«Sic me contingat vivere sicque mori»: è l'insegna alla quale
sulle orme dello Harington, i devoti dell'Ariosto possono
affermare la loro aspirazione ad una vita di fuochi tranquilli
e costanti, di silenzioso sviluppo di sogno entro una cornice
di atti quotidiani senza pretese, e il loro sguardo ad una
vita trasposta in un ritmo medio di poesia dalle Satire, può
struggersi di fronte a quegli interni pacifici, a quei gesti
essenziali e negletti, a quel beato viaggio sul mappamondo, al
cruccio dolcemente egoistico di comodità sobrie e rapite da
una sorte maligna ma non spietata. E il baldiniano « Lodovico
della tranquillità » (in cui passa la suggestione del
boccaccesco Johannes tranquillitatum) accentua il calore tra
ferrarese e romano dell'antiascetico lodatore di bellezze
femminili o di seccatissimo ed eroicomico governatore della
Garfagnana. Ma queste grazie sottolineate da calligrafie ben
più grosse e carnose di quella genuina, finiscono per sfarsi
in discutibile pittoresco come riducono e deformano il vero
valore di una costatazione preliminare: è una vita che si
sottrae al romanticizzamento avventuroso, che è difficilissimo
trasformare in una qualsiasi « storia di un'anima », in dramma
ideologico e spirituale (un Tasso, un Dante, un Petrarca), che
è priva di ansie eppure non priva di quella tensione e
attenzione pensosa, di quella cognizione della rugosa realtà
(« in questa assai più oscura - che serena vita ») che altrove
sfociano in dramma, problema, rivolta.
È possibile invece vedere questa vita esemplare, estremamente
istruttiva per i rapporti vita-poesia ed estremamente coerente
con il tono poetico che nella sua maggiore purezza raggiunge
l'esperienza dell'Ariosto, senza forzature indebite e
ricercandovi non tanto le linee di caratterizzazione gustosa
(presi troppo dalla trasfigurazione volontaria delle Satire)
quanto la giusta situazione di un atteggiamento umano ed
estetico che non implica alcuno scambio estetizzante dei due
termini e la loro reciproca falsificazione. È possibile
indicare, ad esempio, come luogo d'incontro di vita e poesia
quel fondo di serietà semplice, di gusto delle cose che
perfino i poeti romantici affidano al loro epistolario: sì che
la faccia corrucciata dell'Alfieri si spiana in un idillio
insospettato in certe lettere che parlano di stufe, di
cioccolato, di appartamenti. O quell'attaccamento alle cose
comuni ed agli affetti essenziali, quel saper dare una linea
alle proprie azioni senza portarle mai su di un piano
programmatico (senza farsene un programma di azione e di
moralità esplicita), quel certo fastidio delle cose pratiche
pur vivendole e gustandole in quanto costituiscono abitudine e
clima della nostra giornata, quel lamentarsi, che si sente già
da sé esagerato e poco drammatico, di faccende che però si
compiono senza ribellione: sono caratteri che allontanano
l'Ariosto dal « genio » scattante. e dolente come l'ottocento
ce lo ha rappresentato e lo avvicinano ad una umanità intensa
e semplice, istintiva nella sua apparente mediocrità e che ci
appare essenziale in uomini, che con modestia di artigiani
vivono l'arte senza boria, senza gesti, senza giustificazioni
a ritroso, mantenendo le loro azioni nella misura più
istintiva e civile. Ci sono poeti vistosi e spesso retorici
che hanno bisogno di rivelarsi sul piano pratico e di
imprimere i loro monogrammi fastosi su ogni minima azione,
mentre i poeti più intimi riservano ai loro vizi e alle loro
virtù uno stadio di sincerità e di sobrietà intatte da ogni
moda esteriore. Tanto che questo atteggiamento semplicemente
umano ed assorto (e senza gusto di falsa primitività) pare
distinguere proprio coloro che del tempo hanno un sentimento
interiore che li sottrae alla rovina dei programmi e degli
impegni e che più si conservano in una condizione poetica che
non e lo stato di trance della pitonessa, ma piuttosto una
profonda attenzione ai movimenti dell'intima fantasia, una
lettura costante e piena di un testo di sentimenti e di
impressioni. Un atteggiamento che si può sentire in un
Boccaccio, in un Orazio, e che se naturalmente non può
indicarsi come sine qua non di ogni vita poetica, si ritrova
essenzialmente anche nei più allucinati, nei più « visionari
», e si impianta bene e in modo caratteristico nel clima
umanistico rinascimentale, in un clima di armonia non
ricercata ad ogni costo, ma vissuta in concrete forme di
civiltà.
