Vi sono due tipi di
filosofi: il filosofo artista e lo sciènziato, l'intuitivo e il
dialettico, l'impulsivo geniale e l'organizzatore tecnico. Senza il
secondo non si consoliderebbe l'opera del pensiero umano; ma senza il
primo non esisterebbe addirittura. Il Bruno ha disegnato negli Eroici
furori il genio profetico e quello razionale in contrapposto;
naturalmente, egli si ascriveva al secondo, e, poiché intendeva per
profeta colui che annuncia le verità comunicategli da altri, aveva ragione
di farlo. Ma, se i principi proclamati da Bruno erano dettati a lui dalla
sua intelligenza e non da un'autorità esterna, il modo con cui li intuì e
li propagò fu piuttosto da profeta che da ragionatore. E così lo
svolgimento scientifico, in senso stretto, del nuovo sistema dei mondi
deve ben poco all'entusiasmo dello scrittore nolano. Se dovessimo adottare
lo specioso punto di vista del Pastor e di altri simili, secondo cui
Galilei ebbe colpa lui stesso della condanna del sistema copernicano,
perché lo sostenne come verità dimostrata quando non lo era ancora; se
dovessimo, dico, adottare questo punto di vista e applicarlo al Bruno,
dovremmo concludere addirittura, ch'egli meritò il rogo. Ma tant'è: senza
certi irregolari della scienza, della filosofia, della politica, senza
certi estremisti che procedono affermando più che dimostrando, abbattendo
più che edificando, il mondo non avanzerebbe mai. L'astronomia scientifica
moderna progredisce da Copernico a Galileo e Keplero, da questi a Newton,
passando accanto al Bruno (e tuttavia il Keplero ricordò ripetutamente,
insistentemente il Bruno, proprio scrivendo al Galilei, come un
precursore). Ma la concezione moderna del mondo e della vita, - che non è
puramente matematica o comunque scientifica, ma è pienezza di sentimento,
affermazione di valori, volontà attiva, - questa, nel suo svolgimento,
passa bene per Giordano Bruno come per uno dei suoi grandi momenti
storici. Della liberazione dello spirito umano, che doveva culminare dopo
di lui nel glorioso Settecento, egli fu artefice ed araldo: e araldo tale,
che gli echi della sua tromba non sono spenti infino ad oggi...
Libro centrale per la comprensione del Bruno, come pensatore e come
artista, è lo Spaccio. Oggi non occorre più spiegare che la Bestia
Trionfante non ha nessun riferimento specifico al papato e alla corte di
Roma, come già favoleggiò il contemporaneo Scioppio. La bestia simbolica «
spacciata » dal cielo, - che si concreta nel dialogo in una moltitudine di
animali e di esseri umani o semiumani collocati dagli antichi in cielo
come costellazioni - rappresenta l'insieme dei pregiudizi teoretici e
degli errori pratici che devono essere detronizzati dalle credenze, dai
costumi e dalle istituzioni umane. La verità e il bene sono, per il Bruno,
nello stesso spirito umano, nella ragione e nella natura, non nel cielo
tolemaico e in dommi arbitrari, come quello della giustificazione per la
fede (lo Spaccio è opera antiprotestantica, piuttostoché anticattolica).
Lo « spaccio della bestia trionfante » è un capovolgimento di valori. Si
tratta d'instaurare un umanesimo razionale e morale. Religioni e leggi
hanno la loro giustificazione non in dettati di un arbitrio trascendente,
ma nel bene dell'umanità, nella vita morale e intellettuale assicurata e
promossa da loro.
La protesta iniziale dell'autore, che non tutto va preso in questo libro
come verità definitiva, come tesi sostenuta dall'autore; che in esso,, più
che a conclusioni particolari, si deve guardare a « l'ordine, la
intavolatura, la disposizione, l'indice del metodo, l'arbore, il teatro e
campo de le virtudi e vizii », non è un espediente o una precauzione. Essa
risponde all'indole di questa opera, e si può dire di tutta l'opera
bruniana. La quale assomiglia alle movenze di chi, rimasto per lungo tempo
chiuso e immobile (malato o prigione), esce alfine di nuovo all'aria
aperta, e si stira le braccia e sgranchisce le gambe, si muove e corre di
qua e di là: desideroso piuttosto di esercitare la libertà di movimento
riacquistata, che già deciso sulla direzione e sullo scopo a cui rivolgerà
i passi.
E così, vi è armonia in Bruno tra forma e contenuto, contrariamente a quel
che parve al De Sanctis. Egli non è un precursore del secentismo, anche se
in questo si ritrovino suoi elementi stilistici isolati. Il secentismo è
virtuosità formale intorno al vuoto di pensiero e di sentimento; là dove
in Bruno l'esuberanza della forma risponde a un troppo pieno dell'uno e
dell'altro. L'eloquenza di Bruno è ampia, maestosa, abbondante, ma non
greve né tronfia, ed è rapida, varia, incisiva. Né il ritmo del periodo,
né l'andamento del dialogo sono uniformi e monotoni. In quello l'ampiezza
e rotondità oratorie si alternano con la brevità e spezzatura, secondo che
il Bruno esalti le nuove visioni per lui già sicure e vittoriose, o si
faccia strada. con la crudezza tagliente delle sue definizioni e negazioni
entro la folta selva dell'aristotelismo avversario. Il dialogo ora si
raccoglie in lunghi discorsi di un solo interlocutore, cui sono destinate
le esposizioni fondamentali, ora si rompe in vivaci, rapide battute, che
esprimono la diversità dei caratteri e l'urto delle concezioni.
Particolarmente efficaci certe entrate di dialogo abrupte, in medias res,
che portano subito nel cuore del contrasto, alle quali altre se ne
contrappongono di ampia, solenne esposizione e perorazione.
I personaggi principali dei dialoghi filosofici hanno una loro vita
individuale. E il primo dialogo della Cena delle ceneri mostra che
descrittore di ambienti e narratore di episodi comici fosse l'autore del
Candelaio, anche al di fuori della sua commedia. L'unità fra questa e i
dialoghi filosofici è data appunto in prima linea dalla comune vivezza
dialogica e capacità rappresentativa, dalla comune attribuzione satirica,
che in parte si rivolge contro lo stesso nemico, la pedanteria
professionale. Non ci faremo tentare, invece, dal carattere di filosofo
del Bruno, intento ai più alti problemi dell'universo, o dall'arditezza
rivoluzionaria delle sue concezioni, a vedere nel Candelaio serietà di
atteggiamenti o profondità di spirito estranei ad esso, e diversi dalla
vera natura del Bruno. Non ripeteremo col De Sanctis che il Bruno nel
Candelaio si sente al di fuori e al di sopra della società da lui
rappresentata. Ancora una volta, non è opportuno prendere troppo sul
tragico la professione di « fastidito », che egli fa di sé sul limitare
della commedia. L'autore del Candelaio non ha nulla del moralista
trascendente. S'egli beffeggia il pedante Marfurio, nol fa con serietà di
giudice, ma collo spasso di chi si diverte alle spalle altrui. E se in
Bonofacio candelaio ha colpito qualche suo nemico personale, ciò non
significa che l'intrigo con Vittoria, malamente finito per il poco accorto
spasimante, sia qualcosa più di una beffa, schernevole, ma punto tragica.
Piuttosto, nell'intesa amorosa di Gioan Bernardo e Carubina, che forma la
conclusione positiva dell'intrigo, possiamo intravedere il sorriso di
compiacimento dell'uomo, che larga indulgenza professava verso il peccato
carnale. Non fastidio della vita, ma godimento, spasso di vita si sente
nel Candelaio.
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