CINQUECENTO MINORE

  • LA POETICA D'ARISTOTILE E LA COERENZA DEGLI INTERPRETI DEL RIANSCIMENTO
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    Autore: Luigi Russo Tratto da: Problemi di metodo critico


         

    Nella Poetica di Aristotile era radicata un'antinomia fondamentale che andava assolutamente risolta, con l'esasperazione di uno dei suoi termini, poiché essa per una parte voleva essere una poetica della forma attiva, e per l'altra era la poetica della materia qualificativa. Per superare il concetto dell'arte-parvenza di Platone, dell'arte copia, che vien terza dalla verità, Aristotile riconosce alla mimesi un valore conoscitivo. Ma chi dice conoscenza, dice attività del soggetto che crea o almeno trasfigura la realtà; senonché la realtà, per il filosofo greco, sta sempre lì fissa ed immutabile, e il mimèta è necessariamente asservito ad essa. Donde la possibilità di un'ancipite soluzione: da una parte il poeta coglierebbe l'universale della realtà attraverso la mimesi conoscitiva (e par dunque che la sua sia la potenza del soggetto), e dall'altra la realtà sensibile deve divorare in sé questa potenza del soggetto, se si vuole che la mimesi non sia una menzogna.

    Nella Poetica aristotelica coesiste dunque la doppia concezione della arte come mimesi idealizzatrice della realtà, e quella dell'arte-specchio di questa realtà. Davanti a un ritratto noi dobbiamo dire: « sì, è proprio lui »: ci deve essere dunque una perfetta corrispondenza tra la imitazione e la cosa imitata, ma talvolta noi non conosciamo l'originale, e allora non sarà certo l'immagine sua in quanto ne sia la fedele imitazione che ci recherà diletto, ma, soggiunge il filosofo, « ci diletteranno l'esattezza dell'esecuzione, il colorito o qualche altra causa di simil genere ». Dunque la nostra soddisfazione conoscitiva dell'arte, una volta è data dall'oggetto imitato, e un'altra dalla capacità idealizzatrice del mimeta; e Aristotile parla spesso di un più e di un meglio della realtà pura e semplice, e dice che l'artista deve superare il proprio modello, e deve imitare le cose quali dovrebbero essere, e che una cosa anche possibile purché credibile può essere argomento di poesia. Così, tutta la sua poetica oscilla perpetuamente tra un concetto dell'arte come forma che aspira a trasfigurare la realtà, e un concetto dell'arte come materia che qualifica e controlla la verità o falsità dell'artista.

    Ma non c'è via di mezzo. Tra la mimesi tutta materia e la mimesi tutta forma, tertium non datur. O naturalismo assoluto, o idealismo assoluto. E un motivo questo di quel più vasto dramma della filosofia, che va dai presocratici a Kant. Ammessa una realtà, antecedente alla mimesi artistica, la mimesi non può essere veramente tale se non in quanto si spoglia di ogni forma sua per adeguarsi precisamente e immedesimarsi con quella preesistente realtà. È quello che intesero gli interpreti del Rinascimento, e quello che capì l'«acutissimo» Castelvetro. Accettato il principio dell'arte verisimile, dell'arte che si commisura alla realtà fenomenica, questa verisimiglianza deve essere assoluta; e allora non basta, per esempio, nella tragedia osservare l'unità di azione voluta già da Aristotile, ma è necessaria anche l'unità di tempo e di luogo. Se l'arte è il verisimile, la tragedia che rappresenta un'azione in un giro di sole, naturalmente non può rappresentare che un'azione che si svolga effettivamente in un giro di sole. L'illusione scenica è possibile, se i fatti rappresentati sulla scena hanno una durata d'azione approssimativamente identica alla durata della rappresentazione. Se in una tragedia si spedisse un ambasciatore in Egitto e lo si facesse tornare in un'ora, non ne riderebbe il pubblico? Così osserva il Maggi. E lo Scaligero: « Non mi garbano punto quelle battaglie o assalti che avvengono in due ore sotto le mura di Tebe; né poeta accorto dovrebbe in un attimo far andare alcuno da Delfi a Tebe o da Tebe ad Atene ». E rincalzava: «Tutta l'azione del dramma compiendosi in sei o otto ore, non è verisimile che in sì breve spazio di tempo si sollevi una tempesta e una nave sia sbattuta tanto lontano sul mare, donde non si vegga più terra ». E il Castelvetro, che aveva più ingegno degli altri (la pedanteria che ha il coraggio della sua forza è vero ingegno, e solo i Ponzio Pilato della scienza sono senza ingegno), il Castelvetro non si contentava di esprimere impressioni, e codificava con rigore la legge delle tre unità aristoteliche, che dovevano diventare la charta poetica di Europa. E mai servizio più utile è stato reso alla scienza e al progresso dei problemi.

