Quando si parla delle Satire ariostesche, per allontanare
subito il sospetto mutuato dalla critica romantica e
postromantica di una loro documentarietà puramente
autobiografica, di una immediatezza psicologica, occorre
accertare la loro natura essenzialmente artistica, la loro
vita su di un piano letterario, l'intenzione poetica che fece
i suoi conti con una tradizione e portò una novità stilistica,
non una semplice colorazione di contenuto. Ciò serve a
nobilitare, non ad appesantire le Satire, serve a sottrarle ad
un senso di inferiorità per cui troppo spesso vengono adibite
a semplice surrogato di una biografia del poeta: alla quale
poi offrono ben poco di sicuro al di là dei documenti che gli
storici hanno messo in luce. Ed anzi la deformazione stessa di
alcuni avvenimenti nelle Satire, può confermare la tesi
ragionevole che là non si trattava di pure « confidenze »
epistolari o di seria autobiografia, ma di una costruzione
poetica in cui gli elementi autobiografici sono utilizzati a
fini estetici, rivivono in un'atmosfera, in un tono che non
sono un loro semplice alone, ma che il poeta coscientemente
elabora con un suo intento artistico, mediante quegli
elementi, disponendoli, deformandoli, introducendoli
saltuariamente e con luci diverse, impastandoli con fiabe e
con pacati esempi di saggezza umana e di misura poetica. Tutt'altro
che casuale riflesso qua e là luccicante di materia prosastica
assunta nel suo valore documentario, la poesia, il tono medio
poetico delle Satire, è frutto di una intenzione, di una
poetica che ha chiari i propri riferimenti culturali, la
propria volontà formale.
La Satira (e si noti che questo parlare di un « genere »
presuppone naturalmente la svalutazione crociana, ma implica
il riconoscimento storico di un atteggiamento cinquecentesco
inevitabilmente calcolabile in una storia di cultura
letteraria, in una storia di poetica entro cui non si può
ignorare coMe gli artisti di quell'epoca sentissero vivo il
genere e vi cercassero una particolare tradizione superandola
se geniali, ma comunque tenendone il massimo conto) ci porta,
come il teatro, ad indicare la novità ariostesca in un campo
stilistico, nel classicismo volgare che vuol superare i
tentativi più alessandrini e popolareggianti della letteratura
quattrocentesca, e d'altronde la sua adesione a motivi
letterari, a forme, a strutture espressive che si venivano
concretando in quell'inizio di secolo. È noto che dopo un
esercizio medievale di satira latina e volgare (Orazio era
apparso soprattutto come «Orazio satiro»), antifemminile,
antifratesca, antimperiale ecc.., o sentenziosa e profetica,
nel quattrocento un più diretto contatto con i latini,
Giovenale e Persio principalmente, aveva convalidato su di un
piano più tecnico (le imitazioni furono abbondanti anche in
latino nella vicinanza maggiore possibile cori i modelli
umanisticamente riportati a modelli di vita solo attraverso la
perfezione formale: così il ferrarese T. V. Strozzi nel suo «
Sermonum liber ») la tradizionale predilezione per un discorso
poetico capace entro una suggestione generale di toni vari,
tra burleschi e violenti, tra familiari e moraleggianti;
mentre per opera di poeti oscuri e prosastici la terza rima,
la terzina veniva ripetutamente adibita a canzoni morali, a
satire, a capitoli (Vinciguerra, P. Sasso, Sommariva, Accolti)
che l'Ariosto dové risentire, specie nell'ambiente ferrarese
in cui operava il Pistoia, riallacciando un'esperienza più
popolare e burlesca con la tradizione oraziana e creandosi uno
strumento adatto alla sua saggezza poetica, al suo gusto di
esperienza vitale e di agio letterario. I Sermones oraziani
(uno dei libri letterariamente più validi nella tradizione
italiana almeno fino al settecento) lo impressionarono non
tanto per il loro carattere di invettiva (più forte semmai
negli Epodi) quanto per il loro tono discorsivo, pieno di
punte argute smorzate volontariamente, in un'atmosfera
sorridente, ma non prosaica, in cui si operava una notevole
conquista letteraria piegando la lingua ad uno stile «ora
familiare, ora solenne, mobile e vario, mordace e severo, e a
quella affettazione di trascuraggine e alle volte di parlata
volgare» (Marchesi).
Certo quel gusto che va dall'amore della realtà nei suoi
oggetti a una cadenza in cui l'esaltazione del « giusto mezzo
» si traduce stilisticamente, quel passo poetico senza fretta
ed ansia, misurabile magnificamente nel viaggio a Brindisi
della V del I libro, quel sapore di umanità che poi continua e
si raffina nelle Epistulae, dovettero colpire l'Ariosto
proprio nella sua ricerca di una saggezza umana, di una
concretezza vitale tradotte in saggezza artistica.
Ma il poeta del primo Furioso (le Satin cominciano dopo la
prima edizione del Furioso e quindi appartengono al periodo
della. piena maturità ariostesca) doveva sentire anche
l'insufficienza dell'impostazione oraziana troppo divisa tra
il ragionativo, il pittoresco e il prevalere eccessivo di una
saggezza che in lui vuol esser qualcosa di più personalmente
risentito, di meno distaccato dalla possibilità di una
soluzione fantastica, magari fiabesca ed ironica. Così nella
satira III, dopo la narrazione misurata ed essenziale
dell'insuccesso alla corte di Leone X (il bacio sorridente del
pontefice, il ritorno attraverso la Roma papale, col giubilo
eroico del gabbato), i sentimenti tra bonari e sdegnati non
rimangono su di un piano di querimonia o di consolazione
discorsive, ma sfociano nell'apologo della gazza che canta le
sue qualità smaglianti di brio, di evidenza, di fiaba, senza
d'altronde arrivare a quella piena meditazione fantastica che
esalta il sopramondo rinascimentale del Furioso.
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