Ho esposto la novella del
Boccaccio, in parte compendiandola e in parte commentandola, così per
richiamarla alla vostra memoria, come, e soprattutto, per farne apparire,
nel riesporla, quella che si potrebbe chiamare la logica interna, che è
veramente perfettissima. È una narrazione che non lascia nessuna oscurità
o lacuna: i caratteri dei personaggi, gli incidenti tra i quali operano, i
motivi che sorgono a volta a volta nei loro animi, vi sono così bene
espressi o così sapientemente accennati, che la mente, nel ripercorrerla
da cima a fondo, nell'esaminarla con ogni attenzione, riconosce la
necessità che le cose si svolgessero proprio nel modo in cui sono narrate.
Fino le figure secondarie e i più minuti particolari appaiono studiati con
cura; come si può osservare, per esempio, nella vecchia conoscente di
Andreuccio, affettiva ed espansiva, che viene prudentemente allontanata
dalla sagace cortigiana; o nei vari movimenti del vicolo, disturbato nel
sonno, e nel successivo comparire alla finestra, prima della fantesca che
si finge sonnacchiosa e tratta Andreuccio da ubbriaco, e poi del bravo che
passa alle minacce, e in quella sorta di complicità dei vicini contro
Andreuccio, un po' per fastidio e un po' per legame d'interessi; e,
ancora, nel prete che fa parte della seconda comitiva di ladri e che, come
prete, è più sfacciato degli altri e se la ride dei morti, e del quale
vediamo proprio coi nostri occhi il modo d'introdursi nella tomba: « E,
così detto, posto il petto sopra l'orlo dell'arca, volse il capo in fuori,
e dentro mandò la gambe per doversi giù calare ». L'abilissima commediante
siciliana intramette al racconto della sua nascita, e dell'abbandono che
di lei e della madre avrebbe fatto il padre di Andreuccio, un biasimo
morale, subito cancellato dalla riverenza e dall'indulgente rassegnazione:
« Di che io, se mio padre stato non fusse, forte il riprenderei, avendo
riguardo all'ingratitudine di lui verso mia madre mostrata (lasciamo stare
allo amore che a me, come a sua figliuola, non nata d'una fante né di vil
femina, dovea portare), la quale le sue cose e sé parimente, senza sapere
altrimenti chi egli fosse, da fedelissimo amor mossa, rimise nelle sue
mani. Ma che? Le cose mal fatte e di gran tempo passate sono troppo più
agevoli a riprendere che ad emendare: la cosa andò pur così ». Vendica,
insomma, la madre, la vittima, e insieme indulge al padre, il colpevole:
tutto dignitosamente e delicatamente, come se toccasse una corda che non
poteva non toccare nel suo racconto, ma sulla quale non le era lecito
insistere; e con un finale sospiretto sulle umane debolezze e miserie! Il
Boccaccio non ha dimenticato nessun particolare che potesse concorrere
alla coerenza dell'insieme: tutto ciò che l'ingannatrice doveva fare e
dire per conquistare la fiducia di Andreuccio, dice e fa; tutte le
immagini e i ragionamenti che dovevano sorgere nella mente del giovane, e
i sentimenti che li rafforzavano, sono segnati: « Andreuccio, udendo
questa favola così ordinatamente, così compostamente detta da costei, alla
quale in niuno atto moriva la parola tra' denti né balbettava la lingua, e
ricordandosi esser vero che il padre era stato in Palermo e per sé
medesimo de' giovani conoscendo i costumi, che volentieri amano nella
giovanezza, e veggendo le tenere lagrime, gli abbracciamenti e gli onesti
baci, ebbe ciò che ella diceva più che per vero ». L'affetto di sorella
così compiutamente simulato, il ricordo delle notizie udite da fanciullo
circa un soggiorno di suo padre in Palermo, l'esperienza continua e
presente che Andreuccio aveva dei trasporti d'amore e delle avventure
galanti, sono le varie forze convergenti alla persuasione che in lui si
produce.
Ma nella mia riesposizione non poteva non sfumare, ed è infatti sfumata
via, l'anima che il Boccaccio ha messa nella sua narrazione: quell'anima
che fa di essa una cosa d'arte e non già un semplice racconto storico. Non
era, certo, da moralista l'anima dell'autore del Decamerone, e perciò egli
non tratta i suoi ladri, meretrici, ruffiani e simili lordure come, per
esempio, li tratta Dante nell'Inferno: ma non era neppure da amorale e
cinico, da Pietro Aretino, il quale appunto, riducendo la novella di
Andreuccio a scene di commedia nel suo Filosofo, v'introdusse un certo
tono canagliesco, che fa spiccare per contrasto quello che è proprio della
novella originale. Il Boccaccio accetta la vita nella sua varietà e nelle
sue infinite gradazioni, che dalle passioni più alte scendono alle più
basse, dal santo giù fino alla bestia, e che, via via scapitando nella
qualità, guadagnano nell'estensione, e s'incorporano nella grande
maggioranza degli uomini, che è plebe. A che vale ribellarsi alla realtà,
se la realtà è così fatta= Non giova piuttosto, in molti casi, chiedere e
concedere indulgenza? E poiché quella realtà inferiore e bestiale esiste e
persiste, bisogna guardarla attentamente, indagarla, rappresentarla con
cura. Ma appunto perché, sebbene più rara, esiste altresì una realtà
superiore, l'altra inferiore non può non assumere, al lume di quella, un
aspetto comico. Donde lo spirito realistico e comico insieme dell'autore
del Decamerone: la sua serietà da storico e il suo sorriso da artista.
Donde il suo stile, grave e preciso nel racconto come di chi ha innanzi
una materia che è per lui seria e vuol intenderla e farla intendere in
tutte le particolarità, vivo e popolare nei motti e nei dialoghi che
riferisce; e, in quella gravità e in quel miscuglio di togato e di
realistico, aleggiato da una sottile ironia. Si può lamentare, come è
stato lamentato, che una siffatta indulgenza e ironia s'introducessero col
Boccaccio, e andassero prevalendo nella vita italiana dei tempi
successivi; e si può difendere (come forse non è stato fatto) ciò che di
buono e di sano è pure in quell'accettazione tranquilla della vita nella
sua immutabile realtà; ma tutto ciò non ha che vedere con l'arte del
Boccaccio, il quale come sentiva, così componeva e scriveva.
E la novella di Andreuccio mostra chiaramente questi caratteri, notati in
generale nell'opera boccaccesca. Dire, com'è stato detto, che essa sia un
quadro della vita e dei costumi dei « bassifondi » napoletani del
Trecento, è mutare il Boccaccio da artista che esso era in un descrittore
e in uno storico; sforzarsi di scoprirvi, come usavano i vecchi critici e
ha ritentato qualcuno di recente, un fine o un insegnamento etico, è
camuffarlo da predicatore; affermare che quella novella abbia il solo fine
dell'arte è come dir nulla, perché ogni opera d'arte ha il solo fine
dell'arte, su di che non dovrebbe sorgere più contestazione. La cupidigia,
la malizia, la simulazione, la fatuità, - come in altre novelle del
Boccaccio la sensualità, la scioccheria, l'ipocrisia, l'allegro cinismo, -
ci svelano in questa novella l'esser loro, ci raccontano le loro gesta,
mettono in mostra i loro trofei; e tutto ciò con tanta evidenza e con
tanta forza persuasiva che si finisce col consentire simpaticamente con
quei bricconi così abili, così riflessivi, così privi di scrupoli, così a
modo loro eccellenti. E, insieme con codesta furba gente, celebra in essa
i suoi trionfi il Caso, che volge, rivolge e torna a volgere le condizioni
degli uomini « oltre la difension dei senni umani », e fa di Andreuccio,
nel corso di poche ore, un ingannato e un ingannatore, un derubato e un
derubante, un mercante che va a comperare cavalli, e un ladro che invece
s'arricchisce di gemme; e, col condurlo a un precipizio, gli salva la
vita; col metterlo a rischio di morte imminente, gli ridà il denaro
perduto. Ma la narrazione così di quelle gesta bricconesche come dei
capricci del Caso è sottolineata dal Boccaccio nient'altro che col ritmo
dei suoi periodi, che forma da solo il più efficace commento. La giovane
siciliana era « disposta per picciol pregio a compiacere a qualunque uomo
»; e ciò è detto con la medesima sostenutezza, coi medesimi modi eletti,
coi quali si direbbe che era disposta a compiere qualsiasi più nobile
dovere. Il nome mal sonante della equivoca contrada, dove Andreuccio è
accompagnato dalla servetta, si adorna dell'inciso latinamente costrutto:
« la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra »; come
se si pronunziasse il titolo solenne di qualche insigne luogo o edifizio.
Il bravaccio sfruttatore e protettore, che compare alla finestra a
minacciare, « mostrava (dice il Boccaccio) di dover essere un gran
bacalare, con una barba nera e folta al volto »: aveva, insomma, aspetto
di uomo grave e autorevole, e quasi quasi di sapiente; lui, che era un
ruffiano! Così la novella di Andreuccio è tanto più ilare quanto più è
seria nel tono, ed è tanto più precisa e realistica quanto più è
sorridente.
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