GIOVANNI BOCCACCIO

  • IL DISEGNO IDEALE DEL DECAMERON
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    Autore: Ferdinando Neri Tratto da: Storia e poesia

     
         

    Espongo una veduta sommaria, una semplice orientazione, che mi è balenata leggendo il Decameron ed osservando la partizione delle dieci giornate.
    Nella prima, Pampinea vuole che ciascuno sia libero di ragionare di quella materia che più gli sarà a grado: ma Panfilo incomincia con san Ciappelletto, e Nefile prosegue con Abraam giudeo e Filomena col racconto delle tre anella... Vien fatto di dubitare, se l'annunziata libertà non sia soltanto apparente, e se il Boccaccio non abbia voluto tacere questa volta il suo tema; poiché, tolta l'ultima novella, - quasi a riscontro delle altre giornate, essa si sottrae all'argomento comune, delle rimanenti, cinque si aggirano fra chiesa e monastero, che ne avrebbero l'una e l'altro fatto di meno volentieri, e quattro riprendono i vizi dei signori.
    E il tono ne è fortemente satirico: sono anzi le novelle più amare, le più aspre; alcune si risolvono apertamente nell'invettiva, come il « bel detto » del valente uomo contro l'inquisitore di Firenze. Al tempo della Riforma, Olimpia Morato sceglierà le sue traduzioni fra queste prime novelle; per il suo fine, cui non bastava la gaiezza e la commedia serena, erano le migliori.
    I re e i signori della prima giornata mostrano quelle che sono, per essi, le colpe più gravi: avarizia (Can della Scala, Erminia Grimaldi) e viltà (il re di Cipri); quando il massimo pregio sta nelle azioni liberali e magnifiche, di cortesia, di lealtà, di gran cuore: il tema della giornata decima. Nella quale gli ecclesiastici trovano con l'abate di Clignì un riscatto assai tenue, e circondato da troppe meraviglie; ma i principi danno esempio delle più rare virtù, e tutti, il mercante e la contadina, pare vogliano imitarli.
    Non vi è qualche segreta intenzione perché la prima giornata sia aggressiva, e l'ultima « esemplare »? Dalla negazione ch'è in principio all'ideale che risplende come termine, si giunge per una via che l'autore abbia segnata e si possa riconoscere ancora?
    A ricercare questa linea, questo disegno che va oltre la cornice (ammirata generalmente fino al limite della « varietà » che distingue le novelle), induce anche la natura delle altre pagine del Boccaccio, di quelle che nelle sue opere minori sono la preparazione, l'avviamento al Decameron; la corte d'amore del Filocolo e la giostra delle ninfe fiorentine nell'Ameto volgono su argomenti morali; e nell'Ameto sebbene vestita di forme un po' strane e procaci, è tutta un'allegoria dell'uomo che si leva dalle rudi spoglie fino alla purità e alla contemplazione...

    Nell'assegnare il tema della seconda giornata, e cominciando, com'essa dice « a restringere dentro ad alcun termine quello di che dobbiamo novellare », Filomena spiega brevemente che, dato « che dal principio del mondo gli omini sieno stati da diversi casi della Fortuna menati, e saranno fino alla fine, ciascun debba dire sopra questo: chi, da diverse cose infestato, sia, oltre alla speranza, riuscito a lieto fine ».
    È la giornata di Landolfo Rufolo, di Andreuccio da Perugia, della sposa del re del Garbo..., le più belle storie avventurose: le anima un senso di odissea, l'intimo sapore di una vita mutevole, circonfusa di quest'aer dolce che del sol s'allegra; ed è forse la prova più spensierata dell'arte del Boccaccio, che prima del Decameron non aveva conosciuto se non due muse, la fatica e la voluttà.
    La favola diviene la stessa « forma » del carattere; questi eroi sono tutti a fiore dei loro atti: nuotano sull'onda, e quando sono giunti a riva la loro storia è compiuta: se ne vanno, come Landolfo, a vendere le loro gemme, ed a comprarsi una casa: sull'architrave, potranno scrivere anch'essi « Alla giornata ».
    Il mito, il nume della Fortuna ebbe per tutto il Medioevo una sua consistenza: dall'immaginetta simbolica della ruota (già figurata in una pagina di Boezio) si giunge fin su al cielo dantesco; e Dante pone la Fortuna cogli angeli, « con l'altre prime creature lieta » a volgere la sua sfera, a dirigere la vicenda dei beni terreni.
    Per il Boccaccio, essa costituisce la trama di ogni vita, umile od illustre... Nefile prosegue nello stesso argomento e soltanto ne limita la larghezza: « sì perché più tempo da pensare avete e sì perché sarà ancora più bello che un poco si stringa del novellare la licenzia e che sopra uno de' molti fatti della Fortuna si dica ». Il collegamento è esplicito, se anche nel tema e nello sviluppo della terza giornata prevalga un elemento nuovo, quello dell'« industria »,. onde l'uomo collabora colle vicende del caso.

    Le novelle d'amore della quarta e della quinta giornata sono governate esse pure dai casi del mondo, che le sciolgono tragicamente o le avviano ad un termine felice; ed Amore non succede a Fortuna, come in una serie di « trionfi », ma ne accetta il dominio e ne accresce lo splendore. È qui la «fortuna» (e possiamo dirla destino) dei caratteri nobili, che non aspettano l'impronta come una molle cera, ma che hanno scelto, con la propria passione, una ragione di vivere, l'hanno racchiusa in un altro essere amato, sì che il lutto, o la felicità, che una sorte comune determina, li stringerà in un solo nodo, lieto o funesto.
    A guardar bene, nella quarta giornata, l'interesse del novelliere è rivolto - più che alla storia d'amore, più che alla pittura dei sentimenti - al caso avverso, alla soluzione tragica, al « pietoso accidente, anzi sventurato », com'è detta la prima novella, di Guiscardo e Ghismonda, ed altre son dette poi. Amore è la stoffa, la sostanza di quelle vite, ma anche per esse il corso è segnato e conchiuso da una forza cieca ed estranea che le opprime e le rovina fra « strabocchevoli e non pensati pericoli ». La coscienza morale di quelle tragedie pare infine illuminarsi nella donna superstite, prima ch'ella rinnovi sopra di sé la violenza di morte che ha spezzato il suo amore: così è di Ghismonda, dell'Isabetta, della Salvestra, della moglie del Guardastagno...
    E riesce evidente, nella quinta giornata, quant'è d'inatteso, e d'imprevisto, nell'intreccio dei casi d'amore: la navicella di Gostanza, con le vele aperte, senza guida, attraversa il mare d'Africa ed approda a Tunisi, dove appunto si trova Martuccio Gomito; Pietro Boccamazza « dopo alcun accidente capita a quel castello dove l'Agnoletta era... »; Gian di Procida e Teodoro son salvati dall'estremo supplizio per l'intervento insperato, l'uno di Ruggieri dell'Oria l'altro di Fineo, che lo riconosce, dopo quindici anni, per figlio...
    Come un esempio delle virtù a cui farà capo il Decameron, la serie delle passioni felici si chiude con la novella di Federigo degli Alberighi, che («senza lasciar sempre essere la fortuna guidatrice ») assurge all'espressione più delicata di un amore cortese e profondo.

    Con la sesta giornata s'inizia un altro ordine di racconti: non più gli errori del caso, ma una scherma d'ingegno. Elisa annunzia il suo tema ex cathedra, con una certa gravità...
    È lo spirito, la reazione dell'individuo, che si afferma contro gli altri; ciascuno di questi motti - e non escluderei se non quello di Chichibio, che riesce a provocare con la sua semplicità l'indulgenza del signore che ride, - ciascuno suggella un contrasto reciso; lo strale dell'arguzia brilla in un attimo di vittoria: quasi sempre, su di un riprensore malevolo o fatuo.
    E dopo il motto, la beffa: la settima e l'ottava giornata, in cui regna e dilaga la commedia boccaccesca; uomini e donne, aggrovigliati nel piacere e nell'inganno: l'uomo, avido e pronto; la donna discinta alle delizie cori un riso di grassa furberia, in quella figura che parve come l'idolo del Boccaccio e che lo veniva preparando in seguito alla Misoginia del Corbaccio.
    Vi sono dunque, a me pare, due giornate « iniziali », che danno il tono a quelle che seguono: la seconda e la sesta (la quarta delinea a sua volta Il gruppo dei casi d'amore); e le due grandi forze che ne risultano, signore del campo, sono la fortuna e l'ingegno: i casi vari e l'umana industria, come avverte Dioneo, quando gli tocca assegnare il tema della sua giornata e gli pare che in quei due termini sia esaurita tutta la materia del novellare.
    Sono le linee maestre di quella morale semplice e pratica, che possiamo seguire fino al Machiavelli, il quale oppose, più reciso e più serio, Fortuna e Virtù; fino all'Ariosto, il quale sorride bonario: « Vincasi o per fortuna o per ingegno... ».

    Ciò che l'uomo può fare, nel Decameron, quando le sue forze entrano sole nel giuoco, non è gran cosa: correggere lievemente la fortuna, essere arguto, industriarsi a godere, gabbare quanti se lo meritano... ; in alcuni grandi esempi, per l'espressione più rara e signorile della sua « virtù », può dimostrarsi liberale e magnanimo.
    Sì che di un balzo (dopo la nona giornata ha radunato le novelle sparse, che ritengono, dal più al meno, del tono e degli argomenti delle altre) il Boccaccio ci guida, e ci lascia, nel giardino fiorito che sta in cima alla strada, spiegandoci dinanzi le più belle prove della « magnificenza »: « chiarezza e lume di ciascuna altra virtù ».
    E di quelle prove, alcune saranno un po' rigide, forzate sino alla perfezione di un modello astratto; ma in esse ancora traluce l'incanto di quella schiettezza umana, gentile, generosa, che il Boccaccio ammirava con tutta l'anima sua.

    Come fu detto, il Decameron è un libro, più che una centuria di novelle: le quali stanno tutte insieme perché ne sorga quella visione dell'umanità ch'è propria del Boccaccio. Luce, tempra, nativa qualità degli animi: di questo egli è un cercatore curioso ed un perito finissimo e qui sta propriamente l'arte sua, il pregio di cui egli corona ed avvalora il suo tenace amore della vita. I caratteri de' suoi personaggi non si mutano fra gli eventi, ma recano da natura una purezza spontanea, od una sfrenata cupidigia, od un vizio ostinato: messer Torello è nobile, Griselda è virtuosa, come Calandrino è sciocco, gaglioffo, e ser Ciappelletto è l'anima della frode.
    E l'autore appare nel racconto, ragiona, lo dirige, pone il nostro occhio alla mira che è sua; non vuole che i tre giovani e le sette fanciulle lo nascondano troppo: i loro tratti più vivi consistono sempre in una somiglianza col carattere di lui: e la figura più risentita e più determinata è infatti quella che più gli somiglia, Dioneo.
     

     
         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis