CRITICA: GIOSUE' CARDUCCI

 CARDUCCI POETA DELLA STORIA

 AUTORE: Benedetto Croce         TRATTO DA: Giosué Carducci, studio critico

 

Il Carducci ebbe assai per tempo coscienza della parte che gli toccava nella poesia del suo tempo: coscienza così netta e sicura da togliere ogni dubbio d'illusione. Con l'eredità dei pensieri e degli affetti del
Risorgimento aveva ricevuto anche l'eredità di quell'ideale poetico; perché, se l'Italia, dopo Dante, rimase per quattro secoli priva del poetavate (appena un accenno ne spuntò in Torquato Tasso), il moto del Risorgimento fu contrassegnato dal riapparire di esso in molteplici persone: Parini, Alfieri, Foscolo, il giovane Leopardi, Manzoni. Dante stesso, mercè una nuova se non genuina interpretazione storica, riparlò allora agli italiani, rimproverandoli e ammonendoli, risvegliando in loro le speranze e facendo sentire i doveri. A tutti costoro il Carducci si volse come minor figliuolo a! padre e ai fratelli; a costoro e ad altri meno grandi: a Vincenzo Monti, cui perdonò la levità politica e che amò perché d'animo caldo e buono; a Giambattista Niccolini, del quale ingrandì la povera poesia, guardandola attraverso il prisma delle intenzioni che gli erano care. Ma forse, fra tutti, colui che lo improntò di sé più fortemente fu Vittorio Alfieri «alma sdegnosa», che gli offriva quasi un Dante storicamente a lui più prossimo. E come l'Alfieri chiamava se stesso «vate» e tale sentiva nomarsi dai futuri italiani («O vate nostro, in pravi secoli nato...»), così parimente il Carducci volle considerarsi e denominarsi. Egli era il «libero vate», il «sacerdote dell'augusto vero, vate dell'avvenire», l'«italico vate», che usciva alla nuova età vibrando strofe come spade e diffondendo il canto come ala d'incendio; egli saliva «dei secoli sul monte, triste in sembiante e solo», e le strofe levavano il volo intorno a lui come falchi, e al loro passare fremevano le ossa dei grandi, e i giovinetti sognavano la morte per la libertà in faccia al cielo patrio. Quando prese a definire che cosa fosse il poeta, lo ritrasse sotto figura di un grande artiere, che getta nella fornace gli elementi del pensiero e dell'amore, e ne trae spade e scudi, serti pei vittoriosi e diademi per la bellezza. Quando gli accadde d'inneggiare a una donna poetessa, la trasformò, senza avvedersene, in Corinna e in Velleda, e se la trasse accanto vaticinatrice e sacerdotessa, sorella dell'aedo e del bardo. Perfino il celiante Enrico Heine gli si atteggiò come vate, a cui prestava l'opera sua il dio Thor, e che faceva piegare sotto il soffio dei suoi cantici immortali, i santi e gl'imperatori. Fin da giovane, soffocava nel petto i canti d'amore, perché il nuovo ardore che l'invadeva richiedeva ben altro; non potendo operare, come gli antichi poeti greci, si proponeva di meditare i cantici delle memorie, delle glorie e dei desideri; si giurava sacro alla patria in ogni sua parola, e in ogni suo verso; si vagheggiava sulle tombe degli eroi come Sofocle radioso nel trofeo di Salamina. Le ultime sue vaste poesie furono odi celebrative pel Piemonte, per le milizie alpine italiane, pel Cadore che lottò contro gli austriaci, per l'epica Ferrara. Sdegnò sempre il cuore, «vil muscolo nocivo alla grand'arte pura»; cioè il portare in pubblico le proprie private sofferenze e miserie. Le donne amate gli fecero sognare Roma e l'Ellade; e posero in sua compagnia serti al simulacro della Vittoria in Brescia.
Non meno evidente è l'aspetto letterario ed erudito del suo ideale poetico. Nella lirica, doveva riversarsi la storia: il passato gli parve la sola degna materia, che restasse nei tempi moderni al poeta. Volle, dunque, atteggiare a rappresentazione artistica i ricordi storici della terra italiana le figure degli eroi e le leggende, e nutrire il verso d'ogni sorta di reminiscenze. Ebbe sempre in dispregio più o meno secreto l'artista umile e ingenuo, e gli preferì quello dotto e sapiente. Insieme con le allusioni storiche, la sua forma poetica cercò corroborarsi di allusioni e comparazioni mitologiche; e si svolse con una fraseologia che segue le movenze dei maggiori poeti italiani e latini. Non solamente «scudiero dei classici» si compiacque nell'intarsiare le sue giovanili poesie con frasi, emistichi o versi interi del Parini, dell'Alfieri, del Foscolo, del Leopardi; ma, in tutta la sua opera, attese a parlare con le parole stesse dei grandi o con altre che fossero figlie di quelle e costantemente le ricordassero, nobilitate dal ricordo.

