CINQUECENTO MINORE

  • GIORDANO BRUNO
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    Autore: Luigi Salvatorelli Tratto da: Le più belle pagine di Giordano Bruno


         

    Vi sono due tipi di filosofi: il filosofo artista e lo sciènziato, l'intuitivo e il dialettico, l'impulsivo geniale e l'organizzatore tecnico. Senza il secondo non si consoliderebbe l'opera del pensiero umano; ma senza il primo non esisterebbe addirittura. Il Bruno ha disegnato negli Eroici furori il genio profetico e quello razionale in contrapposto; naturalmente, egli si ascriveva al secondo, e, poiché intendeva per profeta colui che annuncia le verità comunicategli da altri, aveva ragione di farlo. Ma, se i principi proclamati da Bruno erano dettati a lui dalla sua intelligenza e non da un'autorità esterna, il modo con cui li intuì e li propagò fu piuttosto da profeta che da ragionatore. E così lo svolgimento scientifico, in senso stretto, del nuovo sistema dei mondi deve ben poco all'entusiasmo dello scrittore nolano. Se dovessimo adottare lo specioso punto di vista del Pastor e di altri simili, secondo cui Galilei ebbe colpa lui stesso della condanna del sistema copernicano, perché lo sostenne come verità dimostrata quando non lo era ancora; se dovessimo, dico, adottare questo punto di vista e applicarlo al Bruno, dovremmo concludere addirittura, ch'egli meritò il rogo. Ma tant'è: senza certi irregolari della scienza, della filosofia, della politica, senza certi estremisti che procedono affermando più che dimostrando, abbattendo più che edificando, il mondo non avanzerebbe mai. L'astronomia scientifica moderna progredisce da Copernico a Galileo e Keplero, da questi a Newton, passando accanto al Bruno (e tuttavia il Keplero ricordò ripetutamente, insistentemente il Bruno, proprio scrivendo al Galilei, come un precursore). Ma la concezione moderna del mondo e della vita, - che non è puramente matematica o comunque scientifica, ma è pienezza di sentimento, affermazione di valori, volontà attiva, - questa, nel suo svolgimento, passa bene per Giordano Bruno come per uno dei suoi grandi momenti storici. Della liberazione dello spirito umano, che doveva culminare dopo di lui nel glorioso Settecento, egli fu artefice ed araldo: e araldo tale, che gli echi della sua tromba non sono spenti infino ad oggi...

    Libro centrale per la comprensione del Bruno, come pensatore e come artista, è lo Spaccio. Oggi non occorre più spiegare che la Bestia Trionfante non ha nessun riferimento specifico al papato e alla corte di Roma, come già favoleggiò il contemporaneo Scioppio. La bestia simbolica « spacciata » dal cielo, - che si concreta nel dialogo in una moltitudine di animali e di esseri umani o semiumani collocati dagli antichi in cielo come costellazioni - rappresenta l'insieme dei pregiudizi teoretici e degli errori pratici che devono essere detronizzati dalle credenze, dai costumi e dalle istituzioni umane. La verità e il bene sono, per il Bruno, nello stesso spirito umano, nella ragione e nella natura, non nel cielo tolemaico e in dommi arbitrari, come quello della giustificazione per la fede (lo Spaccio è opera antiprotestantica, piuttostoché anticattolica). Lo « spaccio della bestia trionfante » è un capovolgimento di valori. Si tratta d'instaurare un umanesimo razionale e morale. Religioni e leggi hanno la loro giustificazione non in dettati di un arbitrio trascendente, ma nel bene dell'umanità, nella vita morale e intellettuale assicurata e promossa da loro.
    La protesta iniziale dell'autore, che non tutto va preso in questo libro come verità definitiva, come tesi sostenuta dall'autore; che in esso,, più che a conclusioni particolari, si deve guardare a « l'ordine, la intavolatura, la disposizione, l'indice del metodo, l'arbore, il teatro e campo de le virtudi e vizii », non è un espediente o una precauzione. Essa risponde all'indole di questa opera, e si può dire di tutta l'opera bruniana. La quale assomiglia alle movenze di chi, rimasto per lungo tempo chiuso e immobile (malato o prigione), esce alfine di nuovo all'aria aperta, e si stira le braccia e sgranchisce le gambe, si muove e corre di qua e di là: desideroso piuttosto di esercitare la libertà di movimento riacquistata, che già deciso sulla direzione e sullo scopo a cui rivolgerà i passi.

    E così, vi è armonia in Bruno tra forma e contenuto, contrariamente a quel che parve al De Sanctis. Egli non è un precursore del secentismo, anche se in questo si ritrovino suoi elementi stilistici isolati. Il secentismo è virtuosità formale intorno al vuoto di pensiero e di sentimento; là dove in Bruno l'esuberanza della forma risponde a un troppo pieno dell'uno e dell'altro. L'eloquenza di Bruno è ampia, maestosa, abbondante, ma non greve né tronfia, ed è rapida, varia, incisiva. Né il ritmo del periodo, né l'andamento del dialogo sono uniformi e monotoni. In quello l'ampiezza e rotondità oratorie si alternano con la brevità e spezzatura, secondo che il Bruno esalti le nuove visioni per lui già sicure e vittoriose, o si faccia strada. con la crudezza tagliente delle sue definizioni e negazioni entro la folta selva dell'aristotelismo avversario. Il dialogo ora si raccoglie in lunghi discorsi di un solo interlocutore, cui sono destinate le esposizioni fondamentali, ora si rompe in vivaci, rapide battute, che esprimono la diversità dei caratteri e l'urto delle concezioni. Particolarmente efficaci certe entrate di dialogo abrupte, in medias res, che portano subito nel cuore del contrasto, alle quali altre se ne contrappongono di ampia, solenne esposizione e perorazione.

    I personaggi principali dei dialoghi filosofici hanno una loro vita individuale. E il primo dialogo della Cena delle ceneri mostra che descrittore di ambienti e narratore di episodi comici fosse l'autore del Candelaio, anche al di fuori della sua commedia. L'unità fra questa e i dialoghi filosofici è data appunto in prima linea dalla comune vivezza dialogica e capacità rappresentativa, dalla comune attribuzione satirica, che in parte si rivolge contro lo stesso nemico, la pedanteria professionale. Non ci faremo tentare, invece, dal carattere di filosofo del Bruno, intento ai più alti problemi dell'universo, o dall'arditezza rivoluzionaria delle sue concezioni, a vedere nel Candelaio serietà di atteggiamenti o profondità di spirito estranei ad esso, e diversi dalla vera natura del Bruno. Non ripeteremo col De Sanctis che il Bruno nel Candelaio si sente al di fuori e al di sopra della società da lui rappresentata. Ancora una volta, non è opportuno prendere troppo sul tragico la professione di « fastidito », che egli fa di sé sul limitare della commedia. L'autore del Candelaio non ha nulla del moralista trascendente. S'egli beffeggia il pedante Marfurio, nol fa con serietà di giudice, ma collo spasso di chi si diverte alle spalle altrui. E se in Bonofacio candelaio ha colpito qualche suo nemico personale, ciò non significa che l'intrigo con Vittoria, malamente finito per il poco accorto spasimante, sia qualcosa più di una beffa, schernevole, ma punto tragica. Piuttosto, nell'intesa amorosa di Gioan Bernardo e Carubina, che forma la conclusione positiva dell'intrigo, possiamo intravedere il sorriso di compiacimento dell'uomo, che larga indulgenza professava verso il peccato carnale. Non fastidio della vita, ma godimento, spasso di vita si sente nel Candelaio.
     


         
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    Letteratura italiana 2002 - Luigi De Bellis