Espongo una veduta
sommaria, una semplice orientazione, che mi è balenata leggendo il
Decameron ed osservando la partizione delle dieci giornate.
Nella prima, Pampinea vuole che ciascuno sia libero di ragionare di quella
materia che più gli sarà a grado: ma Panfilo incomincia con san
Ciappelletto, e Nefile prosegue con Abraam giudeo e Filomena col racconto
delle tre anella... Vien fatto di dubitare, se l'annunziata libertà non
sia soltanto apparente, e se il Boccaccio non abbia voluto tacere questa
volta il suo tema; poiché, tolta l'ultima novella, - quasi a riscontro
delle altre giornate, essa si sottrae all'argomento comune, delle
rimanenti, cinque si aggirano fra chiesa e monastero, che ne avrebbero
l'una e l'altro fatto di meno volentieri, e quattro riprendono i vizi dei
signori.
E il tono ne è fortemente satirico: sono anzi le novelle più amare, le più
aspre; alcune si risolvono apertamente nell'invettiva, come il « bel detto
» del valente uomo contro l'inquisitore di Firenze. Al tempo della
Riforma, Olimpia Morato sceglierà le sue traduzioni fra queste prime
novelle; per il suo fine, cui non bastava la gaiezza e la commedia serena,
erano le migliori.
I re e i signori della prima giornata mostrano quelle che sono, per essi,
le colpe più gravi: avarizia (Can della Scala, Erminia Grimaldi) e viltà
(il re di Cipri); quando il massimo pregio sta nelle azioni liberali e
magnifiche, di cortesia, di lealtà, di gran cuore: il tema della giornata
decima. Nella quale gli ecclesiastici trovano con l'abate di Clignì un
riscatto assai tenue, e circondato da troppe meraviglie; ma i principi
danno esempio delle più rare virtù, e tutti, il mercante e la contadina,
pare vogliano imitarli.
Non vi è qualche segreta intenzione perché la prima giornata sia
aggressiva, e l'ultima « esemplare »? Dalla negazione ch'è in principio
all'ideale che risplende come termine, si giunge per una via che l'autore
abbia segnata e si possa riconoscere ancora?
A ricercare questa linea, questo disegno che va oltre la cornice (ammirata
generalmente fino al limite della « varietà » che distingue le novelle),
induce anche la natura delle altre pagine del Boccaccio, di quelle che
nelle sue opere minori sono la preparazione, l'avviamento al Decameron; la
corte d'amore del Filocolo e la giostra delle ninfe fiorentine nell'Ameto
volgono su argomenti morali; e nell'Ameto sebbene vestita di forme un po'
strane e procaci, è tutta un'allegoria dell'uomo che si leva dalle rudi
spoglie fino alla purità e alla contemplazione...
Nell'assegnare il tema della seconda giornata, e cominciando, com'essa
dice « a restringere dentro ad alcun termine quello di che dobbiamo
novellare », Filomena spiega brevemente che, dato « che dal principio del
mondo gli omini sieno stati da diversi casi della Fortuna menati, e
saranno fino alla fine, ciascun debba dire sopra questo: chi, da diverse
cose infestato, sia, oltre alla speranza, riuscito a lieto fine ».
È la giornata di Landolfo Rufolo, di Andreuccio da Perugia, della sposa
del re del Garbo..., le più belle storie avventurose: le anima un senso di
odissea, l'intimo sapore di una vita mutevole, circonfusa di quest'aer
dolce che del sol s'allegra; ed è forse la prova più spensierata dell'arte
del Boccaccio, che prima del Decameron non aveva conosciuto se non due
muse, la fatica e la voluttà.
La favola diviene la stessa « forma » del carattere; questi eroi sono
tutti a fiore dei loro atti: nuotano sull'onda, e quando sono giunti a
riva la loro storia è compiuta: se ne vanno, come Landolfo, a vendere le
loro gemme, ed a comprarsi una casa: sull'architrave, potranno scrivere
anch'essi « Alla giornata ».
Il mito, il nume della Fortuna ebbe per tutto il Medioevo una sua
consistenza: dall'immaginetta simbolica della ruota (già figurata in una
pagina di Boezio) si giunge fin su al cielo dantesco; e Dante pone la
Fortuna cogli angeli, « con l'altre prime creature lieta » a volgere la
sua sfera, a dirigere la vicenda dei beni terreni.
Per il Boccaccio, essa costituisce la trama di ogni vita, umile od
illustre... Nefile prosegue nello stesso argomento e soltanto ne limita la
larghezza: « sì perché più tempo da pensare avete e sì perché sarà ancora
più bello che un poco si stringa del novellare la licenzia e che sopra uno
de' molti fatti della Fortuna si dica ». Il collegamento è esplicito, se
anche nel tema e nello sviluppo della terza giornata prevalga un elemento
nuovo, quello dell'« industria »,. onde l'uomo collabora colle vicende del
caso.
Le novelle d'amore della quarta e della quinta giornata sono governate
esse pure dai casi del mondo, che le sciolgono tragicamente o le avviano
ad un termine felice; ed Amore non succede a Fortuna, come in una serie di
« trionfi », ma ne accetta il dominio e ne accresce lo splendore. È qui la
«fortuna» (e possiamo dirla destino) dei caratteri nobili, che non
aspettano l'impronta come una molle cera, ma che hanno scelto, con la
propria passione, una ragione di vivere, l'hanno racchiusa in un altro
essere amato, sì che il lutto, o la felicità, che una sorte comune
determina, li stringerà in un solo nodo, lieto o funesto.
A guardar bene, nella quarta giornata, l'interesse del novelliere è
rivolto - più che alla storia d'amore, più che alla pittura dei sentimenti
- al caso avverso, alla soluzione tragica, al « pietoso accidente, anzi
sventurato », com'è detta la prima novella, di Guiscardo e Ghismonda, ed
altre son dette poi. Amore è la stoffa, la sostanza di quelle vite, ma
anche per esse il corso è segnato e conchiuso da una forza cieca ed
estranea che le opprime e le rovina fra « strabocchevoli e non pensati
pericoli ». La coscienza morale di quelle tragedie pare infine illuminarsi
nella donna superstite, prima ch'ella rinnovi sopra di sé la violenza di
morte che ha spezzato il suo amore: così è di Ghismonda, dell'Isabetta,
della Salvestra, della moglie del Guardastagno...
E riesce evidente, nella quinta giornata, quant'è d'inatteso, e
d'imprevisto, nell'intreccio dei casi d'amore: la navicella di Gostanza,
con le vele aperte, senza guida, attraversa il mare d'Africa ed approda a
Tunisi, dove appunto si trova Martuccio Gomito; Pietro Boccamazza « dopo
alcun accidente capita a quel castello dove l'Agnoletta era... »; Gian di
Procida e Teodoro son salvati dall'estremo supplizio per l'intervento
insperato, l'uno di Ruggieri dell'Oria l'altro di Fineo, che lo riconosce,
dopo quindici anni, per figlio...
Come un esempio delle virtù a cui farà capo il Decameron, la serie delle
passioni felici si chiude con la novella di Federigo degli Alberighi, che
(«senza lasciar sempre essere la fortuna guidatrice ») assurge
all'espressione più delicata di un amore cortese e profondo.
Con la sesta giornata s'inizia un altro ordine di racconti: non più gli
errori del caso, ma una scherma d'ingegno. Elisa annunzia il suo tema ex
cathedra, con una certa gravità...
È lo spirito, la reazione dell'individuo, che si afferma contro gli altri;
ciascuno di questi motti - e non escluderei se non quello di Chichibio,
che riesce a provocare con la sua semplicità l'indulgenza del signore che
ride, - ciascuno suggella un contrasto reciso; lo strale dell'arguzia
brilla in un attimo di vittoria: quasi sempre, su di un riprensore
malevolo o fatuo.
E dopo il motto, la beffa: la settima e l'ottava giornata, in cui regna e
dilaga la commedia boccaccesca; uomini e donne, aggrovigliati nel piacere
e nell'inganno: l'uomo, avido e pronto; la donna discinta alle delizie
cori un riso di grassa furberia, in quella figura che parve come l'idolo
del Boccaccio e che lo veniva preparando in seguito alla Misoginia del
Corbaccio.
Vi sono dunque, a me pare, due giornate « iniziali », che danno il tono a
quelle che seguono: la seconda e la sesta (la quarta delinea a sua volta
Il gruppo dei casi d'amore); e le due grandi forze che ne risultano,
signore del campo, sono la fortuna e l'ingegno: i casi vari e l'umana
industria, come avverte Dioneo, quando gli tocca assegnare il tema della
sua giornata e gli pare che in quei due termini sia esaurita tutta la
materia del novellare.
Sono le linee maestre di quella morale semplice e pratica, che possiamo
seguire fino al Machiavelli, il quale oppose, più reciso e più serio,
Fortuna e Virtù; fino all'Ariosto, il quale sorride bonario: « Vincasi o
per fortuna o per ingegno... ».
Ciò che l'uomo può fare, nel Decameron, quando le sue forze entrano sole
nel giuoco, non è gran cosa: correggere lievemente la fortuna, essere
arguto, industriarsi a godere, gabbare quanti se lo meritano... ; in
alcuni grandi esempi, per l'espressione più rara e signorile della sua «
virtù », può dimostrarsi liberale e magnanimo.
Sì che di un balzo (dopo la nona giornata ha radunato le novelle sparse,
che ritengono, dal più al meno, del tono e degli argomenti delle altre) il
Boccaccio ci guida, e ci lascia, nel giardino fiorito che sta in cima alla
strada, spiegandoci dinanzi le più belle prove della « magnificenza »: «
chiarezza e lume di ciascuna altra virtù ».
E di quelle prove, alcune saranno un po' rigide, forzate sino alla
perfezione di un modello astratto; ma in esse ancora traluce l'incanto di
quella schiettezza umana, gentile, generosa, che il Boccaccio ammirava con
tutta l'anima sua.
Come fu detto, il Decameron è un libro, più che una centuria di novelle:
le quali stanno tutte insieme perché ne sorga quella visione dell'umanità
ch'è propria del Boccaccio. Luce, tempra, nativa qualità degli animi: di
questo egli è un cercatore curioso ed un perito finissimo e qui sta
propriamente l'arte sua, il pregio di cui egli corona ed avvalora il suo
tenace amore della vita. I caratteri de' suoi personaggi non si mutano fra
gli eventi, ma recano da natura una purezza spontanea, od una sfrenata
cupidigia, od un vizio ostinato: messer Torello è nobile, Griselda è
virtuosa, come Calandrino è sciocco, gaglioffo, e ser Ciappelletto è
l'anima della frode.
E l'autore appare nel racconto, ragiona, lo dirige, pone il nostro occhio
alla mira che è sua; non vuole che i tre giovani e le sette fanciulle lo
nascondano troppo: i loro tratti più vivi consistono sempre in una
somiglianza col carattere di lui: e la figura più risentita e più
determinata è infatti quella che più gli somiglia, Dioneo.
|