GIOVANNI BOCCACCIO

  • IL CARATTERE ARTISTICO DELLA NOVELLA DI ANDREUCCIO
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    Autore: Benedetto Croce Tratto da: Storie e leggende napoletane

     
         

    Ho esposto la novella del Boccaccio, in parte compendiandola e in parte commentandola, così per richiamarla alla vostra memoria, come, e soprattutto, per farne apparire, nel riesporla, quella che si potrebbe chiamare la logica interna, che è veramente perfettissima. È una narrazione che non lascia nessuna oscurità o lacuna: i caratteri dei personaggi, gli incidenti tra i quali operano, i motivi che sorgono a volta a volta nei loro animi, vi sono così bene espressi o così sapientemente accennati, che la mente, nel ripercorrerla da cima a fondo, nell'esaminarla con ogni attenzione, riconosce la necessità che le cose si svolgessero proprio nel modo in cui sono narrate. Fino le figure secondarie e i più minuti particolari appaiono studiati con cura; come si può osservare, per esempio, nella vecchia conoscente di Andreuccio, affettiva ed espansiva, che viene prudentemente allontanata dalla sagace cortigiana; o nei vari movimenti del vicolo, disturbato nel sonno, e nel successivo comparire alla finestra, prima della fantesca che si finge sonnacchiosa e tratta Andreuccio da ubbriaco, e poi del bravo che passa alle minacce, e in quella sorta di complicità dei vicini contro Andreuccio, un po' per fastidio e un po' per legame d'interessi; e, ancora, nel prete che fa parte della seconda comitiva di ladri e che, come prete, è più sfacciato degli altri e se la ride dei morti, e del quale vediamo proprio coi nostri occhi il modo d'introdursi nella tomba: « E, così detto, posto il petto sopra l'orlo dell'arca, volse il capo in fuori, e dentro mandò la gambe per doversi giù calare ». L'abilissima commediante siciliana intramette al racconto della sua nascita, e dell'abbandono che di lei e della madre avrebbe fatto il padre di Andreuccio, un biasimo morale, subito cancellato dalla riverenza e dall'indulgente rassegnazione: « Di che io, se mio padre stato non fusse, forte il riprenderei, avendo riguardo all'ingratitudine di lui verso mia madre mostrata (lasciamo stare allo amore che a me, come a sua figliuola, non nata d'una fante né di vil femina, dovea portare), la quale le sue cose e sé parimente, senza sapere altrimenti chi egli fosse, da fedelissimo amor mossa, rimise nelle sue mani. Ma che? Le cose mal fatte e di gran tempo passate sono troppo più agevoli a riprendere che ad emendare: la cosa andò pur così ». Vendica, insomma, la madre, la vittima, e insieme indulge al padre, il colpevole: tutto dignitosamente e delicatamente, come se toccasse una corda che non poteva non toccare nel suo racconto, ma sulla quale non le era lecito insistere; e con un finale sospiretto sulle umane debolezze e miserie! Il Boccaccio non ha dimenticato nessun particolare che potesse concorrere alla coerenza dell'insieme: tutto ciò che l'ingannatrice doveva fare e dire per conquistare la fiducia di Andreuccio, dice e fa; tutte le immagini e i ragionamenti che dovevano sorgere nella mente del giovane, e i sentimenti che li rafforzavano, sono segnati: « Andreuccio, udendo questa favola così ordinatamente, così compostamente detta da costei, alla quale in niuno atto moriva la parola tra' denti né balbettava la lingua, e ricordandosi esser vero che il padre era stato in Palermo e per sé medesimo de' giovani conoscendo i costumi, che volentieri amano nella giovanezza, e veggendo le tenere lagrime, gli abbracciamenti e gli onesti baci, ebbe ciò che ella diceva più che per vero ». L'affetto di sorella così compiutamente simulato, il ricordo delle notizie udite da fanciullo circa un soggiorno di suo padre in Palermo, l'esperienza continua e presente che Andreuccio aveva dei trasporti d'amore e delle avventure galanti, sono le varie forze convergenti alla persuasione che in lui si produce.
    Ma nella mia riesposizione non poteva non sfumare, ed è infatti sfumata via, l'anima che il Boccaccio ha messa nella sua narrazione: quell'anima che fa di essa una cosa d'arte e non già un semplice racconto storico. Non era, certo, da moralista l'anima dell'autore del Decamerone, e perciò egli non tratta i suoi ladri, meretrici, ruffiani e simili lordure come, per esempio, li tratta Dante nell'Inferno: ma non era neppure da amorale e cinico, da Pietro Aretino, il quale appunto, riducendo la novella di Andreuccio a scene di commedia nel suo Filosofo, v'introdusse un certo tono canagliesco, che fa spiccare per contrasto quello che è proprio della novella originale. Il Boccaccio accetta la vita nella sua varietà e nelle sue infinite gradazioni, che dalle passioni più alte scendono alle più basse, dal santo giù fino alla bestia, e che, via via scapitando nella qualità, guadagnano nell'estensione, e s'incorporano nella grande maggioranza degli uomini, che è plebe. A che vale ribellarsi alla realtà, se la realtà è così fatta= Non giova piuttosto, in molti casi, chiedere e concedere indulgenza? E poiché quella realtà inferiore e bestiale esiste e persiste, bisogna guardarla attentamente, indagarla, rappresentarla con cura. Ma appunto perché, sebbene più rara, esiste altresì una realtà superiore, l'altra inferiore non può non assumere, al lume di quella, un aspetto comico. Donde lo spirito realistico e comico insieme dell'autore del Decamerone: la sua serietà da storico e il suo sorriso da artista. Donde il suo stile, grave e preciso nel racconto come di chi ha innanzi una materia che è per lui seria e vuol intenderla e farla intendere in tutte le particolarità, vivo e popolare nei motti e nei dialoghi che riferisce; e, in quella gravità e in quel miscuglio di togato e di realistico, aleggiato da una sottile ironia. Si può lamentare, come è stato lamentato, che una siffatta indulgenza e ironia s'introducessero col Boccaccio, e andassero prevalendo nella vita italiana dei tempi successivi; e si può difendere (come forse non è stato fatto) ciò che di buono e di sano è pure in quell'accettazione tranquilla della vita nella sua immutabile realtà; ma tutto ciò non ha che vedere con l'arte del Boccaccio, il quale come sentiva, così componeva e scriveva.

    E la novella di Andreuccio mostra chiaramente questi caratteri, notati in generale nell'opera boccaccesca. Dire, com'è stato detto, che essa sia un quadro della vita e dei costumi dei « bassifondi » napoletani del Trecento, è mutare il Boccaccio da artista che esso era in un descrittore e in uno storico; sforzarsi di scoprirvi, come usavano i vecchi critici e ha ritentato qualcuno di recente, un fine o un insegnamento etico, è camuffarlo da predicatore; affermare che quella novella abbia il solo fine dell'arte è come dir nulla, perché ogni opera d'arte ha il solo fine dell'arte, su di che non dovrebbe sorgere più contestazione. La cupidigia, la malizia, la simulazione, la fatuità, - come in altre novelle del Boccaccio la sensualità, la scioccheria, l'ipocrisia, l'allegro cinismo, - ci svelano in questa novella l'esser loro, ci raccontano le loro gesta, mettono in mostra i loro trofei; e tutto ciò con tanta evidenza e con tanta forza persuasiva che si finisce col consentire simpaticamente con quei bricconi così abili, così riflessivi, così privi di scrupoli, così a modo loro eccellenti. E, insieme con codesta furba gente, celebra in essa i suoi trionfi il Caso, che volge, rivolge e torna a volgere le condizioni degli uomini « oltre la difension dei senni umani », e fa di Andreuccio, nel corso di poche ore, un ingannato e un ingannatore, un derubato e un derubante, un mercante che va a comperare cavalli, e un ladro che invece s'arricchisce di gemme; e, col condurlo a un precipizio, gli salva la vita; col metterlo a rischio di morte imminente, gli ridà il denaro perduto. Ma la narrazione così di quelle gesta bricconesche come dei capricci del Caso è sottolineata dal Boccaccio nient'altro che col ritmo dei suoi periodi, che forma da solo il più efficace commento. La giovane siciliana era « disposta per picciol pregio a compiacere a qualunque uomo »; e ciò è detto con la medesima sostenutezza, coi medesimi modi eletti, coi quali si direbbe che era disposta a compiere qualsiasi più nobile dovere. Il nome mal sonante della equivoca contrada, dove Andreuccio è accompagnato dalla servetta, si adorna dell'inciso latinamente costrutto: « la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra »; come se si pronunziasse il titolo solenne di qualche insigne luogo o edifizio. Il bravaccio sfruttatore e protettore, che compare alla finestra a minacciare, « mostrava (dice il Boccaccio) di dover essere un gran bacalare, con una barba nera e folta al volto »: aveva, insomma, aspetto di uomo grave e autorevole, e quasi quasi di sapiente; lui, che era un ruffiano! Così la novella di Andreuccio è tanto più ilare quanto più è seria nel tono, ed è tanto più precisa e realistica quanto più è sorridente.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis