») si trovano nel poema le lodi di Francesco I e di Carlo V, l'esaltazione dei vari signori che erano la causa della disunione e della debolezza italiana. Mentre il lamento per le sciagure italiane nasce coerentemente dal senso rinascimentale di una catastrofe di condizioni di vita civile, della perdita del «bel vivere».

 

Il bel vivere allora si sommerse;
e la quiete in tal modo s'escluse,
ch'in guerra, in povertà sempre e in affanni
è dopo stata ed è per star molt'anni.

                                                    [XXXIV, 2]


Né molto di più possiamo trovare circa un presunto sdegno ideologico o di un voltairiano disprezzo nei riguardi della religione tradizionale. Chi legge certe ottave contro la corruzione del clero e specialmente contro i frati (per esempio la scintillante descrizione del convento dove viene ritrovata la Discordia, nel c. XIV) o certe espressioni di unzione ironica, potrebbe credersi di fronte ad una precisa posizione ideale. Ma più che una posizione combattiva bisogna accertare le condizioni di una interessante coerenza ariostesca. Vi era una tradizione letteraria specialmente novellistica antiecclesiastica e soprattutto antifratesca e il cinquecento portando a maturazione l'aspirazione umanistica, ad un pieno e sincero possesso della vita, aveva esasperato ogni atteggiamento antiascetico e ridicolizzato ogni sforzo (come inutile od ipocrita) di inibizione al godimento dei beni mondani (l'eremita ed Angelica, mito del secolo). Ma ciò non implica una rigidezza riformatrice da cui gli italiani erano immunizzati proprio dall'eccessiva soluzione in ridicolo di vizi e difetti che apparivano frutti naturali di una costrizione innaturale e a cui non avevano da opporre un ideale religioso diverso da quello tradizionale per il quale sempre le invettive anche belliane hanno costituito una potente valvola di sicurezza. Come l'Ariosto non discuteva l'autorità del signore pur con la sua ironia sui tiranni, così nel suo atteggiamento di poeta infastidito di ogni ricerca lontana dalla sua accettazione dei motivi elementari della vita e delle linee essenziali della civiltà, egli si precludeva ogni via di eresia con quel gusto antiastratto che italianamente si volgarizza nella distinzione di due piani, quello della vita praticata senza scrupoli e quello del culto accolto come indiscutibile. Si legga la Satira VI dove il padre si preoccupa dei pericoli dello. studio per il giovane Virginio. Sì il filosofo può diventare eretico,

 

perché, salendo lo intelletto in suso
per veder Dio, non de' parerci strano
se talor cade giù cieco e confuso.
Ma tu, del quale il studio è tutto umano,
e son li tuoi soggetti i boschi e i colli,
il mormorar d'un rio che righi il piano,
cantar d'antiqui gesti e render molli
con preghi animi duri, e far sovente
di false lode i principi satolli;
dimmi, che truovi tu che sì la mente
ti debba avviluppar, sì torre il senno
che tu non creda come l'altra gente?

                                                    (vv. 46-57)


Nei quali versi è da notare questo senso di sdegno sincero contro quei letterati che vogliono allontanarsi dal modo di sentire comune, dalla tradizione, dalla concretezza di una mentalità che non viene discussa come non vengono discussi i motivi naturali, i sentimenti umani di cui il poeta deve farsi interprete. Non tanto un conformismo pauroso (parum de principe, nihil de Deo) che più si impadronirà dell'animo degli italiani con la controriforma, ma un conformismo tradizionalistico, per amore di concretezza, per paura di uscire da una misura umana che appare all'Ariosto come essenziale base ad ogni espressione artistica.
Sulla misura umana si calcola anche il suo amore per una vita semplice e sedentaria e il risultato che egli traeva dall'esperienza delle preoccupazioni giornaliere, dei viaggi non amati e pure così pronti a passare come esperienza di disagio e di accettazione di movimento e di pittoresco nel tono medio delle Satire o come base concreta della geografia soprareale dell'Orlando. Viaggi ed esperienze che nel loro limite poco avventuroso e fastoso ci confermano l'immagine del viaggiatore sul mappamondo, dell'amante di una quiete casalinga e cittadina (quasi un umanistico e poetico travestimento di Kant) per una piena libertà poetica, in cui bene si inquadrano gli aneddoti del Pigna, del Fornari, di Virginio sulla sua distrazione, sulla sua sensibilità, sul suo carattere malinconico e pur festivo, che completano, fuori di figurini unilaterali, questa immagine così sensibile di uomo vivo per la poesia nel suo senso più istintivo e civile, avviato da una esperienza immediata e spregiudicata ad una conoscenza superiore tutta poetica e non perciò ingenua o miracolosa.
 

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis