Se qualche cosa c'è
ancora da fare sulla nostra poesia burlesca, è scriverne la storia, non
come tradizione ed evoluzione di motivi e di atteggiamenti - per tanta
povertà non varrebbe la pena -, ma come sintomo dell'azione morale che,
episodico nei secoli che precedono il Berni, trionfa in una vasta plaga
del suo tempo, e s'appesantisce e ristagna sin verso la metà del
Settecento per spegnersi poi lentamente negli echi stanchi dei pochi
decenni posteriori, e lasciare la sua traccia nella seria poesia satirica
del Giusti...
Non sarebbe una storia monotona. Questa poesia è spasso di poeti umili e
dilettanti fino al Berni ed è, fino a lui, testimonianza di leggerezza di
spirito. Nel Berni la leggerezza diventa tema dominante, motivo
sistematico, glorificazione fra seria e scherzosa del vizio e del dolce
far niente: e tuttavia si mescola in lui con qualche scatto che tradisce
il coetaneo di temperamenti robusti e di robusti cialtroni come il Cellini
e l'Aretino e con una finezza di sorriso in cui si sente la cultura
aristocratica del Cinquecento...
Non sarebbe una storia facile: bisogna esser maestri nel far parlare la
letteratura come documento di vita, sentire che non c'è genere
tradizionale che noli si trasformi via via cogli anni e noli serbi, anche
in particolari minimi, le tracce della civiltà che si muta. La storia
dell'accademismo della seconda metà del Cinquecento e del Seicento, quella
del municipalismo gretto del Seicento, quella del declinante granducato
toscano - per noli parlare che dei fatti più vistosi - si possono leggere
anche nei capitoli e nei poemi burleschi: ed è storia d'un rammollimento
non meno pietoso di quello ritratto dal Parini nella società del giovin
signore. È storia di un'Arcadia senz'eleganze e senza cipria, letteratura
ridotta a novelletta di farmacia o a facezia grassa di viaggiatore di
commercio. Tra il Berni e i suoi ultimi imitatori c'è anche una differenza
morale: la coscienza si è fatta più sonnolenta e più flaccida.
Il re di questa letteratura è il Berni: ma resta più da dire sulla
dinastia che sul capostipite. La grande poesia ha molte facce: e la stessa
interpretazione dei critici maggiori sembra che non le colga e non le
gradui tutte. Così non è di quella del Berni, che è poesia più di
atteggiamenti stilistici che di sostanza poetica, e si esaurisce tutta
nella magnifica. definizione del De Sanctis : « Il Berni, che mena in
trionfo la sua poltroneria e sensualità ». La critica del Berni non ha
vicende. Il Sorrentino, che l'ha passata in rassegna, ha ricordato più che
altro notizie di eruditi. I temi del giudizio sono sempre due soli: la
grazia della lingua, ammirata sopra tutti, e troppo, dal Foscolo, e il
tono faceto. L'interpretazione della portata storica è uguale così nel
Settembrini come nel De Sanctis e nel Sorrentino, salva sempre la diversa
ampiezza di orizzonte. Per il primo il Berni è l'espressione del secolo
scettico e immorale; per il terzo è il poeta della scapigliatura del
rinascimento: piccola variante. Per il De Sanctis il Berni è l'eroe d'una
generazione di cui il capostipite è il Boccaccio: interpretazione che
s'innesta sulla linea cardinale della Storia e sulla concezione generale
del secolo XVI, e non è discutibile se non in quanto si contesti al De
Sanctis la visione troppo estetica e troppo poco etica del rinascimento.
Voglio dire che il Berni rappresenta una numerosa schiera di letterati del
suo secolo, ma non tanto numerosa come può apparire dalla Storia: e
concludere che dalle pagine del De Sanctis sull'autore dei Capitoli rimane
incrollabile la definizione citata.
Che è definizione psicologica, non valutazione di poesia. Il giudizio
sull'arte non è senza incertezze e contraddizioni: e in complesso si può
dire che sia più elaborato il ritratto del Berni che l'analisi delle sue
rime. L'interesse del De Sanctis era rivolto a quello che il Berni
rappresentava nel suo tempo piuttosto che a quello che era la sua opera in
sé e per sé: e forse il Berni, fatto protagonista di un quadro morale di
un'epoca, finisce per sembrare più significativo e più grande di quello
che realmente sia.
La poesia del Berni è troppo disorganica per essere la voce di uno stato
della coscienza contemporanea: è la spia di quello stato, non di più. Le
manca, per questo, l'impeto che unifica la materia più vile e le dà senso
e le conferisce una sua particolare grandezza. Nelle Rime cogliete degli
atteggiamenti originali: belli specialmente nella storia della malanotte e
nell'elogio della peste - « è anche stata una scopa », dirà don Abbondio:
ma lì è un'altra cosa -. Ma sono atteggiamenti sparsi, per lo più
momentanei: non uno dei capitoli più famosi è veramente filato e saldo dal
principio alla fine. Le affermazioni scettiche, ciniche, spassose del
Berni sono momenti di estro: gli manca non solo la serietà spirituale, ma
anche una vera e propria serietà artistica. Poeta di mirabile limpidezza
in più o meno lunghi frammenti, di trovate maliziose ed amene, non si fa
di queste trovate fulcro di una creazione, e rimane artista di capricci,
cioè di bizzarrie fugaci. Discreto motivo per l'ingegno d'un critico
psicologico, è mediocre soggetto per un critico di poesia. Quando avete
isolato un suo verso felice rimasto nella memoria di tutti, segnalato
certe solfe buffonesche, certi avvii di capitoli, le cadenze dell'endocasillabo
e delle strofe, avete fatto la parte più lunga della vostra analisi. E se
da quest'esame tecnico passate a quello propriamente poetico, allora la
materia vi sfugge dalle mani. Il Berni è il poeta delle cause sballate e
degli spettacoli luridi: ma così in quelle come in questi sentite che il
suo estro è più solleticato che fermo. Quel perorare per chiasso e quel
descrivere per divertimento vi dicono più il gusto coti cui il poeta si è
accostato al suo tema che la felicità e la sicurezza con cui egli lo
svolge e lo ricama. Egli ha una ricca fonte di argomenti buffi, ma non ne
sa fare corrente che scorra e canti senza silenzi e senza intoppi. Poeta
in un secolo di troppo frequente raffinatezza letteraria, vi piace a
quando a quando per quel suo discorrere piano e sciolto, per quel suo tono
faceto e antilirico : ma troppo spesso accanto a questa facilità vera
sentite quella mentita con un'affettata imitazione popolaresca, e se per
un momento avete pensato ad accostarlo all'Ariosto, a questo sovrano
maestro di naturalezza, ben presto vi accorgete che la naturalezza del
Berni difetta di fondamento così artistico come umano. Certo egli è, dopo
l'Ariosto, l'unico poeta del tempo che sappia scrivere versi fatti di
nulla, senza puntelli retorici, e più d'una volta v'incanta con quello
scherzo posato e tranquillo d'uomo che nello spasso cerca il riposo dello
spirito, il fresco della mente. Ma che distanza dalla sua alla serenità
dell'Ariosto, dal suo al sorriso dell'Ariosto! E come si sente, nel
discorso anche linguisticamente tanto più sicuro e più unito dell'Ariosto,
che la forza di coesione è immensamente superiore, che l'Ariosto è un mago
e il Berni un giocoliere!
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