CINQUECENTO MINORE

  • LIMITI E FANTASIA DEL RUZZANTE
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    Autore: Carlo Grabher Tratto da: Ruzzante


         

    Certo il Beolco ebbe anche lui dei limiti. Infatti i suoi motivi, che pur toccano talvolta la grande poesia, non furono molti; e l'insistere su alcuni se denotò un fecondo travaglio che spingeva ad approfondirli, a contemplarli sotto nuova luce, denotò anche una certa angustia d'orizzonte; tant'è vero che alcuni di quei peetici motivi decaddero perfino nella ripetizione di maniera; ed egli stcsso avvertì il pericolo quando, compiuto il suo più ricco sforzo creativo - che fu segnato dalla Betia, dal Parlamento, dal Bilora, dalla Moschetta, e che mandò pur vividi bagliori nella discontinua vena sia del Ménego, sia della Fiorina -, sentì il bisogno di ricongiungersi a una grande tradizione letteraria - quella della commedia classica - soprattutto per rompere la cerchia in cui si stava chiudendo. Le tre ultime commedie furono, come altrove ho accennato, un frutto non indegno del suo geniale temperamento: anche per le esperienze che egli tentò sul tronco della commedia classica e che potevano avere sviluppi assai fecondi; ma certo è che, se in esse notiamo il lampo di una vena ancora tanto ricca insieme a un'arte che vuole raffinarsi e disciplinarsi, non vi balenano motivi così vigorosi e originali da slargare e rinnovare sostanzialmente il mondo poetico dello scrittore.

    Un altro limite del Ruzzante sorge da una delle sue qualità più positive e cioè da quell'impeto creativo, da quella gagliarda sicurezza d'estro che, forse proprio nei suoi lavori più ispirati, sembra meno docile a una costante disciplina d'arte che imponga ovunque un uguale senso di misura e non disdegni quel paziente lavoro di lima di cui anche il genio non può fare a meno. E in ciò, ma solo entro certi limiti ideali, il Ruzzante si abbandona all'improvvisazione.

    Ho qua e là accennato a qualche probabile rapporto col Folengo e a qualche occasionale affinità col Rabelais. Dal Folengo e dalla poesia maccheronica in genere, che ebbe la sua culla proprio a Padova, forse qualche stimolo può essere venuto al Beolco ma, secondo me, in modo generico, senza nessuna puntuale influenza, poiché il suo prepotente interesse umano, il suo amore per il naturale anche nelle più assurde deformazioni del comico, lo rendevano intimamente alieno da certi capovolgimenti quasi programmatici, da quella prestabilita deformazione a cui - cominciando dalla lingua - era pur soggetta la poesia maccheronica; dalla quale, caso mai, poté essere sollecitata una certa sua tendenza alla iperbolizzazione farsesca, al paradosso comico; tendenza che tuttavia egli sviluppò poi con un gusto indipendente e quasi di volata lirica, che talvolta, per una saltuaria e occasionale affinità - per esempio in alcuni tratti farseschi della Pastoral o nella Betìa - richiama piuttosto Rabelais; che pure non ignorò il Folengo e anzi ne attinse perfino precisi spunti, ma restandone anche lui lontano per lo spirito della sua arte, dove il paradosso, pur essendo un costante e compiaciutissimo giuoco d'intelligenza, non si assoggetta mai scopertamente a niente di prestabilito. Voglio poi osservare che nel Folengo e in Rabelais entra, per via diretta o indiretta, molta cultura: sacra e profana; mentre Ruzzante la presuppone - in più modeste proporzioni - ma non la porta mai nella sua arte, tutta impostata su apertissime posizioni umane; di cui anche i paradossi comici sono naturali, estreme proiezioni.

    Ora che abbiamo cercato di precisare meglio certi fondamentali aspetti del Beolco, dobbiamo pur concludere che la sua ribellione alla letteratura in nome del naturale non si esaurì mai in una semplice posizione polemica, ma si attuò con una pienezza, con un vigore, che costituiscono un raro esempio della nostra letteratura rinascimentale; e - cosa davvero inconsueta in quei tempi - egli innalzò alla poesia il mondo più umile, e con le più umili parole; e fece risuonare una intima, dolente nota umana: che toccò i suoi vertici nel Parlamento e nel Bìlora; con un « realismo » che, uscendo dal semplice gusto del descrittivo, volle essere e fu il granitico linguaggio dell'anima. Con accenti nuovissimi commedia e farsa furono le vie attraverso cui passò anche il dramma come poesia; ma furono esse stesse innalzate da geniali motivi di poesia.

    La fantasia del Ruzzante ebbe una singolare potenza trasfiguratrice e, sotto l'apparenza di un'arte veristica e regionale e dialettale - e pur entro limiti non vasti -, creò un mondo senza strettoie di confini, eternamente e profondamente vivo nelle sue modeste vicende ora amare ora grottesche. E ogni sfumatura di dolore fu da lui nascosta sotto il riso, perché il riso fu per lui anche il freno antiretorico che guidò la sua arte verso una superiore armonia, come in armonia componeva tutti i contrasti della vita; secondo quel mito di Madonna Allegrezza a .cui il poeta affidò l'ultima sua voce.
     


         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis