CRITICA: GIOSUE' CARDUCCI

 NASCITA DELLA POESIA CARDUCCIANA

 AUTORE: Giuseppe De Robertis         TRATTO DA: Saggi con una noterella

 

La lirica dei Giambi ed Epodi, nata nella sua parte più schietta dai primi forti ricordi, e l'altra che poi venne formandosi e maturando, quasi un riflesso e una propagazione di quella, fu un'irradiazione appunto d'un sentimento e d'una passione prepotente, - sogno antico, istinto antico, scontentezza antica, - in un luogo e in un tempo, ch'era quel tal luogo e quel tal tempo, e in altri luoghi e in altri tempi cercati infaticabilmente con lo stesso commosso desiderio di non veder tutto morire. Spicca di lì il volo sempre la poesia autentica del Carducci, da quel luogo e da quel tempo, luogo e tempo perduti, e rifiorisce poi tutte le volte che trova, per incanto di fantasia e quasi per innamoramento, quel luogo e quel tempo specchiati nelle più antiche età e civiltà, o degli Etruschi, o della Roma primissima, o della Cavalleria o del Medioevo, dovunque insomma fosse un riflesso della sua libera vita di maremmano; ché così gli parea di tornare un poco quello che era a dieci e a quattordici anni. La gioventù, a ricordarla, s'arricchisce tutta dal di dentro, musicalmente si direbbe, con i miti felici della illusione, delle immaginazioni e della speranza; l'adolescenza, età chiusa, età torbida, età di sordi avvisi, ribolle tutta in sé, e a risoffrirla, - ché altro non si può -, basta che ci riportiamo a quel punto della vita, a quelle oscure sensazioni. Carducci cercava la Maremma e la risognava da per tutto. Felicità per disperazione!

Le poesie maremmane, dopo quelle «comunali», fanno certo il gruppo più compatto in tutta l'opera carducciana, e rappresentano quanto di più vivo, più vero, più resistente, il Carducci abbia scritto. C'entrerà un poco quell'«abito fiero», quello «sdegnoso canto», quell'«odio e amor» di cui dice nel sonetto Traversando la Maremma Toscana, cadente alla fine a un tono mesto, con espressioni petrarchesche e leopardiane, ma che vale per quei primi versi a cui s'alludeva innanzi, testimoni di fedeltà alla sua terra, e tanto orgogliosi:


Dolce paese, onde portai conforme
l'abito fiero e lo sdegnoso canto
E il petto ov'odio e amor mai non s'addorme...



Come qui, in tutte l'altre poesie scritte in quindici anni giusti, dal '7I all'85, nate dalla stessa radice, varie di stile calde e quiete, con più o meno di sapor letterario e di letteraria scrittura, - che è il proprio della poesia carducciana nel suo trapasso dal periodo tempestoso e romantico fino a prima dell'80, a quello sereno e meditativo fino ai primi del '90, - valgono assai meno certe espressioni elegiache, certe grazie evocative, certe troppo contente sommosse («oh, quel che amai», «oh, lunghe al vento sussurranti file di pioppi» , «mi divincolo in van»), valgono assai meno della diretta e potente pittura del paese di maremma, ore luoghi stagioni, e di quella selvaggia solitudine. Nasce quella pittura sempre per un improvviso sbocco di canto, s'aprono lembi di cielo e di antica vita, torna quel gusto aspro e tutti insieme si sfrenano, fantasia memoria desiderio.


Dove raro ombreggia il bosco
Le maligne crete, e al pian
Di rei sugheri irto e fosco
I cavalli errando van,

Là in maremma...



con quella caratteristica sospensione nell'interno della lirica, quasi un respiro trattenuto; e con più lunga sospensione, con più respiro, con un montare d'onda di canto, altrove:


...e noi, dimani, a mezzo il giorno,


Che de le grandi querce a l'ombra stan Ammusando i cavalli e intorno intorno Tutto è silenzio ne l'ardente pian,


Ti canteremo...


Gli piace ogni volta, così, aggredire l'ispirazione, a certi momenti che più la commozione è intensa e trabocca, e le parole il verso la strofa ne sono pieni, ne ridondano. S'ha la sensazione d'un improvviso fiotto di sangue giovine che fa ressa al cuore del poeta non più giovine: di qui il caldo e, proprio, lo straripare che fa il periodo. Solo più tardi, in un'odicina che piacque perfino al ruvido Oriani, all'incredulo Oriani, con più d'arte e, nel tempo stesso, con una levità da antico, da greco, sommessamente canterà a sé:


La nebbia a gl'irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il mar.



In questa scarnita lineatura del verso brevissimo e quasi sfuggente, in questa fantasia gracile e pur tutta vibrante, noi amiamo riconoscere l'ultimo segno d'un'arte che molto ha superato se stessa. San Martino è dell' '83.
Non ci sarà, lo sappiamo, in tutte queste poesie, gran varietà e ricchezza: un'aria, anzi, sempre affocata, i toni sempre gli stessi, o foschi o di luce meridiana, un selvaggio piacere di risentire l'antica vita e dimenticare il presente, cacce, avvolgimenti perigliosi per sconsolata boscaglia, la grande estate, canto alto o silenzio alto, gridìo di rondini saettanti, ronzio perso d'ore bruciate, rauche cicale ai poggi, tutto uguale, tutto assetato: ma non importa; nasce di qui torna per rinnovarsi qui l'empito e l'estro del canto carducciano. La maremma tu la ritrovi sotto mille forme, in tempi e luoghi lontani, ma sempre quella grandezza solitaria, quel senso squallido, quella luce deserta. Giovinetto, sentì il peso e la bellezza dell'antica civiltà etrusca, di quella quasi mitica storia; ma anche di Roma, ora, che cosa più lo commuove? i ricordi imperiali e il loro abbagliante splendore, o un più remoto tempo, quando dal «solco di Romolo» torva riguardava «su i selvaggi piani»?


...ancor lambiva il Tebro
L'evandrio colle, e veleggiando a sera
Tra 'l Campidoglio.
E l'Aventino il reduce quirite
Guardava in alto la città quadrata
Dal sole accusa, e mormorava un lento
Saturnio carme...



e invoca la febbre, e vuole la solitudine, poiché, sì, religioso è quel silenzio, la dea Roma lì dorme, ma anche perché così gli parrebbe di respirare aria selvaggia di maremma, di sentirsi come ai primi anni in compagnia, lui solo, con l'auguste antiche ombre («i lucumoni e gli auguri»), guardato dalle amiche piante. (Da notare, anche, il modo subitaneo di ricuperare un'immagine della primissima istoria, quasi di carpirla, per il timore che gli sfugga, appena ritrovata, e che non torni più alla fantasia commossa un minuto, come quello, felice).
Sono, è vero, lampeggiamenti di poesia, sono illuminazioni; ma troverà poi finalmente il tema più suo, quello più vicino alla parte più segreta di sé, ai suoi più segreti pensieri, il tema atto a infiammarlo. Troverà, troverà quel mesto e felice accordo di antico e di moderno, di storia e di vita sua, già pregna di storia, che gli darà saldo appoggio e pure non lo legherà; quella realtà soltanto autobiografica, allora, quel colore, quel paese, quell'aria, le sue passioni stesse, si trasfigureranno; e acquisterà in ricchezza il poetico accento, nascerà forse la più bella poesia carducciana, la più vera di tono, la più espansivamente propria, la più elegantemente rustica, la più classicamente e famigliarmente romantica, la più virginea, calma, calda, e più parlante. Nasceranno la Canzone di Legnano, Su i campi di Marengo, Faida di comune, Comune rustico; con maggior pienezza lirica e durata la Faida, con frammentaria potenza le altre, dalla Canzone di Legnano, tutta tesa in una progressione di strenua eloquenza, ma con particolari d'una lucida verdezza, a Su i campi di Marengo, con quel fosco e forte e improvviso incominciamento, e la ridente gloriosa trionfante stretta finale, in mezzo però tutto franto, lavorato troppo, troppo fermo a certi ricordi, quasi con epigrammatica scrittura, tra pungente e facile, fino a Comune rustico, tra queste poesie di ispirazione «comunale» la più letterariamente squisita, la più quieta e la più lenta di sviluppi, la più vicina alla malinconia, con quella superbissima chiusa del sole benedicente. C'è un che di assorto e di fisso a un punto del tempo che la fantasia, a posta, ha rallentato, per più goderlo, e il «piccolo senato» è la trasfigurazione d'una semplice e santa vita, quasi un fiabesco fregio, una verità lietamente apparsa sotto forma -di scherzo immaginativo. La mano dell'artista Carducci rare volte fu esperta e sicura come qui, e lenta per leggiadria, non per lassezza. La scena respira come in una lieta figurazione mitica, e la complessità del periodo strofico dà qualcosa di più seducente. È dell'anno '85, di quando la poesia, prima d'abbandonarlo, più malinconicamente sorrise al Carducci, e per questo con più fascino e bellezza. Arte consumata, allora, e tono mesto fecero un accordo dei più intensi, qui e altrove, s'intende, in tutte quante le espressioni di poesia minore, minore e maggiore, che prima, quasi per divinazione, s'avvertirono in Nella piazza di S. Petronio, e che per quella punta di virile malinconia che le preserva dall'eloquenza eroica delle odi maggiori, dall'accento ispirato e grandeggiante, vestendole invece di tenui crepuscolari e commossi colori, di tenuità ignote, stanno e rimarranno nel futuro, più in alto dell'altra, più glorificata, poesia maggiore.

Ma la cima più alta, forse, della poesia carducciana, quella che alle due o tre odi nominate innanzi sembra dare il tono e la ragione, è Faida di comune, ultima fiamma, alla fine, guizzo lirico della passione antica di maremmano. Dal verso rapido scolpito netto popolaresco, al tema e ai particolari del tema, all'aria che vi crea intorno, a quel misto di rappresentazione e descrizione, e fugacissimo gioco di trapassi che il ritmo abbellisce, tutto è qui divertimento e fantasia. Il poeta, come un dio, dall'alto guarda e sorride. I pisani, sì, nobili, e Banduccio e Uguccione; ma belli, o come! - e vi si mescola l'antico sangue, - i lucchesi, quelle facce, quei gesti, e loro nomi e canzoni. L'animo del Carducci in guerra ha trovato come quella guerra possa diventare spinta lirica puro sgorgo creativo. Quei borghi sanno di maremma, somigliano tanto alla maremma; così quei colori, quegli aspetti, quei dispetti, e odio e amore, come suonano in due versi d'uno dei suoi sonetti più belli. Pure, tutto pare inventato; e tra cronaca e vero storico e vero geografico, più vero è il riso dell'artista che è riuscito a rendere poeticamente accettabile fin la sua ira d'uomo di parte. Per questo Faida di comune, nella poesia carducciana, piglia tanto campo.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis