CINQUECENTO MINORE

  • LA VERITA' DEL CELLINI
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    Autore: Piero Calamandrei Tratto da: Il Cinquecento


         

    È certo che la straordinaria attrattiva che esercita su di noi quest'uomo « terribilissimo », è dovuta più che alle sue sculture, al suo libro autobiografico. Se non ci fosse la Vita, forse stenteremmo a riconoscerlo dagli altri manieristi del suo tempo: il suo rilievo, la originalità che lo distacca da tutti gli altri e ne fa una figura unica del suo tempo, è dato da quella Vita. Dietro la statua del Perseo, che può parere convenzionale e fredda, vediamo a ravvivar l'artificio di quelle forme bronzee la faccia spiritata del fonditore, tinta dai bagliori epici della fornace: o dietro lo sdolcinato corpo di efebo del Cristo dell'Escorial vediamo, a render misterioso quel marmo. il prigioniero allucinato di Castel Sant'Angelo, che nel buio della cella conversava cogli angeli, e che, quando finalmente fu liberato, portava con sé tutta la vita, come dono di quei celestiali colloqui, l'aureola dei santi che « si vede sopra l'ombra mia in nel levar del sole... quando l'erbetta à addosso quella molle rugiada ». La sua Vita ravviva e riscalda la sua scultura: forse non si potrebbe ravvisare in quelle statue o in quelle oreficerie un'originalità di tanto rilievo da diventar segno tipico e rappresentativo del suo secolo; ma in quella Vita, in quelle vociferazioni, in quelle escandescenze, c'è veramente un tipo d'italiano fanfarone e manesco, che ci appassiona e ci conquista più delle sculture.
    Di fronte a quella autobiografia, la pedanteria del ricercatore d'archivio si pone una domanda: Benvenuto fu veramente così com'egli si descrive in quelle pagine? fu così, oppure si descrisse come si immaginò o come desiderò di essere? È la curiosità che si ripresenta di fronte a tutte le autobiografie: fu veritiero? opera di cronaca o opera di fantasia? e vi è mai stata, nella letteratura di tutti i tempi, una autobiografia scritta per dire di sé la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità...

    È soprattutto interessante, nelle memorie autobiografiche, rintracciare i secreti intenti che hanno guidato lo scrittore in questa scelta, e non tanto nella scelta dei fatti da raccontare, quanto in quelli da tacere.
    Per questo, come esempio di sincerità, io preferisco il Cellini, il quale fu, nel narrar la sua vita, scopertamente e direi quasi candidamente e sanamente insincero. Fino dalle prime righe lo dichiarò senza infingimenti: « tutti gli uomini d'ogni sorte che hanno fatto qualcosa che sia virtuoso... dovrieno descrivere la loro virtù ». Egli scriveva per magnificare sé stesso, per esaltare le sue virtù: per una certa « boriosità di mondo », come diceva poco dopo. Questo scopo autoapologetico è così apertamente dichiarato, che quasi ci commuove e intenerisce. Egli è sincero e sano nel confessare così la sua vanagloria; gli apostoli odierni della sincerità a tutti i costi sono più scaltri e perversi.

    Nella Vita del Cellini c'è una scelta che obbedisce ad un criterio morale. Egli racconta soltanto i fatti che crede possano ingrandirlo come artista, o anche come uomo d'onore, che si ribella colle armi in pugno ad ogni offesa. Racconta a modo suo, per mettere in bella fantasia il suo ritratto ch'egli dipinge più grande del vero; e in quella trasfigurazione fantastica non ha ritegno a inserire anche gli omicidi, purché servano a colorire quella figura eroica in cui egli si compiace di immaginare sé stesso. Ma su certi episodi della sua vita vera egli stende l'ombra: non solo perché i fatti da lui narrati si arrestano al 1562, e quindi sull'ultimo decennio della sua vita le sue memorie sono mute: ma anche perché, nel corso dei decenni precedenti, ogni tanto nel filo della narrazione c'è un arresto, e in quella voluta rottura c'è già, implicita, la confessione di qualcosa di disonerevole che è meglio tacere. Il Cellini non è, per dirla con parola corrente, un « immoralista ». Egli ha, a modo suo, il senso dell'onore; e certi fatti non li racconta, o li racconta deformati, perché sente che la verità distruggerebbe quella figura di uomo d'onore che egli vagheggia di sé stesso: in quel silenzio c'è già una condanna e una moralità.
     


         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis