CRITICA: GABRIELE D'ANNUNZIO

 MUSICA E PAROLA IN D'ANNUNZIO

 AUTORE: Francesco Flora         TRATTO DA: D'Annunzio

 

Qual'è dunque la sostanza poetica dannunziana? È la musica del senso nelle sue mutazioni di Natura e Femmina, nata su quella medesima materia che spesso turba il poeta e lo tira a piombo nell'oratoria e nella polemica. «La musica é come il sogno del silenzio» dice il poeta, e qui, nella malinconia del canto, è il sogno del silenzio lussurioso, o la musica del sogno carnale.
Talora la genialità stilistica del D'Annunzio è una immersione nella Parola che è «in principio» (O poeta, divina é la parola), nel senso universale della parola che è all'origine della natura. È questo uno degli affetti e dei sentimenti più genuini in lui e quando egli li esprime sa compiere eletta poesia. Cosa importa che egli «uomo» si diletti di immagini, epiteti esatti, metafore, armonie ricercate, squisite combinazioni di iati e di dieresi, ecc. ? Se questo dilettantismo il poeta fa diventar materia del suo affetto, egli avrà compiuta arte, come bene gli avviene talvolta nell'Isotteo e la Chimera o nel Piacere. I critici, se noi non c'inganniamo, si fanno tradire da un vieto concetto che questo amore della parola non possa diventar materia poetica, forse perché spesso il D'Annunzio ne fu vittima ed anche nell'esprimerlo vi soggiaceva compiacendosi. O forse anche perché la parola fu intesa come suono, non come musica soprasensibile, tutta ideale e rapita, ma suono che diletta l'orecchio, simile alle carezze.
Si dice talvolta ch'egli è vuoto d'ogni contenuto che non sia la Parola. Sta bene. Ma questa parola è il suo contenuto: una vivente sua commozione è quella d'esprimere, esprimere per esprimere: e talora anche la morale del poeta è il puro eterno musicale della Parola, una religione dello spirito, poiché non per nulla in principio era il Verbo. D'Annunzio talora ha per contenuto il sentimento stesso della parola: e la parola ha il senso primigenio e barbarico della vita, l'immediatezza della vita che si compiace di questa sua natività. Esprimere: dice D'Annunzio: e questo esprimere è la parola della parola: è il gusto, l'attività dell'esprimere in sé stesso, vale a dire l'armonia sensuale delle cose, la sostanza sensuale del mondo, il Verbo lirico. Ebbene, in poesia cos'è questo contenuto se non la Musica?
L'invenzione di alcune belle forme, di alcuni modi suadenti, ha fatto credere a tutti che D'Annunzio fosse l'immaginifico per eccellenza; ma le immagini dannunziane non sono affatto ricche: hanno un'apparenza vistosa, ma sono sobrie intimamente anche dal punto di vista della sensualità elementare. E del resto le vere immagini son tutte cariche di una profondità che noi chiamiamo di cultura, cioè esperienza viva di pensiero filtrato nella serie del tempo e dello spazio.

D'Annunzio non ha grandi capacità analogiche per la metafora e la similitudine; tuttavia manca a lui talora quella sensività che traduce l'uno nell'altro i sensi e crea lo svolgimento musicale dei rapporti tra le sensazioni fuggitive, il ritmo schiarito dei sensi. L'immagine dannunziana, la quale si svolge assai spesso nei rapporti della tradizione italiana che noi ci ostiniamo a chiamare petrarchesca, non ignora dunque qua e là quella callida junctura che è il proprio dell'immagine dantesca, e la riposta ragione di ogni poesia, il trapasso analogico da un senso all'altro in armoniosa fusione. Una delle maggiori scoperte di estetica è la unificazione dei cinque sensi nelle arti, la loro fusione in un elemento che può chiamarsi Musica. Questa scoperta era matura per il senso dell'arte d'oggi, la quale si differenzia nel tono da quella antica (sia detto con infinita discrezione) come capacità di trapassi analogici, che ai cervelli pigri, privi cioè di larghe esperienze sensibili, sembrano arbitrari. Le cose più remote possono aver coerenza analogica, quando sian veramente sentite (e ciò, s'intende, per diretta partecipazione sintetica di uomo a uomo) in un tempo in cui la metafora deve considerarsi come l'espressione magica del mutarsi eterno di una cosa in un'altra, sicché la similitudine è solo trapasso e metamorfosi, e quasi metempsicosi.

Quando D'Annunzio sente il principio qui espresso dirà per esempio:

«una solitudine lontana come una ricordanza musicale, fatta di segni e d'intervalli costanti». E qui non c'è una schietta fusione, ma assai suggestivo quel tempo musicale fatto campagna e solitudine. Ma quando scriverà: «sentivamo sofrire le loro voci», quel patimento delle voci, tolto analogicamente alla capacità umana di soffrire, è cosa sensibilissima e toccante rischiarata in lirica...

La musicalità è il tono fuso dominante della poesia dannunziana: la musica è veramente lo «spirito» del senso dannunziano. Così le persone e le cose son modi lirici di musica, quand'egli le doma: restano musica grezza, e cioè senso, quando egli non le vince.
Ma anche in un più rigido significato si può parlare di musica e di metro. A parte le poesie legate dannunziane, di solito la prosa del poeta ha un ritmo che si può scandire in versi, i quali nativamente risaltano nella loro costituzione di accenti, in arsi e tesi, e sono il modo stesso musicale del discorso ad alta tensione melica. Non si tratta di versi arbitrariamente staccati, da qualsiasi punto, e con parole che non hanno né un compiuto significato né la giusta accentuazione di pronunzia: ché allora troppi prosatori creerebbero degli endecasillabi. Son nodi melodici che non possono sfuggire e non è capriccio da parte nostra segnare: son colti sempre dopo una pausa di senso e di voce nel naturale ritmo del periodo sintattico. Questi versi nati in una calura recitativa e cantata, che è propria di tutta la prosa dannunziana, si sentono nelle loro cadenze...

Quasi tutto Alcione è musica: bisogna giudicare per andanti, adagio, allegretto, sostenuto e così via: per desiderio e non per realtà. Ed appunto per questa essenza melodica si notano qui più che altrove le dissonanze e noi non diremo, per recare un primo significativo esempio, che il trapasso dall'endecasillabo al verso di tredici sillabe sia musicalmente esatto nella Sera fiesolana. E per ragioni musicali disturba l'arcaismo voluto perfino delle parole Laude, Laudato, ecc. Ma guai a criticare l'Alcione come in genere tutti i libri dannunziani coi criteri notarili della verosimiglianza e della nettezza delle immagini: non esistono in nessun poeta immagini nette e nitide, cioè ferme e pietrificate (anche il marmo è vivente nelle statue) perché le immagini son mobili, d'aria mossa, di zeffiro, di respiro. La musica ha una semplicità che si conquista: e i rapporti lontani dei paragoni bisogna saperli cogliere: una sinfonia di Beethoven è un paragone poetico, tutto cioè un tessuto di analogie per ogni senso. Di solito quando si parla d'immagini e fantasmi limpidi ci si fa schiavi di termini statici; ma ogni visione è rapporto con la nostra personalità, e solo in noi può farsi chiara. Bisogna molto insistere sui rapporti musicali...
La massima realizzazione verbale di questa musicalità è quella che esprime nell'Alcione il mito della femmina e della natura in reciproca trasmutazione. In questo reciproco influsso di natura e donna, che formano magicamente gli aspetti della Lussuria dannunziana, si devono trovare gli spiriti del mito, in cima al quale, come in un ritorno al creatore, c'è la trasformazione del poeta stesso in una Femmina...

Dove meglio la musica si costruisce, è nell'Oleandro, che noi crediamo la più genuina espressione del temperamento dannunziano. Movendo da un affetto tutto sensuale in cui la femmina e la natura sono un solo anelito, il poeta canta liricamente dell'una nell'altra. È un simbolo: passaggio dalla sensualità riflessa alla natura che è ingenuamente sensuale. Altre, e tra le più famose poesie dell'Alcione, quelle dai versetti brevissimi e le rime frequenti, possono ispirare una certa diffidenza, quasi siano talora un sacrificio alla pura e semplice bravura fonica; in questo Oleandro tutti i principali motivi dannunziani si armonizzano, e il panismo analogico, che aveva avuto ben presto il suo primo accento già in Terra vergine, si dispiega nella sua vera sostanza lirica. Che cos'è infatti il panismo innocente, se non proprio la coscienza sensuale del trapasso delle cose l'una nell'altra? Or questo panismo non solo si fa canoro, ma si costruisce in un vero e proprio pensiero melodico, in un vero logos lirico. La conversione della femmina in natura è il mito supremo della trasformazione panica delle cose, e D'Annunzio per istinto ed esperienza di poesia lo ha colto ed espresso. La natura di Terra vergine e di Canto novo, la femminilità malata ma pure tenera di certe creature nelle quali la bontà malinconica è sinonimo di bellezza desiderabile, la femminilità tutta canora delle tre vergini o della Sirenetta di Gioconda qui si ritrovano in trascrizione di pura musica. E come la donna ha qui perduto il fortore del sesso che invita, per un rapimento melodico, così la natura che fu detta femmina lussuriosa, qui si sublima purificandosi in uno splendore numeroso: perché l'alloro qui nato è null'altro che la dolcezza unica e languida di una donna, ma questa donna s'è fatta simbolo e metafora.

Così tutto il mondo in una trasformazione divina diventa femmina musicale: la dolcezza, la malinconia, il dolore, il desiderio del mondo son succo femminile, ma in una sorrisa spiritualità. E chi ciò non sa vedere, questa diffusione della essenza femminile nei più puri versi dannunziani, non intenderà mai come la sessualità possa filtrarsi in musica e costruirsi in poesia. E non intende D'Annunzio chi non sa vedere contro luce, la femmina velata, e come un sorriso, uno sguardo, un profilo, un profumo, un ricordo di donna entrino e si diffondano nelle poesie che più sembrano lontane dalla sessualità.

 

Aggiornamenti 2002 - Luigi De Bellis