Ma è pur chiaro che questo tentativo di riconoscere
nell'atteggiamento ariostesco uno «speculum» di vita di poeta
si limita poi in concreto all'illuminazione più larga di una
particolare individualità, vista sempre dalla parte dell'opera
nella sua vita intera. Anche l'accenno fatto ad Orazio va
subito limitato per non calcare su di una linea della
fisionomia ariostesca che neppure nelle Satire è completamente
ritrovatile se non con una volontaria falsificazione. Orazio,
che certo l'Ariosto amò e risentì nella sua formazione, è
troppo esplicitamente e programmaticamente maestro di saggezza
poetica e di sobrietà edonistica e nel suo sguardo pacato c'è
una lentezza di buon senso poco sollevato da un primato della
fantasia, il suo ricorso alle cose nella sua concretezza è
troppo gustato e si traduce facilmente nella sua poetica del
verosimile e dell'«utile dulci». Mentre l'attacco ariostesco
fra vicenda umana e storia poetica è più spontaneo, mai
moralistico e mai programmatico sì che i fatti, gli
avvenimenti si sciolgono facilmente in modo di vivere, in
apprensioni di realtà assunte nel loro significato più vasto
di accenti del ritmo vitale di cui pochi poeti han sentito
l'unità e la preminenza al pari dell'Ariosto sapendo mantenere
alla poesia la sua destinazione di alleggerimento, di
astrazione stilistica che diventerebbe gusto di decorazione
calligrafica se non fosse calda di una sua umana
contemporaneità...
Attacco diretto fra vita e visione artistica in cui la cultura
non costituisce diaframma di soprastrutture e di pregiudizi
boriosi. E se l'Ariosto aderisce alla mentalità del suo «
milieu » non ne nutre le esagerazioni conformistiche. Così va
giudicata la sua cortigianeria: non come condizione spirituale
di cui certi umanisti sono lieti e orgogliosi (« il cortegiano
») ; né d'altra parte si deve, sulla falsariga del ritratto
troppo coerente delle Satire, far di lui quasi un romantico
sdegnoso di ogni obbedienza, geloso della sua assoluta
indipendenza personale, quasi nel senso di quel letterato di «
Del Principe e delle lettere » che l'Alfieri vien proprio a
contrapporre ai letterati cortigiani tra cui include lo stesso
Ariosto. Si tenga conto che i numerosissimi lamenti contro la
vita di corte e il servizio dell'« Erculea prole », contenuti
nelle Satire, risentono in parte di una tradizione letteraria
e in parte nascono da un fastidio non convenzionale di uno
spirito schiettamente poetico per un'attività che lo distraeva
dal suo gusto di una vita tranquilla come vestibolo
indispensabile al regno della fantasia, come punto di vista e
di partenza per il suo viaggio poetico. Se il problema della
cortigianeria non era sentito nell'epoca se non come mancanza
eventuale di misura o come stimolo a vane ambizioni, l'Ariosto
sentì il suo servizio come una limitazione seria della sua
libertà in quanto possibilità di quiete, di attenzione
tranquilla, condizione dell'aprirsi della fantasia dai beati
vestiboli del silenzio e dell'immobilità. Non c'era in lui
umiliazione morale o disagio nell'approfittare di un
mecenatismo che anzi lamentava troppo avaro e mal disposto. E
viceversa le sue adulazioni vanno prese alla stessa stregua
delle invettive contro i tiranni (e artisticamente quasi un
fregio sontuoso di uno stemma che non impegna moralmente
l'artista cinquecentesco) e contro gli adulatori, che mentre
esprimono risentimento contro l'eccesso, la mancanza di misura
entro schemi oraziani, vanno considerate non come
ritrattazioni delle espressioni cortigiane, ma come altri
motivi di arricchimento estetico: non come impegnative
rivolte, ma al massimo come momentanei sfoghi facilmente
rasserenabili nel fondamentale interesse di conoscenza poetica
di un sopramondo fantastico in cui vive veramente l'animo «
tutto umano » dell'Ariosto.
Né sdegni brutiani né viltà cortigiane e mescolanza di satira
e adulazione sullo stesso piano decorativo (sì che nelle
liriche latine ad un distico irrispettoso, il LVI, sugli Este
segue uno sperticato elogio di Ippolito), e piuttosto una
serietà in un altro piano di coerenza personale e di dignità
poetica. Certo può colpire che l'Ariosto nelle sue Rime
sanzioni (Egloga I) l'orribile violenza di Alfonso e di
Ippolito contro i fratelli Ferrante c Giulio, ma è ingenuo
inserire l'Ariosto in un giudizio storico a posteriori e
volerlo rendere estraneo allo spirito cinquecentesco del
diritto della forza e del signore. Era l'epoca in cui il
Principe, pur nella sua rivoluzionarietà, doveva apparire non
in contrasto con il più generale modo di sentimento e di
giudizio, e la tenace ragione per cui le Signorie si erano
impiantate e restavano, il desiderio cioè delle forze borghesi
e aristocratiche di non essere disturbate da sussulti comunque
originati, teneva alto posto nell'« ordine » di quella
civiltà. Ragione di vita di un'epoca storica di cui l'Ariosto
si faceva eco nell'elogio citato con una esagerazione
tendenziosa che rivela però il suo istintivo e storico
conservatorismo:
Prima a' nimici e poi veniamo a' ricchi,
fingendo novi falli e nove leggi,
perché si squarti l'un, l'altro s'impicchi
.........................................
Qual cosa non faria, qual già non fece
un popolar tumulto che si trove sciolto
ed a cui ciò ch'appetisce lece? |
Fedeltà intima a certi motivi essenziali del suo tempo e
fedeltà al suo bisogno di un ordine civile per la sua
elaborazione del ritmo vitale colto sotto le forme della
civiltà e nel moto delle cose e degli affetti essenziali.
Figlio di una aristocrazia borghesizzata, ancora capace di
prendere la spada in pugno nella guerra sotto le insegne del
signore, ma più lieta di una vita agiata e tranquilla,
l'Ariosto è pur lontano dal modello di un Sancho, e ricco di
impeti generosi e combattivi. « Che cuore aveva l'Ariosto! »,
ma d'altra parte se la frase desanctisiana coagula e liricizza
l'impressione dell'animo ariostesco, della sua altissima
possibilità di adesione su piano umano e poetico a motivi di
intensa commozione, non si può arrivare alla precisazione di
certi atteggiamenti pratici che una critica deteriore potrebbe
prendere anche a spiegazione dell'Orlando. Così il preteso
patriottismo dell'Ariosto che ha fatto fremere qualche vecchio
trombone provinciale, così la satira antiecclesiastica tanto
comune nel poema. Inutile insistere sul primo,
tradizionalmente basato sulle invettive antistraniere quanto
mai volubili e fugaci: sin dal '94, ad es., in occasione della
discesa di Carlo VIII, d giovane poeta scrisse due
componimenti dello stesso argomento («ad Philiroem», «ad
Pandulphum») in cui lo stesso accenno alla calata del re
francese serve in un caso ad un contrasto sanato in edonistica
indifferenza, nell'altro ad una brusca interruzione
dell'idillio amoroso: «me nulla tangat cura...» «Hic est qui
super impiam - cervicem gladius pendulus imminet».
E accanto alla famosa invettiva del XXXIV («o fameliche ecc.»)
si trovano nel poema le lodi di Francesco I e di Carlo V,
l'esaltazione dei vari signori che erano la causa della
disunione e della debolezza italiana. Mentre il lamento per le
sciagure italiane nasce coerentemente dal senso rinascimentale
di una catastrofe di condizioni di vita civile, della perdita
del «bel vivere».
Il bel vivere allora si sommerse;
e la quiete in tal modo s'escluse,
ch'in guerra, in povertà sempre e in affanni
è dopo stata ed è per star molt'anni.
[XXXIV, 2] |
Né molto di più possiamo trovare circa un presunto sdegno
ideologico o di un voltairiano disprezzo nei riguardi della
religione tradizionale. Chi legge certe ottave contro la
corruzione del clero e specialmente contro i frati (per
esempio la scintillante descrizione del convento dove viene
ritrovata la Discordia, nel c. XIV) o certe espressioni di
unzione ironica, potrebbe credersi di fronte ad una precisa
posizione ideale. Ma più che una posizione combattiva bisogna
accertare le condizioni di una interessante coerenza
ariostesca. Vi era una tradizione letteraria specialmente
novellistica antiecclesiastica e soprattutto antifratesca e il
cinquecento portando a maturazione l'aspirazione umanistica,
ad un pieno e sincero possesso della vita, aveva esasperato
ogni atteggiamento antiascetico e ridicolizzato ogni sforzo
(come inutile od ipocrita) di inibizione al godimento dei beni
mondani (l'eremita ed Angelica, mito del secolo). Ma ciò non
implica una rigidezza riformatrice da cui gli italiani erano
immunizzati proprio dall'eccessiva soluzione in ridicolo di
vizi e difetti che apparivano frutti naturali di una
costrizione innaturale e a cui non avevano da opporre un
ideale religioso diverso da quello tradizionale per il quale
sempre le invettive anche belliane hanno costituito una
potente valvola di sicurezza. Come l'Ariosto non discuteva
l'autorità del signore pur con la sua ironia sui tiranni, così
nel suo atteggiamento di poeta infastidito di ogni ricerca
lontana dalla sua accettazione dei motivi elementari della
vita e delle linee essenziali della civiltà, egli si
precludeva ogni via di eresia con quel gusto antiastratto che
italianamente si volgarizza nella distinzione di due piani,
quello della vita praticata senza scrupoli e quello del culto
accolto come indiscutibile. Si legga la Satira VI dove il
padre si preoccupa dei pericoli dello. studio per il giovane
Virginio. Sì il filosofo può diventare eretico,
perché, salendo lo intelletto in suso
per veder Dio, non de' parerci strano
se talor cade giù cieco e confuso.
Ma tu, del quale il studio è tutto umano,
e son li tuoi soggetti i boschi e i colli,
il mormorar d'un rio che righi il piano,
cantar d'antiqui gesti e render molli
con preghi animi duri, e far sovente
di false lode i principi satolli;
dimmi, che truovi tu che sì la mente
ti debba avviluppar, sì torre il senno
che tu non creda come l'altra gente?
(vv. 46-57) |
Nei quali versi è da notare questo senso di sdegno sincero
contro quei letterati che vogliono allontanarsi dal modo di
sentire comune, dalla tradizione, dalla concretezza di una
mentalità che non viene discussa come non vengono discussi i
motivi naturali, i sentimenti umani di cui il poeta deve farsi
interprete. Non tanto un conformismo pauroso (parum de
principe, nihil de Deo) che più si impadronirà dell'animo
degli italiani con la controriforma, ma un conformismo
tradizionalistico, per amore di concretezza, per paura di
uscire da una misura umana che appare all'Ariosto come
essenziale base ad ogni espressione artistica.
Sulla misura umana si calcola anche il suo amore per una vita
semplice e sedentaria e il risultato che egli traeva
dall'esperienza delle preoccupazioni giornaliere, dei viaggi
non amati e pure così pronti a passare come esperienza di
disagio e di accettazione di movimento e di pittoresco nel
tono medio delle Satire o come base concreta della geografia
soprareale dell'Orlando. Viaggi ed esperienze che nel loro
limite poco avventuroso e fastoso ci confermano l'immagine del
viaggiatore sul mappamondo, dell'amante di una quiete
casalinga e cittadina (quasi un umanistico e poetico
travestimento di Kant) per una piena libertà poetica, in cui
bene si inquadrano gli aneddoti del Pigna, del Fornari, di
Virginio sulla sua distrazione, sulla sua sensibilità, sul suo
carattere malinconico e pur festivo, che completano, fuori di
figurini unilaterali, questa immagine così sensibile di uomo
vivo per la poesia nel suo senso più istintivo e civile,
avviato da una esperienza immediata e spregiudicata ad una
conoscenza superiore tutta poetica e non perciò ingenua o
miracolosa.
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