Nella Poetica di
Aristotile era radicata un'antinomia fondamentale che andava assolutamente
risolta, con l'esasperazione di uno dei suoi termini, poiché essa per una
parte voleva essere una poetica della forma attiva, e per l'altra era la
poetica della materia qualificativa. Per superare il concetto
dell'arte-parvenza di Platone, dell'arte copia, che vien terza dalla
verità, Aristotile riconosce alla mimesi un valore conoscitivo. Ma chi
dice conoscenza, dice attività del soggetto che crea o almeno trasfigura
la realtà; senonché la realtà, per il filosofo greco, sta sempre lì fissa
ed immutabile, e il mimèta è necessariamente asservito ad essa. Donde la
possibilità di un'ancipite soluzione: da una parte il poeta coglierebbe
l'universale della realtà attraverso la mimesi conoscitiva (e par dunque
che la sua sia la potenza del soggetto), e dall'altra la realtà sensibile
deve divorare in sé questa potenza del soggetto, se si vuole che la mimesi
non sia una menzogna.
Nella Poetica aristotelica coesiste dunque la doppia concezione della arte
come mimesi idealizzatrice della realtà, e quella dell'arte-specchio di
questa realtà. Davanti a un ritratto noi dobbiamo dire: « sì, è proprio
lui »: ci deve essere dunque una perfetta corrispondenza tra la imitazione
e la cosa imitata, ma talvolta noi non conosciamo l'originale, e allora
non sarà certo l'immagine sua in quanto ne sia la fedele imitazione che ci
recherà diletto, ma, soggiunge il filosofo, « ci diletteranno l'esattezza
dell'esecuzione, il colorito o qualche altra causa di simil genere ».
Dunque la nostra soddisfazione conoscitiva dell'arte, una volta è data
dall'oggetto imitato, e un'altra dalla capacità idealizzatrice del mimeta;
e Aristotile parla spesso di un più e di un meglio della realtà pura e
semplice, e dice che l'artista deve superare il proprio modello, e deve
imitare le cose quali dovrebbero essere, e che una cosa anche possibile
purché credibile può essere argomento di poesia. Così, tutta la sua
poetica oscilla perpetuamente tra un concetto dell'arte come forma che
aspira a trasfigurare la realtà, e un concetto dell'arte come materia che
qualifica e controlla la verità o falsità dell'artista.
Ma non c'è via di mezzo. Tra la mimesi tutta materia e la mimesi tutta
forma, tertium non datur. O naturalismo assoluto, o idealismo assoluto. E
un motivo questo di quel più vasto dramma della filosofia, che va dai
presocratici a Kant. Ammessa una realtà, antecedente alla mimesi
artistica, la mimesi non può essere veramente tale se non in quanto si
spoglia di ogni forma sua per adeguarsi precisamente e immedesimarsi con
quella preesistente realtà. È quello che intesero gli interpreti del
Rinascimento, e quello che capì l'«acutissimo» Castelvetro. Accettato il
principio dell'arte verisimile, dell'arte che si commisura alla realtà
fenomenica, questa verisimiglianza deve essere assoluta; e allora non
basta, per esempio, nella tragedia osservare l'unità di azione voluta già
da Aristotile, ma è necessaria anche l'unità di tempo e di luogo. Se
l'arte è il verisimile, la tragedia che rappresenta un'azione in un giro
di sole, naturalmente non può rappresentare che un'azione che si svolga
effettivamente in un giro di sole. L'illusione scenica è possibile, se i
fatti rappresentati sulla scena hanno una durata d'azione
approssimativamente identica alla durata della rappresentazione. Se in una
tragedia si spedisse un ambasciatore in Egitto e lo si facesse tornare in
un'ora, non ne riderebbe il pubblico? Così osserva il Maggi. E lo
Scaligero: « Non mi garbano punto quelle battaglie o assalti che avvengono
in due ore sotto le mura di Tebe; né poeta accorto dovrebbe in un attimo
far andare alcuno da Delfi a Tebe o da Tebe ad Atene ». E rincalzava:
«Tutta l'azione del dramma compiendosi in sei o otto ore, non è verisimile
che in sì breve spazio di tempo si sollevi una tempesta e una nave sia
sbattuta tanto lontano sul mare, donde non si vegga più terra ». E il
Castelvetro, che aveva più ingegno degli altri (la pedanteria che ha il
coraggio della sua forza è vero ingegno, e solo i Ponzio Pilato della
scienza sono senza ingegno), il Castelvetro non si contentava di esprimere
impressioni, e codificava con rigore la legge delle tre unità
aristoteliche, che dovevano diventare la charta poetica di Europa. E mai
servizio più utile è stato reso alla scienza e al progresso dei problemi.
Questo è un punto della poetica aristotelica, tosi intesa ed esasperata
nel suo estremo naturalismo. Poiché i retori del Rinascimento ebbero
questa funzione storica di accelerare il processo di svolgimento, di
chiarimento e di dissoluzione di quella poetica, accentuandone e per ciò
stesso risolvendone l'elemento naturalistico, con tanta urgenza di
meditazione e di discussioni quale si poteva avere solo nel '500: e nelle
stessa seconda metà del secolo, e non per il decadimento della forza
creativa, ma proprio perché il problema artistico, sotto le apparenze più
diverse e anche più remote della poesia, costituiva il problema centrale o
iniziale da cui si irradiavano tutti gli altri problemi della vita
spirituale di quella civiltà. E quei retori, come per il principio della
verisimiglianza, ebbero una coerenza sistematica d'interpretazione, anche
per tutte le altre leggi che erano implicite nel pensiero aristotelico.
Dall'antinomia fondamentale della mimesi scaturivano di fatti altre
antinomîe. Aristotile distingueva i generi letterari ora per la forma (nei
modi), e c'era la forma narrativa o la forma drammatica, ora per il
contenuto, e c'erano i generi letterari che rappresentavano o uomini
migliori di noi o come noi o peggiori di noi. Considerava poi, ancora, i
generi letterari ora come formazioni storiche ora come categorie fisse e
definitive, e la sua poetica oscillava tra la poetica storica e la poetica
normativa, tra la descrittiva e la regolistica. Riconosceva che la
distinzione tra prosa e poesia non si può fare in base al metro o alla
forma prosastica, ma solo in base alla mimesi (come forma attiva), e dirà
genialmente che Empedocle è fisiologo, anche se scrive in versi, e che
Sofrone e Xenarco sono poeti, anche se i loro mimi sono scritti in prosa.
Ma poi continuerà a parlare del verso come caratteristica della poesia, e
abbozzerà una prima distinzione tra generi letterari in base ai tre
elementi tecnici del ritmo, della melodia e del verso. C'é sempre dunque
una perpetua fluttuazione nel pensiero aristotelico tra una poetica della
forma e una poetica del contenuto: fluttuazione assai suggestiva, e
propria di tutte le filosofie feconde di svolgimento, ciò che spiega
l'intenso lavorio interpretativo dei retori del Rinascimento sempre nel
senso del contenuto, e ciò che spiegherebbe (ma non legittimerebbe, per
superata necessità storica) certi tentativi di interpretazione idealistica
di alcuni spunti aristotelici, eseguita brillantemente da parte di
studiosi moderni. Infine Aristotile riconosceva una virtù conoscitiva alla
mimesi, ciò che potrebbe far pensare, in accordo con altri motivi, a un
suo presentimento del principio della autonomia dell'arte. Ma la
conoscenza di cui parla Aristotile non annulla il conosciuto, il fatto,
l'esistente, e però la verità è fuori di lei e a quella l'arte deve
servire. Perché anche qui non c'è via di mezzo: o l'arte-parvenza di
Platone, che è assoluta menzogna e ignoranza, o l'arte-realtà assoluta di
noi moderni, che è anche per ciò sapienza assoluta e autarchica. E allora
i retori del Rinascimento, per impellente logica speculativa e non per
pedanteria e semplice furberia politica, piantano radicalmente la veduta
pedagogica nel cuore della poetica aristotelica: perché l'arte non può
avere il fine conoscitivo in sé, risolva quel fine fuori di sé. E furono
anche questa volta conseguenti, e leali servitori della filosofia.
E lo stesso operarono per i generi letterari, che, distinti in base al
contenuto, assunsero una forma fissa e definitiva ab aeterno; e lo stesso
operano per l'ispirazione dei poeti, perché disconosciutane l'autonomia,
era pur necessario regolarne i moti e gli affetti coli la più spessa rete
di leggi e di regole. Era una pedanteria la loro, ma una veggente
pedanteria (come è sempre, del resto, la pedanteria degli uomini di
ingegno), vigorosa e necessaria, e attraverso la quale, e non c'era altra
via che quella, si poteva solo giungere a dissolvere la materia nella
forma, ma non più nella forma aristotelica, quale coefficiente meccanico
della materia, bensì nella forma come principio attivo e produttivo
dell'esperienza, in cui la poesia ritrova la propria materia. E il
concetto di verisimiglianza, esasperato nei suoi termini e tramutato per
quella via, diventava il principio di quella interiore coerenza che deve
avere sempre l'opera d'arte, e la norma estrinseca all'arte si riconosceva
autoctona e interiore all'arte stessa, e il genere letterario si
dissolveva come categoria astratta per rifarsi a vivere come categoria
storica, sempre nuovo e diverso, per quanti sono nuovi e diversi, per
dirla col Bruno, i sentimenti e le invenzioni degli uomini. E l'unità di
tempo e di luogo divenivano quel tempo e quel cielo ideali che nascono uni
con tutto il inondo fantastico dell'artista, e che valgono a stabilire
quella circolarità lirica, quell'atmosfera fantastica, di cui parliamo noi
moderni, e che ci giovano a distinguere il tempo della poesia (che è solo
quella reale), «l'ora del tempo e la dolce stagione », « l'alba vinceva
l'ora mattutina », « Era già l'ora che volge al desìo », dal tempo
fenomenico, che per quanto sia descritto con minuzia di dottrina
astronomica non risuonA mai ben chiaro nella nostra mente.
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