CRITICA: LUDOVICO ARIOSTO

 TONO MEDIO DELLE SATIRE

 AUTORE: Walter Binni    TRATTO DA: Metodo e poesia di Ludovico Ariosto

 

Quando si parla delle Satire ariostesche, per allontanare subito il sospetto mutuato dalla critica romantica e postromantica di una loro documentarietà puramente autobiografica, di una immediatezza psicologica, occorre accertare la loro natura essenzialmente artistica, la loro vita su di un piano letterario, l'intenzione poetica che fece i suoi conti con una tradizione e portò una novità stilistica, non una semplice colorazione di contenuto. Ciò serve a nobilitare, non ad appesantire le Satire, serve a sottrarle ad un senso di inferiorità per cui troppo spesso vengono adibite a semplice surrogato di una biografia del poeta: alla quale poi offrono ben poco di sicuro al di là dei documenti che gli storici hanno messo in luce. Ed anzi la deformazione stessa di alcuni avvenimenti nelle Satire, può confermare la tesi ragionevole che là non si trattava di pure « confidenze » epistolari o di seria autobiografia, ma di una costruzione poetica in cui gli elementi autobiografici sono utilizzati a fini estetici, rivivono in un'atmosfera, in un tono che non sono un loro semplice alone, ma che il poeta coscientemente elabora con un suo intento artistico, mediante quegli elementi, disponendoli, deformandoli, introducendoli saltuariamente e con luci diverse, impastandoli con fiabe e con pacati esempi di saggezza umana e di misura poetica. Tutt'altro che casuale riflesso qua e là luccicante di materia prosastica assunta nel suo valore documentario, la poesia, il tono medio poetico delle Satire, è frutto di una intenzione, di una poetica che ha chiari i propri riferimenti culturali, la propria volontà formale.
La Satira (e si noti che questo parlare di un « genere » presuppone naturalmente la svalutazione crociana, ma implica il riconoscimento storico di un atteggiamento cinquecentesco inevitabilmente calcolabile in una storia di cultura letteraria, in una storia di poetica entro cui non si può ignorare coMe gli artisti di quell'epoca sentissero vivo il genere e vi cercassero una particolare tradizione superandola se geniali, ma comunque tenendone il massimo conto) ci porta, come il teatro, ad indicare la novità ariostesca in un campo stilistico, nel classicismo volgare che vuol superare i tentativi più alessandrini e popolareggianti della letteratura quattrocentesca, e d'altronde la sua adesione a motivi letterari, a forme, a strutture espressive che si venivano concretando in quell'inizio di secolo. È noto che dopo un esercizio medievale di satira latina e volgare (Orazio era apparso soprattutto come «Orazio satiro»), antifemminile, antifratesca, antimperiale ecc.., o sentenziosa e profetica, nel quattrocento un più diretto contatto con i latini, Giovenale e Persio principalmente, aveva convalidato su di un piano più tecnico (le imitazioni furono abbondanti anche in latino nella vicinanza maggiore possibile cori i modelli umanisticamente riportati a modelli di vita solo attraverso la perfezione formale: così il ferrarese T. V. Strozzi nel suo « Sermonum liber ») la tradizionale predilezione per un discorso poetico capace entro una suggestione generale di toni vari, tra burleschi e violenti, tra familiari e moraleggianti; mentre per opera di poeti oscuri e prosastici la terza rima, la terzina veniva ripetutamente adibita a canzoni morali, a satire, a capitoli (Vinciguerra, P. Sasso, Sommariva, Accolti) che l'Ariosto dové risentire, specie nell'ambiente ferrarese in cui operava il Pistoia, riallacciando un'esperienza più popolare e burlesca con la tradizione oraziana e creandosi uno strumento adatto alla sua saggezza poetica, al suo gusto di esperienza vitale e di agio letterario. I Sermones oraziani (uno dei libri letterariamente più validi nella tradizione italiana almeno fino al settecento) lo impressionarono non tanto per il loro carattere di invettiva (più forte semmai negli Epodi) quanto per il loro tono discorsivo, pieno di punte argute smorzate volontariamente, in un'atmosfera sorridente, ma non prosaica, in cui si operava una notevole conquista letteraria piegando la lingua ad uno stile «ora familiare, ora solenne, mobile e vario, mordace e severo, e a quella affettazione di trascuraggine e alle volte di parlata volgare» (Marchesi).

Certo quel gusto che va dall'amore della realtà nei suoi oggetti a una cadenza in cui l'esaltazione del « giusto mezzo » si traduce stilisticamente, quel passo poetico senza fretta ed ansia, misurabile magnificamente nel viaggio a Brindisi della V del I libro, quel sapore di umanità che poi continua e si raffina nelle Epistulae, dovettero colpire l'Ariosto proprio nella sua ricerca di una saggezza umana, di una concretezza vitale tradotte in saggezza artistica.
Ma il poeta del primo Furioso (le Satin cominciano dopo la prima edizione del Furioso e quindi appartengono al periodo della. piena maturità ariostesca) doveva sentire anche l'insufficienza dell'impostazione oraziana troppo divisa tra il ragionativo, il pittoresco e il prevalere eccessivo di una saggezza che in lui vuol esser qualcosa di più personalmente risentito, di meno distaccato dalla possibilità di una soluzione fantastica, magari fiabesca ed ironica. Così nella satira III, dopo la narrazione misurata ed essenziale dell'insuccesso alla corte di Leone X (il bacio sorridente del pontefice, il ritorno attraverso la Roma papale, col giubilo eroico del gabbato), i sentimenti tra bonari e sdegnati non rimangono su di un piano di querimonia o di consolazione discorsive, ma sfociano nell'apologo della gazza che canta le sue qualità smaglianti di brio, di evidenza, di fiaba, senza d'altronde arrivare a quella piena meditazione fantastica che esalta il sopramondo rinascimentale del Furioso.
 

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis