CRITICA: GIOSUE' CARDUCCI

 CARDUCCI CRITICO DEL LINGUAGGIO POETICO

 AUTORE: Luigi Russo         TRATTO DA: La critica letteraria contemporanea

 

Due motivi a me paiono fondamentali nella poetica del Carducci: il senso della forma, il gusto del rhétoricien, la ricerca amorosa del linguaggio poetico, e l'esigenza dell'umanità, della sincerità, della fede nell'esercizio dell'arte. Una poesia non sollevata e sostenuta nel suo tono e un'arte atea sono, per il Carducci, la negazione della buona letteratura. Tutti i giudizi sui classici e sui contemporanei sono costantemente ispirati a questi principi, dei quali l'uno è pretta eredità umanistica, risentito con polemica vigoria dopo la linguistica e stilistica rilassatezza del Settecento e ancor più del romanticismo; e l'altro procede da motivi cari all'Alfieri, al Foscolo e ai pensatori romantici. Dove manca l'uomo, manca anche la coscienza, manca quindi anche una coscienza artistica orecchio ama educato la musa, mente ingegnosa e sensi virili. Per cotesto criterio di vita morale, riflessa nella letteratura, il Carducci si apparenta spontaneamente al De Sanctis: è tutta la critica romantica che sbocca fatalmente in questo mito rinnovatore dell'uomo. Ma la moralità del De Sanctis ha più un'inclinazione etico-politica, e il rigorismo dello storico poco perdona alla virtù dell'ingegno e alla buona tecnica del «dittatore»; mentre la moralità del Carducci è più placabile, una moralità di tipo ancora umanisteggiante: un buon rhétoricien, un buon letterato, molti peccati si lascia perdonare da questo pur severo giudice. Da Petrarca, artefice espertissimo e però grande poeta anche nelle liriche civili e religiose, a Boccaccio, presentato tutto perduto nel suo ideale d'artista, sovrano ed estraneo ad ogni richiamo; a Vincenzo Monti «il maggior poeta ecletticamente artistico che l'Italia da gran tempo avesse avuto», erede di tutta «l'abitudine poetica dell'Italia d'allora», a Giacomo Leopardi autore delle canzoni patriottiche, difese, sì, per il loro contenuto, ma anche perché rivelano il precoce scudiero dei classici, in ogni momento il Carducci è fedele a questo principio della moralità risoluta e conchiusa nella retorica artistica. I due motivi, che avevamo per un momento distinti, così confluiscono spesso e si risolvono in uno solo. «Il Sainte-Beuve, che era il Sainte-Beuve, soleva dire che molto in letteratura dipende dall'aver fatto un buon corso di retorica», scriveva il Carducci nel suo famoso saggio di Critica e arte del 1874. Ed egli ricordava ai romantici italiani che il romanticismo francese era tutto impregnato e intramato di classica disciplina; si studino i poeti del romanticismo francese per vedere «quanto dedussero e imitarono dalla versificazione e dallo stile classico, troppo classico, della vera Pleiade, dalla lingua del Ronsard e da quella del Marot, del D'Aubigné e di Régnier». Perché non bisogna dimenticare che in Francia «il manifesto critico della nuova scuola fu il libro del Sainte-Beuve su Ronsard e i poeti del secolo decimosesto».

Codesto atteggiamento spiega certi aforismi, che possono scandalizzare i bigotti dell'estetica, ma che sono aforismi pregnanti di verità e serbano un loro particolare significato, storico-polemico. «Se la poesia ha da essere arte, ciò che dicesi forma è e ha da essere della poesia almeno tre quarti» (III, p. 420). E, in forza di cotesto principio, il Carducci supera ancora la bassa concezione romantica dell'arte-genio, dell'arte ispirazione estemporanea, dell'arte dono liberale di Apollo. «L'ispirazione è una delle tante ciarlatanerie che siamo costretti ad ammettere e subire per abitudine». E altrove ancora ribadisce: «Quella che i più credono o chiamano troppo facilmente ispirazione, bisogna farla passare per il travaglio delle fredde ricerche e tra il lavoro degli istrumenti critici, a provar s'ella dura. Quella che gli accademici chiamano eleganza e i pseudoestetici dicono forma, non è male vedere se resiste alla polvere e al grave aere degli archivi» (XII, 516). E aborriva dalla gloriosa pretesa che l'arte fosse autoctona, indigena e nativa, per così dire, nella mente dell'artista; l'arte è tradizione, scambio universale di esperienze, trasfigurazione di classiche bellezze. Non si ricercano le fonti di una poesia per deprimere l'originalità di un artista, ma, se mai, per esaltarne la sua capacità rinnovatrice e trasfigurativa. Nella poesia di Angelo Poliziano «Omero prendea la sembianza di Dante, Virgilio quella del Petrarca; e nel tutto era Angelo, l'omerico giovinetto, che rinnovava il linguaggio poetico d'Italia» (XX, 341). E ironizzava codesto mito dell'arte-antistoria, parto estemporaneo, nata o nascitura come una driade dalla scorza della quercia, battendolo in breccia in altri esempi tipici della nostra storia civile e politica.
È il vecchio autoctonismo degli aborigeni, per cui i nostri padri volevano esser sbucati fuori dai lecci e dai sugheri anziché provenuti da altra terra e da altra gente: è il mistico e metafisico primato di Vincenzo Gioberti; è il monarchico «l'Italia fa da sé» di Carlo Alberto. Codeste borie di povera gente, cacciate oramai dal regno dei fatti e della critica superiore, vorrebbero mantenere la loro ragione di essere almeno in letteratura (III, 208).

Ciò che conferisce un significato, non soltanto polemico, ma di valutazione critica e d'interpretazione storica, a quello che il Carducci scrisse a proposito del suo noviziato d'artista. «Mossi, e me ne onoro, dall'Alfieri, dal Parini, dal Monti, dal Foscolo, dal Leopardi; con essi e per essi risalii agli antichi, m'intrattenni con Dante e col Petrarca; e a questi e a quelli, pur nelle scorse per le letterature straniere, ebbi l'occhio sempre» . Il richiamarsi a una tradizione era per il Carducci riconoscimento di poesia, era un blasone di nobiltà; non si nasce da genitori ignoti: la poesia vera è sempre tramite storico, e bisogna saper risalire ai principi, come voleva Machiavelli, quando l'anima di una nazione si sfibra in letterarie flaccidezze. Questo il significato della rivoluzione poetica da lui operata, definita con concetti e termini suggeriti dall'autore stesso: rivoluzione apparentemente antiromantica, che voleva essere invece un irrobustimento storico dell'esperienza romantica, giacché, senza il linguaggio storico della poesia, non può nascere mai, vera, nuova poesia.

 

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