È certo che la
straordinaria attrattiva che esercita su di noi quest'uomo «
terribilissimo », è dovuta più che alle sue sculture, al suo libro
autobiografico. Se non ci fosse la Vita, forse stenteremmo a riconoscerlo
dagli altri manieristi del suo tempo: il suo rilievo, la originalità che
lo distacca da tutti gli altri e ne fa una figura unica del suo tempo, è
dato da quella Vita. Dietro la statua del Perseo, che può parere
convenzionale e fredda, vediamo a ravvivar l'artificio di quelle forme
bronzee la faccia spiritata del fonditore, tinta dai bagliori epici della
fornace: o dietro lo sdolcinato corpo di efebo del Cristo dell'Escorial
vediamo, a render misterioso quel marmo. il prigioniero allucinato di
Castel Sant'Angelo, che nel buio della cella conversava cogli angeli, e
che, quando finalmente fu liberato, portava con sé tutta la vita, come
dono di quei celestiali colloqui, l'aureola dei santi che « si vede sopra
l'ombra mia in nel levar del sole... quando l'erbetta à addosso quella
molle rugiada ». La sua Vita ravviva e riscalda la sua scultura: forse non
si potrebbe ravvisare in quelle statue o in quelle oreficerie
un'originalità di tanto rilievo da diventar segno tipico e rappresentativo
del suo secolo; ma in quella Vita, in quelle vociferazioni, in quelle
escandescenze, c'è veramente un tipo d'italiano fanfarone e manesco, che
ci appassiona e ci conquista più delle sculture.
Di fronte a quella autobiografia, la pedanteria del ricercatore d'archivio
si pone una domanda: Benvenuto fu veramente così com'egli si descrive in
quelle pagine? fu così, oppure si descrisse come si immaginò o come
desiderò di essere? È la curiosità che si ripresenta di fronte a tutte le
autobiografie: fu veritiero? opera di cronaca o opera di fantasia? e vi è
mai stata, nella letteratura di tutti i tempi, una autobiografia scritta
per dire di sé la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità...
È soprattutto interessante, nelle memorie autobiografiche, rintracciare i
secreti intenti che hanno guidato lo scrittore in questa scelta, e non
tanto nella scelta dei fatti da raccontare, quanto in quelli da tacere.
Per questo, come esempio di sincerità, io preferisco il Cellini, il quale
fu, nel narrar la sua vita, scopertamente e direi quasi candidamente e
sanamente insincero. Fino dalle prime righe lo dichiarò senza infingimenti:
« tutti gli uomini d'ogni sorte che hanno fatto qualcosa che sia
virtuoso... dovrieno descrivere la loro virtù ». Egli scriveva per
magnificare sé stesso, per esaltare le sue virtù: per una certa «
boriosità di mondo », come diceva poco dopo. Questo scopo autoapologetico
è così apertamente dichiarato, che quasi ci commuove e intenerisce. Egli è
sincero e sano nel confessare così la sua vanagloria; gli apostoli odierni
della sincerità a tutti i costi sono più scaltri e perversi.
Nella Vita del Cellini c'è una scelta che obbedisce ad un criterio morale.
Egli racconta soltanto i fatti che crede possano ingrandirlo come artista,
o anche come uomo d'onore, che si ribella colle armi in pugno ad ogni
offesa. Racconta a modo suo, per mettere in bella fantasia il suo ritratto
ch'egli dipinge più grande del vero; e in quella trasfigurazione
fantastica non ha ritegno a inserire anche gli omicidi, purché servano a
colorire quella figura eroica in cui egli si compiace di immaginare sé
stesso. Ma su certi episodi della sua vita vera egli stende l'ombra: non
solo perché i fatti da lui narrati si arrestano al 1562, e quindi
sull'ultimo decennio della sua vita le sue memorie sono mute: ma anche
perché, nel corso dei decenni precedenti, ogni tanto nel filo della
narrazione c'è un arresto, e in quella voluta rottura c'è già, implicita,
la confessione di qualcosa di disonerevole che è meglio tacere. Il Cellini
non è, per dirla con parola corrente, un « immoralista ». Egli ha, a modo
suo, il senso dell'onore; e certi fatti non li racconta, o li racconta
deformati, perché sente che la verità distruggerebbe quella figura di uomo
d'onore che egli vagheggia di sé stesso: in quel silenzio c'è già una
condanna e una moralità.
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