Ora, la passione politica e la cultura storico-letteraria potevano in due modi tradursi nell'arte del Carducci e farsi contemplazione e poesia. Il primo era quello in cui operasse la sola passione politica; e la poesia che ne sarebbe uscita, parenetica, gnomica, satirica, sarebbe stata eticopolitica. Il secondo era quello in cui la passione politica e la cultura storico-letteraria confluissero; e in questo caso sarebbe sorta una poesia storica o epica. Perché è chiaro che la cultura storico-letteraria, da sola, è impotente alla poesia, avendo già la propria spiccata forma teoretica, che è la conoscenza storica: per cangiarsi in materia poetica, dev'essere messa in fermentazione dal lievito della praxis o, come si suol dire, dal sentimento: e, nel caso nostro, dal sentimento politico e morale del Carducci. Questa seconda forma di poesia sarebbe stata più complessa della precedente, operando in essa con forze congiunte e in modo armonico tutti gli elementi dell'animo del poeta; tanto da meritargli il nome di poeta della storia. Ma il poeta etico-politico, o storico-epico, o quale che sia, ha sempre in sé una terza materia che chiede di essere formata: la sua propria vita, le proprie lotte, angosce e gioie, il dramma dell'uomo e quello stesso dell'artista, che passa per vittorie e disfatte, e carezza illusioni e soffre delusioni. Questa terza materia, che non è mancata in nessun poeta (doveva averla perfino il padre Omero quantunque non ce ne restino documenti!) non poteva mancare al Carducci; e la terza poesia, che sarebbe uscita dal suo stato d'animo è quella che chiameremo personale o autobiografica.

Tre forme, le quali, in questo punto in cui il risultato della nostra indagine ci pone innanzi solamente le varie forze spirituali del Carducci analizzate in astratto, debbono essere considerate ancora come tre mere possibilità. La poesia non si deduce: si fa, e si osserva quand'è fatta. Che vi siano le condizioni per essa non vuol dir niente: la fiacchezza dello spirito del poeta e una serie di cagioni secondarie (che tutte poi, in fondo, si risolvono nella prima) possono impedire che alla condizione segua il condizionato, che la possibilità diventi realtà. E non solamente c'è codesto pericolo in genere, ma c'è poi, in ogni materia di poesia, un pericolo particolare, che nasce dalle viscere stesse di quella materia. Così, per quel che si attiene al Carducci, le tre possibilità di poesia che erano in lui, si accompagnavano con altrettante possibilità di pervertimento o di bruttezza poetica. Infatti, l'impeto etico-politico può, per mancanza d'ispirazione e di lavoro fantastico, restare duro e grezzo atto morale e politico; e, in questo caso, sorge la poesia politica in senso peggiorativo, che diremo praticistica o pratica. La materia storico-epica può restare semplice erudizione storica; e, in questo caso, si ha quella bruttezza che si chiama poesia erudita o professionale. Infine, sottospecie di questa perversione, l'accoglimento della forma tradizionale può restare semplice ossequio esterno, fredda imitazione; e, in questo caso, si ha la poesia letteraria. Come le tre possibilità positive non sono senza relazione tra loro e talora si congiungono in uno stesso oggetto così le tre possibilità negative si accoppiano anche variamente o si danno convegno tutte e tre negli stessi componimenti; e si ha allora una poesia che è insieme pratica ed erudita, o pratica e letteraria, o, addirittura, pratico-erudito-letteraria. Bisogna tener presenti queste possibilità di pervertimenti; ma bisogna. a un tempo guardarsi dal cattivo ragionare di quei critici, i quali, vedendo la rupe Tarpea presso il Campidoglio, scorgendo la possibilità di certi errori intrinseca a certe forme di attività, reputano a priori patologiche e infelici quelle attività, e ne condannano anticipatamente i prodotti. A questa stregua nessuna bella poesia, anzi nessuna buona opera umana potrebbe mai nascere, perché la debolezza è inscindibile dalla forza e l'impurità dalla purità, essendo la forza e la purità, non la semplice privazione di quelle, ma la vittoria sopra quelle.

Soggiacque il Carducci alle forze distruttive che aveva dentro di sé,, e fu egli quel poeta pratico, erudito, letterario, professorale, che alcuni dicono e dice ora il Thovez? Ovvero usci sempre trionfante dal cimento, e fece sempre grande e schietta poesia, come sembrano affermare i suoi proni adoratori, o come, almeno, non eravamo lungi dal credere noi, giovinetti, quando la maledizione a Pio IX e l'abbraccio al sinigagliese ci destavano pari o maggiori entusiasmi della Faida di Comune e dell'Idillio maremmano? Ciò non può essere determinato se non dalla lettura e dall'esame della sua poesia stessa. Preliminarmente non si può esprimere se non una probabilità: cioè che entrambe le tesi estreme siano fallaci. Non è da aspettare che il Carducci rimanesse sempre vinto, perché in questo caso sarebbe difficile spiegare la fama da lui ottenuta e l'efficacia esercitata, e questo stesso fervore di esame, di critica e di discussione intorno all'opera sua. Ma non è da aspettare neppure, che la sua opera poetica, disseminata lungo un cinquantennio, sia tutta di pari pregio. Egli dovè passare (e ciò accadde in realtà) per vicende .di squilibri equilibri e nuovi squilibri, e raggiungere faticosamente la poesia per perderla da capo e rimettersi a quella ricerca e a quella fatica, cui solo la morte dà tregua.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis