C'è in Alcione una poesia, La sera fiesolana, che merita di
essere tutta esaminata, non solo per le bellezze grandi che
contiene, ma anche perché è il tipo di quelle liriche del
terzo libro delle Laudi, che si scindono in più altre,
ciascuna bella per sé, e tenute insieme da un lievissimo
legame esteriore, oltre, s'intende, il titolo. Ricordo che
quand'io lessi la prima volta La sera fiesolana, la trovai
bellissima, senza riserve; tanto è insignificante il legame
esteriore e tanto potente è l'individualità di ciascuna
strofa. Ecco la prima:
Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscio che fan le foglie
del gelso nella man di chi le coglie
silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta
su l'alta scala che s'annera
contro il fusto che s'inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.
Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe' tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l'acqua del cielo!
Si vede subito che la freschezza delle parole, simile a quella
del fruscìo che fan le foglie, eccetera, è un semplice
pretesto per lo sviluppo dell'immagine: questa è così ricca e
così completa, così chiusa in sé e perfetta, e predominante,
che alla freschezza delle parole non ci si pensa più affatto.
Del resto, come immaginare non una generica freschezza di
parole ma una freschezza determinata con tanti particolari?
Resta solo la splendida immagine. Non ancora si vede la luna,
ma è « prossima alle soglie cerule»: nasce tra umidi vapori,
preceduta da un velo, che essa distende davanti a sé. Nel
silenzio, è in quel glauco e umido albore che noi sentiamo la
pace della campagna sotto il cielo; e là «il nostro sogno si
giace». Di là partono l'anima e il sentimento che investono la
campagna: pare che questa sia già tutta dominata dalla notte
sopravvenuta, «già si senta da lei (dalla luna) sommersa nel
notturno gelo»; «senza vederla» beva da lei la «sperata pace».
Nel giorno vivido e travagliato non sperò con noi la terra
questo glauco silenzio? Il silenzio è profondissimo: la
strofa, ad esprimerlo, comincia col «fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie silenzioso e ancor
s'attarda all'opra lenta». Poiché l'anima di tutto il
paesaggio è il cielo, poiché là «il nostro sogno si giace»,
efficacissimo è quel senso di avvicinamento al cielo che dà
l'uomo sull'alto della scala. La scala s'annera, il fusto
s'inargenta: sono i chiari e gli oscuri, gli unici toni più
forti del paesaggio, su cui lentamente dilaga l'albore
grigio-perlaceo. Prorompe dalla visione la laude, sintesi
della visione stessa, con una mirabile personificazione della
sera: «Laudata sii pel tuo viso di perla, o Sera, e pe' tuoi
grandi umidi occhi ove si tace l'acqua del cielo!». La sera ha
un viso, che è di perla; e due occhi, evanescenti, vaporati di
lagrime. Si noti come riposi la visione nella strofa fino alla
laude, ascendendo ed allargandosi, senza neppure il respiro
d'una virgola, col solo respiro dell'ultimo verso «senza
vederla», che è una cadenza melodiosa, una dolce pausa
trapassante nell'impeto lirico della laude. La seconda strofa
è un altro paesaggio, del tutto diverso, che comincia
anch'esso con un pretesto (questi pretesti sono i legami
esteriori delle strofe):
Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l'aura che si perde,
e su il grano che non è biondo ancòra
e non è verde,
e su 'l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi,
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.
Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!
Più dolce è questa strofa e più tenera, rispetto alla prima,
più austera. È più ricca di suoni e più celere. Un'infinita
dolcezza ha la pioggia di giugno, verso sera: tenue, tepida,
quasi s'invola mentre sta per cadere e appena cade, fuggitiva.
Potrebbe sembrare troppo lunga e particolareggiata
l'enumerazione degli alberi e della verdura su cui cade; i
gelsi, gli olmi, le viti, i pini, il grano, il fieno, gli
olivi, con tutte le loro determinazioni. Ma qui è il caso in
cui ha predominio l'onda musicale e il valor simbolico dei
suoni. Bisogna sentirla così; e così la sente chi vi penetra
dentro. Il « bruire » della pioggia si propaga per tutta la
strofa, attenuando musicalmente il senso preciso delle parole.
E poi, tutto quel verde, che sembra enumerato, acquista forza
di sintesi nella laude; che è bella quanto quella prima
strofa: «Laudata sii per le tue vesti aulenti, o Sera, e pel
cinto che ti cinge come il salce il fien che odora!». Quella
vegetazione odorosa e bagnata costituisce le vesti aulenti
della sera (in verità della terra; ma la terra è disciolta,
come paesaggio, nella sera). Come (e qui la similitudine è
sublime poesia) il salce il fien che odora, così quel cinto
cinge la sera! Con un altro lieve pretesto segue l'ultima
strofa:
Io ti dirò verso quali reami
d'amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l'ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s'incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l'anima le possa amare
d'amor più forte.
Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!
Due immagini ben distinte ha questa strofa, e senza visibile
legame: le fonti dei fiumi e le colline. La seconda sovrasta,
e fa dimenticare l'altra se qualcosa le congiunge è il solo
pretesto «ti dirò». Il profilo di dolci colline, al vespro, un
profilo preciso e puro, quale appare ritagliato sull'ultima
luce di ponente, è una consolazione e una pace per lo spirito,
che puramente lo contempla. Ma che dice quel profilo:
Misterioso è il senso di pace e d'amore, che le colline ci
danno col riposo delle loro linee sulla luce. Qualcosa ci
dicono; ma che cosa? Il loro segreto è indicibile: «E ti dirò
per qual segreto le colline su i limpidi orizzonti s'incurvino
come labbra che un divieto chiuda». Chi però le contempli a
lungo e ripetutamente, sentendo crescere il fascino, crederà
d'esser sul punto di strappar loro una maggior parte del loro
mistero; crederà di sentirle avvicinare al proprio desiderio:
«e perché la volontà di dire le faccia belle oltre ogni uman
desire, si che pare che ogni sera l'anima le possa amare
d'amor più forte»: crescono la pace, la consolazione e
l'amore; e il segreto è sempre di là! Una serenità purissima
domina la strofa, anche nell'onda melodica. La laude giunge
qui, conce prima, a sintetizzare: «Laudata sii per la tua pura
morte, o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare le prime
stelle!». Muore davvero puramente la sera in quell'ultima luce
nitida e trasparente: il trapasso è fugace; le prime stelle
palpitano: attendono! E come quest'attesa chiude il circolo
del mistero, non svelato ma tanto consolante! Ora, perché
queste tre strofe hanno avuto un titolo comune, La sera
fiesolana? Che cosa contengono quei pretesti, «Fresche le mie
parole», «Dolci le mie parole», «lo ti dirò»? Ben a ragione,
quando la poesia fu pubblicata la prima volta nella Nuova
Antologia, le tre strofe avevano un sottotitolo: La natività
della luna, La pioggia di giugno, Le Colline; senonché quei
sottotitoli dovevano essere titoli addirittura. E che le
poesie sieno tre, non una, è confermato dalla laude che chiude
ciascuna: il poeta ha tutta l'attenzione al paesaggio, e lo
loda; del pretesto iniziale si dimentica. I paesaggi
dell'Alcione sono puri paesaggi: voglio dire che il sentimento
del poeta si esaurisce nella visione, e non si effonde
durante, o prima o dopo, la visione, per sé stesso. Il
paesaggio e l'anima che lo investe coincidono perfettamente.
Il nostro poeta è qui un assoluto paesista. Solo i
superficiali potrebbero chiedere che insieme con la visione
del paesaggio il D'Annunzio esprimesse l'animo suo, il
sentimento che il paesaggio gli suscita. Tale richiesta, che
vorrebb'essere richiesta di spiritualità, sarebbe in sostanza
richiesta «materiale»: si vorrebbe poter distinguere, diciamo
così, tipo graficamente, dove il poeta esprime sé stesso e
dove esprime il paesaggio. Domanda insulsa. La profonda
spiritualità delle visioni paesistiche di Alcione dà luogo a
una poesia così alta e così nuova nel mondo moderno, che poco
importa il fastidio di doverla spesso liberare da titoli e
sottotitoli, intrusioni superumane e pretesti di passioni
umane. I paesaggi, potentemente individuali, si liberano, del
resto, da sé. Se l'espressione non fosse arrischiata, direi
che essi parlano e il poeta tace. Spesso il poeta si limita
soltanto a dire, di fronte a una sua visione: «ti loderò», o «laudato
sii» ; e non si effonde più di questo. Tal'altra introduce nel
paesaggio delle invocazioni ad una donna; ma la donna resta
estranea (si fondeva col paesaggio, invece, nelle Elegie
romane). Ogni elemento umano, per dir così, sparisce; ma
diventa umana la natura. Lo spirito scende tutto nella
materia; ma la materia diventa tutto spirito. |