Fra i Canti del Leopardi e le prime Odi Barbare gli annali
della nostra poesia ci danno le raccolte del Giusti, «Sopra
una conchiglia fossile» dello Zanella e il «Canto d'Igea» del
Prati. Il Giusti è quasi tutto in discussione e in pericolo;
ma quanto alla vastità lirica dei brevi versi dello Zanella e
quanto alla soda e tranquilla sanità dei settenari del Prati
sembra oramai difficile che possa sorgere un critico di buon
gusto a dubitarne. Dunque, fra i Canti del '3I e le Odi del
'77 c'è poco più di due capolavori indiscussi, oltre «Pianto
Antico», «Il bove», «Sui Campi di Marengo», dello stesso
Carducci.
Pochi giorni prima del libricino che oggi commemoriamo, erano
usciti i Postuma dello Stecchetti; e l'edizione s'era esaurita
subito. La fortuna continuò per un pezzo più favorevole a
questi che alle Odi. Ma a leggerlo ora, Stecchetti sembra un
romantico fuori moda, con la sola novità relativa del nudo, un
romantico bohémien, più francese che italiano. Mescolata con
la poesia borghese, chiara e incolore, che dominò ancora per
qualche lustro, la poesia dell'autore del «Guado» si distingue
appena per la sua apparenza più vivace.
Stecchetti poteva esser sentito da un pubblico internazionale,
Carducci da non molti italiani: eppure in quella sua poesia
tenacemente attaccata alle tradizioni storiche e artistiche
della patria c'era un ben altro senso della bellezza, della
dignità, della forza morale. Stecchetti, erotico o elegiaco,
rappresentava la mediocrità inerte dell'Italia positivista,
accarezzava i gusti del tempo senza superarli nemmeno con la
contemplazione del poeta; Carducci nella sua ostilità di
fronte al cattolicismo tradiva anche lui la superficialità di
quegli anni: ma l'impeto della fantasia e del cuore che
vagheggiavano la grandezza passata e quel sereno e completo
oblio di sé che oramai - dopo i Giambi ed epodi era diventato
l'atteggiamento più comune della sua lirica, rivelavano in lui
una di quelle tempre d'artista che si riscattano
istintivamente dalla trivialità della loro generazione.
Oramai egli era, come avrebbe poi detto del «poeta», cioè di
sé, il «grande artiere Che al mestiere Fece i muscoli
d'acciaio», il lavoratore dall'anima sana, che ha del lavoro
la religione e il disinteresse beato, e non chiede altro
compenso che l'estasi dell'arte.
Chi fosse il Carducci di quelle Odi, non mostrarono di capirlo
bene neppure gli amici che ne scrissero poco dopo il 20
Luglio, appena furono finite di stampare. Erano i tempi del
metodo storico: i critici, o non si occupavano dei .viventi, o
esaurivano il loro studio in osservazioni esterne e in
questioni generiche di tecnica: e avevano, per lo più, scarsa
attitudine al vero giudizio letterario. Così accadde che del
molto che si disse allora su quel libretto, non rimasero che
dotte ricerche intorno alla storia della metrica classica e
barbara: nulla che giovi a intendere il significato di quella
poesia. Si direbbe che nessuno la capisse veramente; nemmeno i
carducciani più convinti, se si guarda ai giudizi comparativi
che poi furono pronunciati fra questa e quella delle Odi
Barbare delle tre serie.
Quelli che vollero penetrare nella sostanza, rimasero
anch'essi impigliati nelle discussioni generiche ed effimere.
Il Trezza, commosso dall'invettiva delle Fonti del Clitumno e
dalla contemplazione di una bella donna in una chiesa gotica,
inneggiava al poeta anticattolico «Era tempo che i nostri
poeti contemporanei si spoppassero da una vecchia fede
tramontata per sempre». Il Chiarini, rimbeccando il critico
del Panaro, proclamava nel nome del Carducci e di altri grandi
poeti del secolo: «Il paganesimo non è morto; noi non siamo
più cristiani, noi siamo pagani». E così il Manzoni ne toccava
anche dall'amico del Carducci: «Fammi il piacere di dirmi -
domandava il Panzacchi che cosa pensi degli Inni Sacri del
Manzoni: che cosa ti paiono in questo gran concerto di musica
pagana che s'alza concorde e maestoso dalle opere dei più
grandi poeti moderni? A me paiono una nota fuori tono...»
Ubbriacature passeggere. Si capisce, anche dall'accoglienza
che ebbero le Odi barbare, che quello era tempo di
positivisti, di anticattolici, di anticlericali, di
antimanzoniani : tendenze legate fra loro a catena, e che sono
tramontate tutte insieme. E anche per questo ora giudichiamo
il Carducci diversamente e più serenamente.
Si leggono in quella raccolta Dinanzi alle terme di Caracalla,
Nella piazza di S. Petronio e, più famosa e più complessa se
non più bella, Alle fonti del Clitumno. Delle barbare
posteriori, solo Pe'l Chiarone da Civitavecchia può reggere al
paragone con queste, per quel paesaggio d'incubo, per quel
fantasticare stagnante fra l'acquelivide e le nuvole basse.
Il Carducci è un gran pittore di paesaggi, un energico
scultore d'uomini, un poeta di sentimenti sani e virili. Come
poeta di paesaggi è celebrato da un pezzo: ma non ancora
abbastanza. La varietà, la limpidezza, la grandiosità dei suoi
quadri di natura sono la sua qualità dominante. Sotto questo
aspetto è difficile definirlo: tanto è mobile la sua
sensibilità di paesista! Può sembrare troppo semplice nei
colori, e povero di sfumature: ma quando si guarda ne' suoi
versi la piazza di San Petronio - quella pittura di vespro
freddo così bene equilibrata fra la visione reale e la
malinconia del sogno - si sente che questo giudizio è
manchevole: ombre e luci del passato sorgono e dileguano
nell'incertezza del tramonto; e le immagini austere degli avi
lontani e i vespri rosati delle primavere antiche ondeggiano
in una nostalgica armonia di sfumature sopra lo sfondo chiaro
e triste della sera d'inverno. Può, sembrare, quando si legge
il principio del Clitumno e delle Terme di Caracalla, un
disegnatore forte di paesaggi animati e definiti dalla
presenza umana; ma quando si ricorda, nel Canto dell'amore, la
visione immensa dell'Italia serenamente adagiata fra i due
mari, si comprende che egli è anche un pittore di una
prodigiosa ampiezza di volo. Può sembrare solo un pittore; ma
quando si ricorda l'alto silenzio meridiano di Davanti San
Guido, si pensa che egli è anche un grande sinfonista del
paesaggio.
Appunto, la migliore poesia delle prime Odi barbare la
ritroviamo nello sfondo. In questo s'incornicia il sentimento
solenne, virile, spontaneo del Carducci; in questo
s'incorniciano le figure che danno rilievo alla nota
fondamentale del paesaggio: ma la fonte vitale della sua
ispirazione è lo scenario. Perfino il gruppo scultorio del
Preludio, l'evia che si torce fra le strette dell'amatore
silvano - le chiome effuse in lunga onda ai venti - rimane
nella fantasia sopra tutto per quell'atmosfera di foresta che
alita, inavvertita, il suo largo soffio sulle due strofe. E si
può ben dire che il Clitumno, sfrondato degli accenti di
grandiosa polemica e di grandiosa eloquenza, si rivela, quale
è nella sua vita profonda, una magnifica serie di quadri
paesistici: uno sfondo arioso, con un vasto efuvio di selve -
e dentrovi un gruppo umano, che sembra aggiungere vastità e
stupore all'umido vespro montano -; un pullular silenzioso
d'acque in uno specchio d'una trasparenza irreale; una danza
di ninfe sotto l'imminente luna - le divine voci suonano alte
nella cheta sera, fra le ombre grandi dei monti -; una fuga di
ninfe in mezzo al paesaggio che, appena accennato, è esso
stesso la vita di quelle creature lievi:
Fuggir le ninfe a piangere ne' fiumi
occulte e dentro i cortici materni,
od ululando dileguaron come
nuvole Si monti.
Si sa che lo schema di molte Odi barbare è questo: la storia è
passata, il paese è rimasto quale era da secoli; nessun'ode
tradisce così chiaramente l'ispirazione prima e intima come
questa, in cui, fra le pause della rievocazione storica, il
paesaggio ritorna con un inesauribile fascino.
E tutta paesaggio è «Dinanzi alle terme di Caracalla», la
nostra più bella pagina di poesia delle rovine, e
l'espressione più schietta di quel senso della forza romana
che altra volta il Carducci ha mostrato con accenti di
eloquenza più che d'arte. I due muri immani fra i flutti neri
di corvi, e quel mitico tramonto sulla città quadrata sono tra
le immagini più lineari e più austere della nostra lirica: ci
senti un'aura di romanità, e insieme una tristezza solenne di
cosa trapassata.
In questo libretto dagli argomenti disparati, è difficile
cogliere l'unità del temperamento carducciano: ma quando dalla
semplicità monumentale della lirica ora ricordata si passa a «Mors»,
si avverte, pur fra gli indugi decorativi, una commozione
schietta, un modo di figurare il dolore, che ha ancora la
sanità antica dei tempi nei quali il Carducci visse così a
lungo con la fantasia. La nostra letteratura Posteriore ha
perduto quella sanità. Il Carducci ebbe anche lui momenti di
abbandono romantico e di sensibilità più di nervi che di
cuore, e certo non fu più così equilibrato e così
profondamente sano come il Manzoni. Ma, a guardarlo in
compagnia con gli scrittori pallidi od orgiastici o frenetici
che vissero con lui e che sorsero dopo di lui, sembra l'ultimo
rappresentante di quei letterati che conoscono e apprezzano i
doni e i sentimenti essenziali della vita. Con le debite
differenze, non gli assomiglia che il Verga. |