GIOVANNI BOCCACCIO

  • IL DECAMERON PRIMA ESPRESSIONE DELLA BORGHESIA ITALIANA
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    Autore: Edgar Quinet Tratto da: Le rivoluzioni d'Italia

     
         

    Il Decamerone non è che l'accento di gioia espansiva dell'uomo sfuggito alla costrizione del Medio Evo. Tutti i terrori ammassati dalla religione cominciano a dissiparsi. I fantasmi sono spariti. Ecco l'alba del mondo moderno. Il cielo e la terra ricominciano a sorridere. Un'ebbrezza di gioia rapisce i cuori. Non senza ragione, Boccaccio ha fatto della descrizione della peste del 1348 l'introduzione e il preludio dei suoi racconti frivoli. L'immaginazione ne è tanto rapita, che un resto di spavento si unisce a tutte quelle risa sfrenate. La tragedia è nascosta sotto la festa, e la vipera ride sotto i piedi di Euridice. Questa leggerezza sfrenata in tanta desolazione, questa esultanza di gioia nel gran cimitero, questa società a cui resta solo un giorno di vita, e che, in quella villa, sotto quelle ombre magnifiche, sfiorate appena dal terrore della peste, invece di pensare ai funebri rintocchi della Chiesa, alle minacce e alle promesse della vita futura, si fa di ogni ora un piacere, e raccoglie tutti i suoi ricordi allegri: quale poesia audace e nuova! Qual cambiamento nel cuore dell'uomo! E come il Medio Evo, coi suoi terrori crudeli è già lontano da questo epicureismo cristiano! La morte ha veramente perduto il suo pungiglione, è beffata e sfidata.

    Una nuova rivoluzione è nascosta in quelle pagine frivole, in cui Boccaccio celebra gli allegri funerali del Medio Evo.
    Tutto ciò che aveva spaventato il mondo con una grandezza ideale, riappare spoglio del suo prestigio e la mente si diverte di ciò che aveva atterrito il cuore. Dei ricordi di quel mondo gigante restano brevi « novelle » che sette donzelle e tre garzoni raccontano all'ombra di una villa. Sentite da una parte una società che muore, esalando nell'aria le credenze derise, le leggende parodiate; dall'altra una società che rinasce nella gioia e nel riso. Era naturale che l'Italia, che aveva vinto l'aristocrazia, distruggesse l'esaltazione cavalleresca. Il genio del Decamerone è lo stesso di quelle repubbliche borghesi della Toscana, di quei popolani grassi che riducevano tutto alle proporzioni dei loro comuni. Allo stesso modo con cui essi abbattevano i castelli, e ponevano la feudalità allo stesso livello della borghesia, Boccaccio abbassa le immaginazioni, degrada le tradizioni della poesia cavalleresca e le riconduce alle proporzioni del racconto popolare.
    Non lascia a nessun castello la sua bandiera senza macchia, a nessuna famiglia il suo prestigio, a nessun nome la sua grandezza reale o chimerica. Senza volerlo, egli è veramente rivoluzionario, perché abolisce la feudalità nelle immaginazioni e nella poesia. Sui blasoni orgogliosi, egli scrive racconti plebei. Stabilisce un'eguaglianza nel ridicolo tra le glorie di tutti gli ordini. I ricordi più orgogliosi dell'epopea feudale sono obbligati a curvarsi sotto la stessa ironia e a discendere alla prosa, così come, nella vita reale, i castellani d'Italia erano costretti a discendere dai loro erti manieri per venire ad iscriversi sul libro dei comuni con i tessitori e i cardatori di lana. Chi potrebbe disconoscere il carattere repubblicano e democratico del Decamerone? Vi è scritto ad ogni pagina. Questa innocente sommossa mette fine alla letteratura feudale. Comincia il regno della letteratura borghese e popolare.

    Se Boccaccio introduce l'eguaglianza borghese nel mondo feudale, che dire delle libertà con cui tratta la religione cattolica? Quando questo libro comparve, la Santa Sede dovette rimpiangere le invettive di Dante e di Petrarca, il genio guelfo di Firenze si fa beffa e scherno di se stesso. Era una risposta popolare al grido della piazza: Viva la Chiesa ! Misteri, sacramenti, conventi, reliquie, Papato, tutto diventa oggetto di racconti ridicoli. Così comincia il Decamerone. Boccaccio attacca la società laica solo quando ha esaurito l'ironia sulla Chiesa, i falsi santi, le false reliquie, i tartufi del secolo XIV che portano in giro la penna dell'angelo Gabriele.
    Quando vedete tanti falsi monaci svelati sotto la tunica, tanti conventi denunziati, avete ragione di pensare che questo libro affretterà la riforma religiosa. Ma, riflettendo al carattere del Decamerone, restate ben presto convinti del contrario. Prima di Boccaccio un grido di collera si elevava contro il Papato. Sulla bocca di Gioacchino da Fiore, di Dante, di Petrarca questo grido diventa minaccioso. Ma ecco un uomo che muta improvvisamente questa collera, questa passione seria di innovazione, in un sorriso senza fiele, in un grazioso spasso. La passione del secolo è stornata da una allegria innocente e burlona. La guerra del Papato e dei Ghibellini, della corte romana e del «Vangelo eterno» è per sempre interrotta da questo riso contagioso che, senza alcun veleno, ma anche senza profondità, si comunica ai partiti, e li sopisce nel momento in cui minacciano di ridestarsi. L'Italia sorpresa nella sua collera, sembra dire, dopo Boccaccio, come nel personaggio di una commedia:


                                            j'ai ri: me voilà désarmé.


    Da questo istante si stabilisce una specie di patto tra l'arte italiana e il clero. La prima avrà la libertà di dire, l'altro di fare tutto. Più tardi, quando Lutero verrà in Italia che cosa non darebbe la Chiesa, perché si contenti di sorridere delle sue piaghe, invece di volerle bruciare!
    Nel Boccaccio il genio di scrittore si compone di una quantità di sfumature opposte che si compendiamo in un parola: la grazia. Questa lingua dotta, modellata sulla frase di Cicerone, questa specie di toga di console romano, di cui riveste il ridicolo del Medio Evo, è già di per -s stessa una viva originalità, parodia naturale ed ingenua dell'Italia moderna confrontata all'Italia antica. A questa commedia prosaica in cui figurano tutte le condizioni sociali, si mescolano slanci di poesia, ballate appassionate che si esalano come profumi di aranci. Mai non discendete tanto in basso nel volgare, senza che non incontriate un'eco lontana dei sonetti e delle canzoni di Dante. Poi le descrizioni dell'aurora d'Italia con le quali comincia ogni giornata, questo grande paesaggio sempre presente nobilitano il racconto e sembrano purificarlo. L'alba toscana sorride sulla fronte del narratore.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis