Il Decamerone non è che
l'accento di gioia espansiva dell'uomo sfuggito alla costrizione del Medio
Evo. Tutti i terrori ammassati dalla religione cominciano a dissiparsi. I
fantasmi sono spariti. Ecco l'alba del mondo moderno. Il cielo e la terra
ricominciano a sorridere. Un'ebbrezza di gioia rapisce i cuori. Non senza
ragione, Boccaccio ha fatto della descrizione della peste del 1348
l'introduzione e il preludio dei suoi racconti frivoli. L'immaginazione ne
è tanto rapita, che un resto di spavento si unisce a tutte quelle risa
sfrenate. La tragedia è nascosta sotto la festa, e la vipera ride sotto i
piedi di Euridice. Questa leggerezza sfrenata in tanta desolazione, questa
esultanza di gioia nel gran cimitero, questa società a cui resta solo un
giorno di vita, e che, in quella villa, sotto quelle ombre magnifiche,
sfiorate appena dal terrore della peste, invece di pensare ai funebri
rintocchi della Chiesa, alle minacce e alle promesse della vita futura, si
fa di ogni ora un piacere, e raccoglie tutti i suoi ricordi allegri: quale
poesia audace e nuova! Qual cambiamento nel cuore dell'uomo! E come il
Medio Evo, coi suoi terrori crudeli è già lontano da questo epicureismo
cristiano! La morte ha veramente perduto il suo pungiglione, è beffata e
sfidata.
Una nuova rivoluzione è nascosta in quelle pagine frivole, in cui
Boccaccio celebra gli allegri funerali del Medio Evo.
Tutto ciò che aveva spaventato il mondo con una grandezza ideale, riappare
spoglio del suo prestigio e la mente si diverte di ciò che aveva atterrito
il cuore. Dei ricordi di quel mondo gigante restano brevi « novelle » che
sette donzelle e tre garzoni raccontano all'ombra di una villa. Sentite da
una parte una società che muore, esalando nell'aria le credenze derise, le
leggende parodiate; dall'altra una società che rinasce nella gioia e nel
riso. Era naturale che l'Italia, che aveva vinto l'aristocrazia,
distruggesse l'esaltazione cavalleresca. Il genio del Decamerone è lo
stesso di quelle repubbliche borghesi della Toscana, di quei popolani
grassi che riducevano tutto alle proporzioni dei loro comuni. Allo stesso
modo con cui essi abbattevano i castelli, e ponevano la feudalità allo
stesso livello della borghesia, Boccaccio abbassa le immaginazioni,
degrada le tradizioni della poesia cavalleresca e le riconduce alle
proporzioni del racconto popolare.
Non lascia a nessun castello la sua bandiera senza macchia, a nessuna
famiglia il suo prestigio, a nessun nome la sua grandezza reale o
chimerica. Senza volerlo, egli è veramente rivoluzionario, perché abolisce
la feudalità nelle immaginazioni e nella poesia. Sui blasoni orgogliosi,
egli scrive racconti plebei. Stabilisce un'eguaglianza nel ridicolo tra le
glorie di tutti gli ordini. I ricordi più orgogliosi dell'epopea feudale
sono obbligati a curvarsi sotto la stessa ironia e a discendere alla
prosa, così come, nella vita reale, i castellani d'Italia erano costretti
a discendere dai loro erti manieri per venire ad iscriversi sul libro dei
comuni con i tessitori e i cardatori di lana. Chi potrebbe disconoscere il
carattere repubblicano e democratico del Decamerone? Vi è scritto ad ogni
pagina. Questa innocente sommossa mette fine alla letteratura feudale.
Comincia il regno della letteratura borghese e popolare.
Se Boccaccio introduce l'eguaglianza borghese nel mondo feudale, che dire
delle libertà con cui tratta la religione cattolica? Quando questo libro
comparve, la Santa Sede dovette rimpiangere le invettive di Dante e di
Petrarca, il genio guelfo di Firenze si fa beffa e scherno di se stesso.
Era una risposta popolare al grido della piazza: Viva la Chiesa ! Misteri,
sacramenti, conventi, reliquie, Papato, tutto diventa oggetto di racconti
ridicoli. Così comincia il Decamerone. Boccaccio attacca la società laica
solo quando ha esaurito l'ironia sulla Chiesa, i falsi santi, le false
reliquie, i tartufi del secolo XIV che portano in giro la penna
dell'angelo Gabriele.
Quando vedete tanti falsi monaci svelati sotto la tunica, tanti conventi
denunziati, avete ragione di pensare che questo libro affretterà la
riforma religiosa. Ma, riflettendo al carattere del Decamerone, restate
ben presto convinti del contrario. Prima di Boccaccio un grido di collera
si elevava contro il Papato. Sulla bocca di Gioacchino da Fiore, di Dante,
di Petrarca questo grido diventa minaccioso. Ma ecco un uomo che muta
improvvisamente questa collera, questa passione seria di innovazione, in
un sorriso senza fiele, in un grazioso spasso. La passione del secolo è
stornata da una allegria innocente e burlona. La guerra del Papato e dei
Ghibellini, della corte romana e del «Vangelo eterno» è per sempre
interrotta da questo riso contagioso che, senza alcun veleno, ma anche
senza profondità, si comunica ai partiti, e li sopisce nel momento in cui
minacciano di ridestarsi. L'Italia sorpresa nella sua collera, sembra
dire, dopo Boccaccio, come nel personaggio di una commedia:
j'ai ri: me voilà désarmé.
Da questo istante si stabilisce una specie di patto tra l'arte italiana e
il clero. La prima avrà la libertà di dire, l'altro di fare tutto. Più
tardi, quando Lutero verrà in Italia che cosa non darebbe la Chiesa,
perché si contenti di sorridere delle sue piaghe, invece di volerle
bruciare!
Nel Boccaccio il genio di scrittore si compone di una quantità di
sfumature opposte che si compendiamo in un parola: la grazia. Questa
lingua dotta, modellata sulla frase di Cicerone, questa specie di toga di
console romano, di cui riveste il ridicolo del Medio Evo, è già di per -s
stessa una viva originalità, parodia naturale ed ingenua dell'Italia
moderna confrontata all'Italia antica. A questa commedia prosaica in cui
figurano tutte le condizioni sociali, si mescolano slanci di poesia,
ballate appassionate che si esalano come profumi di aranci. Mai non
discendete tanto in basso nel volgare, senza che non incontriate un'eco
lontana dei sonetti e delle canzoni di Dante. Poi le descrizioni
dell'aurora d'Italia con le quali comincia ogni giornata, questo grande
paesaggio sempre presente nobilitano il racconto e sembrano purificarlo.
L'alba toscana sorride sulla fronte del narratore.
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