I sogni sembrerebbero, ma
vanamente, trasferire l'attenzione dello scrittore al mondo interno dei
personaggi. In effetti questo mondo interno come non esiste per la
fenomenologia dei sogni, che si riducono ad un contenuto e alla azione che
ne deriva, così non esiste neppure per la fenomenologia delle passioni e
dei sentimenti. Su questo piano il Boccaccio si limita ad enunciare dei
puri e semplici impulsi: « s'innamorò », « s'accese », « amava », «
assalito fu dalla cuncupiscenza carnale », « incominciò a prender
malinconia », « temendo », « si dolse molto », « vergognandosi forte », «
dentro il suo odio servando », « maraviglia e spavento gli mise
nell'animo, e ultimamente compassione », « disiderò d'onorargli », « si
disperava », « tutto furioso », « lietissimo », e così via. Si tratta
insomma di semplici moti, di stimoli all'azione, rapidamente additati
dallo scrittore, e non mai analizzati e descritti. La realtà di questi
sentimenti viene fuori dalle azioni, o comunque da atti esterni. Si pensi
a Rinieri, a Ciacco, allo Zeppa: il sentimento che li anima è quello della
vendetta, un sentimento si potrebbe perfino aggiungere, diversamente
sfumato (nel primo, un chiuso e feroce odio; nel secondo, un certo ridente
dispetto; nel terzo, qualcosa a mezzo fra questi due estremi); ma questo
sentimento non è analizzato, e quasi neppure indicato, e prende rilievo
solo dall'azione, dove del resto importa non tanto allo scrittore la
definizione di esso, quanto piuttosto l'espressione di quel « vitale
bisogno dell'offeso di ristabilire la partita del dare e dell'avere, di
ritrovare in un'azione compiuta ai danni dell'offensore e il più
perfettamente simmetrica all'ingiuria ricevuta, il peso della propria
personalità e il proprio equilibrio nel giuoco della vita »; in sostanza,
ancora, la contemplazione di quell'arte di vita, ispirata a mondana
sapienza ed esercitata nei limiti di un orizzonte tutto terreno, la quale,
come induce nella novella di Nastagio a capovolgere il contrappasso fra
tempo ed eternità o addirittura nella novella di Tingoccio ad annullarlo
(« di qua non si tiene ragione alcuna delle comari »), così in queste
novelle di vendetta, realisticamente, trasferisce il contrappasso nel
tempo, nel senso che quell'equilibrio ristabilito nella concezione
dantesca su di un piano di trascendenza nell'al di là, viene ora ricercato
in un ambito esclusivamente terreno e per iniziativa personale
dell'offeso. Più che l'esplorazione diretta dei sentimenti, ha rilievo nel
Decameron la manifestazione indiretta, impulsiva o ragionata, da parte
dello stesso personaggio della sua disposizione interiore. C'è così il
riso e il pianto, e c'è soprattutto il parlare. Indimenticabile è certo
sorriso o riso dei personaggi decameroniani: «Madonna, voi m'avete renduto
pan per focaccia; e questo disse ridendo» ; « Biondello, vedutolo, il
salutò, e ridendo il domandò clienti fosser state le lamprede di messer
Corso... »; « ...Di che il papa rise » ; « A Currado piacque tanto questa
risposta, che tutta la sua ira si convertì in festa e riso... »; « Bruno e
Buffalmacco e Nello avevan sì gran voglia di ridere che scoppiavano... »;
« Li quali stati alla sua predica e avendo udito il nuovo riparo preso da
lui... avevan tanto riso che eran creduti smascellare » . E forse anche
più significative sono le lacrime, da quelle di ipocrisia di ser
Ciappelletto a quelle di disperazione di Andreuccio chiuso nell'arca, da
quelle di Ghismonda represse e regolate come una liturgia funebre a quelle
abbandonate di Lisabetta, da quelle di monna Tessa sulla quale si è
rovesciata l'ira di Calandrino a quelle di fisica amarezza dello stesso
Calandrino mentre tiene in bocca la galla di gengiovo (« ...e tenendola
cominciò a gittar lagrime che parevan nocciole, sì eran grosse»), da
quelle di sincera amicizia di messer Torello e del Saladino al momento del
congedo a quelle di finta disperazione di madonna Jancofiore (« ...ridendo
col cuore e piagnendo con gli occhi »), dalle lacrime di uomo moralmente
debole di Tancredi a quelle di Biondello strappato dalle mani di Filippo
Argenti (« Biondello piagnendo si scusava... »). E c'è ancora quell'«
arricciarsi » di ogni pelo « addosso » per paura, in Nastagio, in maestro
Simone, nell'amante di madonna Francesca; e quell'« arrossire » della Lisa
(« ...di vergogna tutta era nel viso diventata vermiglia »), e
quell'essere « tutto infocato nel viso » per ira (e per un'altra più
fisica ragione) di messer Lambertuccio. Se molto si piange e si ride nel
Decameron, soprattutto molto si parla. E la parola va dal conciso
motteggiare, raccolto in brevissima frase, come è quello di Cisti,
all'impiego di parole senza senso e dall'eco favolosa di Maso del Saggio,
di frate Cipolla, di Bruno, del monaco bolognese, al fluire rapido di
battuta in battuta in. certi duetti a eco briosa come in certe novelle
della settima giornata, al dignitoso discorso che si compone tra le pieghe
maestose di un abito solenne come è quello di Giannotto e Currado o di
Ghismonda e Tancredi, all'argomentare filosofeggiante delle parlate di
Tito e Gisippo. L'intelligenza è sempre messa in moto da questi impulsi
passionali, un'intelligenza più o meno sottile, più o meno alta, ma sempre
pronta a intervenire e guidare le azioni. E queste azioni, a loro volta,
si combinano con altre azioni di altri personaggi e dànno luogo a
contrasti o gare d'amore o di arguzia, di cortesia o di beffa, di amicizia
o di astuzia; oppure si combinano con il caso provocando tutta una catena
di fatti, una vicenda, insomma, che più di una volta si libra e si perde
in un mondo irreale. Le novelle della giornata decima in particolare
sconfinano tutte nel regno dell'impossibile, o almeno in un mondo di
sublime idealità, trascendono il reale e giungono all'assurdo (tanto è
vero che il Boccaccio sembra accorgersene e correre ai ripari immettendo
nella cornice, almeno, qualche nota di verità, come è quel cenno veramente
sorprendente al ghibellinismo di una delle novellatrici, restia a lodare
il gesto del guelfo re Carlo). Ebbene, con la loro posizione al termine
del volume, queste novelle sembrano stare ad indicare in maniera simbolica
la meta a cui tende irresistibilmente tutta la narrativa del Boccaccio. Ed
è appunto come compenso (il che non vuol dire come ripiego esterno) a
questa dinamica centrifuga della sua fantasia che tanti particolari
concreti si affacciano sulla pagina. In sostanza il realismo del Boccaccio
è un realismo di particolari (e proprio per questo sembra più vero e
profondo il realismo di Dante). Il suo realismo è un realismo funzionale,
ordinato all'azione. Non è alla realtà direttamente che il Boccaccio
rivolge il suo sguardo appassionato, non è in essa il centro del suo
interesse, il motivo della sua poesia. Questa, abbiamo visto, si riassume
nella contemplazione dell'arte del vivere, un'arte di vita che tuttavia
accoglie in sé, come momento insostituibile di una necessaria e perenne
dialettica, un senso acuto del concreto e del reale. Questo realismo,
tutto interno e costitutivo della sua poesia, non va disgiunto da una
visione ideale, poiché idealità e realtà sono pur sempre inscindibili in
ogni autentica opera di poesia. Scaturisce di qui la lezione di alta
umanità del Decameron, quando sia letto, come va letta la poesia, con
purezza di gusto e apertura d'anima. Un libro dunque che si rivela
sostenuto da una sua segreta moralità, da un suo intimo pathos: un libro
che lascia, negli spiriti pensosi, come suggestione etica di un'emozione
fantastica, un gusto sano di vita operosa e di aristocratico sentire.
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