    Questo è un punto della poetica aristotelica, tosi intesa ed esasperata nel suo estremo naturalismo. Poiché i retori del Rinascimento ebbero questa funzione storica di accelerare il processo di svolgimento, di chiarimento e di dissoluzione di quella poetica, accentuandone e per ciò stesso risolvendone l'elemento naturalistico, con tanta urgenza di meditazione e di discussioni quale si poteva avere solo nel '500: e nelle stessa seconda metà del secolo, e non per il decadimento della forza creativa, ma proprio perché il problema artistico, sotto le apparenze più diverse e anche più remote della poesia, costituiva il problema centrale o iniziale da cui si irradiavano tutti gli altri problemi della vita spirituale di quella civiltà. E quei retori, come per il principio della verisimiglianza, ebbero una coerenza sistematica d'interpretazione, anche per tutte le altre leggi che erano implicite nel pensiero aristotelico. Dall'antinomia fondamentale della mimesi scaturivano di fatti altre antinomîe. Aristotile distingueva i generi letterari ora per la forma (nei modi), e c'era la forma narrativa o la forma drammatica, ora per il contenuto, e c'erano i generi letterari che rappresentavano o uomini migliori di noi o come noi o peggiori di noi. Considerava poi, ancora, i generi letterari ora come formazioni storiche ora come categorie fisse e definitive, e la sua poetica oscillava tra la poetica storica e la poetica normativa, tra la descrittiva e la regolistica. Riconosceva che la distinzione tra prosa e poesia non si può fare in base al metro o alla forma prosastica, ma solo in base alla mimesi (come forma attiva), e dirà genialmente che Empedocle è fisiologo, anche se scrive in versi, e che Sofrone e Xenarco sono poeti, anche se i loro mimi sono scritti in prosa. Ma poi continuerà a parlare del verso come caratteristica della poesia, e abbozzerà una prima distinzione tra generi letterari in base ai tre elementi tecnici del ritmo, della melodia e del verso. C'é sempre dunque una perpetua fluttuazione nel pensiero aristotelico tra una poetica della forma e una poetica del contenuto: fluttuazione assai suggestiva, e propria di tutte le filosofie feconde di svolgimento, ciò che spiega l'intenso lavorio interpretativo dei retori del Rinascimento sempre nel senso del contenuto, e ciò che spiegherebbe (ma non legittimerebbe, per superata necessità storica) certi tentativi di interpretazione idealistica di alcuni spunti aristotelici, eseguita brillantemente da parte di studiosi moderni. Infine Aristotile riconosceva una virtù conoscitiva alla mimesi, ciò che potrebbe far pensare, in accordo con altri motivi, a un suo presentimento del principio della autonomia dell'arte. Ma la conoscenza di cui parla Aristotile non annulla il conosciuto, il fatto, l'esistente, e però la verità è fuori di lei e a quella l'arte deve servire. Perché anche qui non c'è via di mezzo: o l'arte-parvenza di Platone, che è assoluta menzogna e ignoranza, o l'arte-realtà assoluta di noi moderni, che è anche per ciò sapienza assoluta e autarchica. E allora i retori del Rinascimento, per impellente logica speculativa e non per pedanteria e semplice furberia politica, piantano radicalmente la veduta pedagogica nel cuore della poetica aristotelica: perché l'arte non può avere il fine conoscitivo in sé, risolva quel fine fuori di sé. E furono anche questa volta conseguenti, e leali servitori della filosofia.

    E lo stesso operarono per i generi letterari, che, distinti in base al contenuto, assunsero una forma fissa e definitiva ab aeterno; e lo stesso operano per l'ispirazione dei poeti, perché disconosciutane l'autonomia, era pur necessario regolarne i moti e gli affetti coli la più spessa rete di leggi e di regole. Era una pedanteria la loro, ma una veggente pedanteria (come è sempre, del resto, la pedanteria degli uomini di ingegno), vigorosa e necessaria, e attraverso la quale, e non c'era altra via che quella, si poteva solo giungere a dissolvere la materia nella forma, ma non più nella forma aristotelica, quale coefficiente meccanico della materia, bensì nella forma come principio attivo e produttivo dell'esperienza, in cui la poesia ritrova la propria materia. E il concetto di verisimiglianza, esasperato nei suoi termini e tramutato per quella via, diventava il principio di quella interiore coerenza che deve avere sempre l'opera d'arte, e la norma estrinseca all'arte si riconosceva autoctona e interiore all'arte stessa, e il genere letterario si dissolveva come categoria astratta per rifarsi a vivere come categoria storica, sempre nuovo e diverso, per quanti sono nuovi e diversi, per dirla col Bruno, i sentimenti e le invenzioni degli uomini. E l'unità di tempo e di luogo divenivano quel tempo e quel cielo ideali che nascono uni con tutto il inondo fantastico dell'artista, e che valgono a stabilire quella circolarità lirica, quell'atmosfera fantastica, di cui parliamo noi moderni, e che ci giovano a distinguere il tempo della poesia (che è solo quella reale), «l'ora del tempo e la dolce stagione », « l'alba vinceva l'ora mattutina », « Era già l'ora che volge al desìo », dal tempo fenomenico, che per quanto sia descritto con minuzia di dottrina astronomica non risuonA mai ben chiaro nella nostra mente.
     


         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis