GIOVANNI BOCCACCIO

  • LA REALTA' NEL DECAMERON
  •  
    Autore: Giovanni Getto Tratto da: Vite di forme e forme di vita nel Decameron

     
         

    I sogni sembrerebbero, ma vanamente, trasferire l'attenzione dello scrittore al mondo interno dei personaggi. In effetti questo mondo interno come non esiste per la fenomenologia dei sogni, che si riducono ad un contenuto e alla azione che ne deriva, così non esiste neppure per la fenomenologia delle passioni e dei sentimenti. Su questo piano il Boccaccio si limita ad enunciare dei puri e semplici impulsi: « s'innamorò », « s'accese », « amava », « assalito fu dalla cuncupiscenza carnale », « incominciò a prender malinconia », « temendo », « si dolse molto », « vergognandosi forte », « dentro il suo odio servando », « maraviglia e spavento gli mise nell'animo, e ultimamente compassione », « disiderò d'onorargli », « si disperava », « tutto furioso », « lietissimo », e così via. Si tratta insomma di semplici moti, di stimoli all'azione, rapidamente additati dallo scrittore, e non mai analizzati e descritti. La realtà di questi sentimenti viene fuori dalle azioni, o comunque da atti esterni. Si pensi a Rinieri, a Ciacco, allo Zeppa: il sentimento che li anima è quello della vendetta, un sentimento si potrebbe perfino aggiungere, diversamente sfumato (nel primo, un chiuso e feroce odio; nel secondo, un certo ridente dispetto; nel terzo, qualcosa a mezzo fra questi due estremi); ma questo sentimento non è analizzato, e quasi neppure indicato, e prende rilievo solo dall'azione, dove del resto importa non tanto allo scrittore la definizione di esso, quanto piuttosto l'espressione di quel « vitale bisogno dell'offeso di ristabilire la partita del dare e dell'avere, di ritrovare in un'azione compiuta ai danni dell'offensore e il più perfettamente simmetrica all'ingiuria ricevuta, il peso della propria personalità e il proprio equilibrio nel giuoco della vita »; in sostanza, ancora, la contemplazione di quell'arte di vita, ispirata a mondana sapienza ed esercitata nei limiti di un orizzonte tutto terreno, la quale, come induce nella novella di Nastagio a capovolgere il contrappasso fra tempo ed eternità o addirittura nella novella di Tingoccio ad annullarlo (« di qua non si tiene ragione alcuna delle comari »), così in queste novelle di vendetta, realisticamente, trasferisce il contrappasso nel tempo, nel senso che quell'equilibrio ristabilito nella concezione dantesca su di un piano di trascendenza nell'al di là, viene ora ricercato in un ambito esclusivamente terreno e per iniziativa personale dell'offeso. Più che l'esplorazione diretta dei sentimenti, ha rilievo nel Decameron la manifestazione indiretta, impulsiva o ragionata, da parte dello stesso personaggio della sua disposizione interiore. C'è così il riso e il pianto, e c'è soprattutto il parlare. Indimenticabile è certo sorriso o riso dei personaggi decameroniani: «Madonna, voi m'avete renduto pan per focaccia; e questo disse ridendo» ; « Biondello, vedutolo, il salutò, e ridendo il domandò clienti fosser state le lamprede di messer Corso... »; « ...Di che il papa rise » ; « A Currado piacque tanto questa risposta, che tutta la sua ira si convertì in festa e riso... »; « Bruno e Buffalmacco e Nello avevan sì gran voglia di ridere che scoppiavano... »; « Li quali stati alla sua predica e avendo udito il nuovo riparo preso da lui... avevan tanto riso che eran creduti smascellare » . E forse anche più significative sono le lacrime, da quelle di ipocrisia di ser Ciappelletto a quelle di disperazione di Andreuccio chiuso nell'arca, da quelle di Ghismonda represse e regolate come una liturgia funebre a quelle abbandonate di Lisabetta, da quelle di monna Tessa sulla quale si è rovesciata l'ira di Calandrino a quelle di fisica amarezza dello stesso Calandrino mentre tiene in bocca la galla di gengiovo (« ...e tenendola cominciò a gittar lagrime che parevan nocciole, sì eran grosse»), da quelle di sincera amicizia di messer Torello e del Saladino al momento del congedo a quelle di finta disperazione di madonna Jancofiore (« ...ridendo col cuore e piagnendo con gli occhi »), dalle lacrime di uomo moralmente debole di Tancredi a quelle di Biondello strappato dalle mani di Filippo Argenti (« Biondello piagnendo si scusava... »). E c'è ancora quell'« arricciarsi » di ogni pelo « addosso » per paura, in Nastagio, in maestro Simone, nell'amante di madonna Francesca; e quell'« arrossire » della Lisa (« ...di vergogna tutta era nel viso diventata vermiglia »), e quell'essere « tutto infocato nel viso » per ira (e per un'altra più fisica ragione) di messer Lambertuccio. Se molto si piange e si ride nel Decameron, soprattutto molto si parla. E la parola va dal conciso motteggiare, raccolto in brevissima frase, come è quello di Cisti, all'impiego di parole senza senso e dall'eco favolosa di Maso del Saggio, di frate Cipolla, di Bruno, del monaco bolognese, al fluire rapido di battuta in battuta in. certi duetti a eco briosa come in certe novelle della settima giornata, al dignitoso discorso che si compone tra le pieghe maestose di un abito solenne come è quello di Giannotto e Currado o di Ghismonda e Tancredi, all'argomentare filosofeggiante delle parlate di Tito e Gisippo. L'intelligenza è sempre messa in moto da questi impulsi passionali, un'intelligenza più o meno sottile, più o meno alta, ma sempre pronta a intervenire e guidare le azioni. E queste azioni, a loro volta, si combinano con altre azioni di altri personaggi e dànno luogo a contrasti o gare d'amore o di arguzia, di cortesia o di beffa, di amicizia o di astuzia; oppure si combinano con il caso provocando tutta una catena di fatti, una vicenda, insomma, che più di una volta si libra e si perde in un mondo irreale. Le novelle della giornata decima in particolare sconfinano tutte nel regno dell'impossibile, o almeno in un mondo di sublime idealità, trascendono il reale e giungono all'assurdo (tanto è vero che il Boccaccio sembra accorgersene e correre ai ripari immettendo nella cornice, almeno, qualche nota di verità, come è quel cenno veramente sorprendente al ghibellinismo di una delle novellatrici, restia a lodare il gesto del guelfo re Carlo). Ebbene, con la loro posizione al termine del volume, queste novelle sembrano stare ad indicare in maniera simbolica la meta a cui tende irresistibilmente tutta la narrativa del Boccaccio. Ed è appunto come compenso (il che non vuol dire come ripiego esterno) a questa dinamica centrifuga della sua fantasia che tanti particolari concreti si affacciano sulla pagina. In sostanza il realismo del Boccaccio è un realismo di particolari (e proprio per questo sembra più vero e profondo il realismo di Dante). Il suo realismo è un realismo funzionale, ordinato all'azione. Non è alla realtà direttamente che il Boccaccio rivolge il suo sguardo appassionato, non è in essa il centro del suo interesse, il motivo della sua poesia. Questa, abbiamo visto, si riassume nella contemplazione dell'arte del vivere, un'arte di vita che tuttavia accoglie in sé, come momento insostituibile di una necessaria e perenne dialettica, un senso acuto del concreto e del reale. Questo realismo, tutto interno e costitutivo della sua poesia, non va disgiunto da una visione ideale, poiché idealità e realtà sono pur sempre inscindibili in ogni autentica opera di poesia. Scaturisce di qui la lezione di alta umanità del Decameron, quando sia letto, come va letta la poesia, con purezza di gusto e apertura d'anima. Un libro dunque che si rivela sostenuto da una sua segreta moralità, da un suo intimo pathos: un libro che lascia, negli spiriti pensosi, come suggestione etica di un'emozione fantastica, un gusto sano di vita operosa e di aristocratico sentire.
     

     
         
    HOME PAGE
         
    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis