Dopo lo sfogo della Laus Vitae (e in tono minore
dell'Elettra), la poetica dannunziana trova il suo centro
naturale nell'Alcione, in cui l'artefice sa quale è il canto
della sua anima, e libera il suo accento di religiosità
indiscriminata da ogni altro pretesto che non sia la creazione
del proprio paesaggio. Si noterà subito che l'Alcione è
purissimo, contrariamente alle altre opere dannunziane, da
elementi extra-estetici, volitivi, e che non v'è un argomento
se non la sensazione, la musica. Perciò nessun libro di
D'Annunzio realizza così compiutamente la poetica decadente,
come per nessun libro quanto per questo D'Annunzio può stare
vicino ai nostri grandi poeti.
Le due accezioni di decadentismo qui si distinguono: l'Alcione
è il libro meno decadente di D'Annunzio, se intendiamo con
decadentismo malattia e perversione; è il più decadente, se si
significa con decadentismo la nuova poetica come ricerca della
musica. Si ripercorra tutto il nostro esame e si vedrà che mai
la poetica dannunziana ha riconosciuto come qui la natura su
cui sorge, mai ha saputo chiedere una musica così nuova e
reale. Una poetica decadente che si è maturata attraverso il
peggiore estetismo: come certi gesti dannunziani nascono al
sommo di avventure folli, dilettantesche.
D'Annunzio ha voluto dare alla sua poetica poteri pratici: di
seduzione, di oratoria imperialistica, di affermazione
individuale; ed ha trovato invece la sua vera poetica, il
fiore di tutte le altre esperienze, quando, servendosi sempre
di quei procedimenti, di quei tecnicismi epurati, è ritornato
natura, ha agito come la natura.
Dove è il discrimine fra la poetica dell'Alcione e quella
delle opere precedenti? Nella mancanza appunto di scopi
pratici, di intrusioni volitive, psicologiche. Gli elementi
essenziali della poetica non cambiano, ma il poeta s'abolisce
come retore. Non c'è perciò una poetica nuova dell'Alcione:
c'è la sintesi superiore che elimina l'accento pratico
dell'estetismo.
L'Alcione nasce così, senza miracoli, sul diffuso terreno
estetizzante; non sfugge, ma invera finalmente in arte le
intenzioni di tutto un programma. In generale si esagera
nell'isolare l'Alcione, nel farne un miracolo staccato dal
resto dell'attività dannunziana. Se invece esaminiamo
l'Alcione dal punto di vista della poetica (e qui si vede
l'utilità di questo genere di studi), non si può non avvertire
la sostanziale similarità di modi di costruzione: se si
eliminano le intenzioni extraestetiche del superuomo o i
particolari che derivano dall'atteggiamento della bontà, si
vede che l'interesse più profondo in senso poetico di
D'Annunzio non è variato. Anzi la poetica dell'Alcione è,
liberata, purificata, quella stessa che sta in fondo alla più
retorica e sviata opera dannunziana, come la ricerca di una
musica verbale e sensuale, non musica del mistero o
dell'ineffabile, ma musica che emana dalle parole amate,
gustate, e che a sua volta trascina e provoca fiotti di nuove
parole.
Così ritroviamo nell'Alcione le lunghe file di frasi ripetute,
di vocaboli sempre più simili, accatastantisi, come nella Laus
Vitae:
come i tuoi labbri e le tue dolci
canne,
come su letto d'erbe amato e amante,
come i tuoi diti snelli e i sette fori,
come il mare e le foci,
come nell'aria chiare e negre penne,
come il fior del leandro e le tue tempie,
come il pampino e l'uva, come la fonte e l'urna,
come la gronda e il nido della rondine,
come l'argilla e il polline,
come ne' fiori tuoi la cera e il miele,
come il fuoco e la stipula stridente,
come il sentiere e l'orma,
come la luce ovunque tocca l'ombra,
e ritroviamo alcuni procedimenti propri del Poema paradisíaco:
Bocca di donna non fu mai di tanta
soavità nell'amorosa via
(se non la tua, se non la tua presente)
ma tutto è rinnovato da un'unica e genuina aspirazione al
canto, non alla persuasione...
Quelle intenzioni di levità e di squisitezza che
ossessionavano il D'Annunzio del Poema Paradisiaco, trovano
qui. quella grazia in cui non sentiamo che consolazione:
Tenue serto a noi, di poca fronda,
è bastevole: tal che d'alcun peso
non gravi i bei pensieri mattutini
e d'alcuna ombra.
Chiaro, leggero è l'arbore nell'aria.
E perché l'imo cor la sua bellezza
ci tocchi, tu non sai, noi non sappiamo,
non sa l'ulivo.
Il desiderio di sorridente intimità, così inficiato
dall'intento mondano dell'Isotteo, qui raggiunge una tenerezza
che supera, presupponendola, ogni squisitezza, ogni
ricercatezza («pratora», «tenzone»...):
Le lodolette cantan su le pratora
di San Rossore
e le cicale cantano sui platani
d'Arno a tenzone.
Tutto il mattino per la dolce landa
quindi è un cantare e quindi altro cantare.
E il paesaggio, animato sensualmente dalle stornellatrici, di
Canto Novo, qui assume una forza di mito, di creazione dal
nulla, in grazia della musica, che alleggerisce il seguito dei
particolari:
Tra i leandri la vidi che si volse,
Come in bronzea messe nel falasco
entrò, che richiudeasi strepitoso.
Più lungi, verso il lido, tra la paglia
marina il piede le si torse in fallo.
Distesa cadde tra le sabbie e l'acque.
Il ponente schiumò nei suoi capegli.
Immensa apparve, immensa nudità.
La sera fiesolana e la Pioggia nel pineto sono le prove
estreme di questa poetica matura ed epurata da tutto ciò che
la turbava, e che la turberà nel periodo posteriore.
Nella Sera fiesolana, la costruzione sembra poco audace, poco
nuova, ma ci si avvicini al tessuto della poesia, a quei
passaggi, che si presentano a finestre luminose, con valori di
musica autonoma:
ne la man di chi coglie
silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta,
su l'alta scala che s'annera
contro il fusto che s'inargenta,
alle soavi pause vocative, che la poetica dannunziana sempre
cercò inutilmente come esplosioni eroiche od orgiastiche:
Laudata sii pel tuo vìso di perla
o Sera, e pe' tuoi grandi umidi occhi ove sì tace
l'acqua del cielo,
e si sentirà chiaramente il tono di discorso superiore che
costituisce la musica più duratura e pacata.
lo ti dirò verso quali reami
d'amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne all'ombra degli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline sui limpidi orizzonti
s'incurvino come labbra che un divieto
chiuda e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l'anima le possa amare
d'amor più forte.
Nella Pioggia nel pineto la poetica, nei suoi particolari
costruttivi, nella sua maturità, nella sua libertà di fronte
ai tentativi precedenti, è più patente che in ogni altra
poesia dell'Alcione. La natura decadente della poetica
dannunziana vi si mostra d'altronde nel miglior modo,
inequivocabilmente. È decadente anzitutto per l'assoluta
mancanza del contenuto, dell'argomento, sì che a noi non ne
resta che un senso preciso di atmosfera musicale, non turbata
dalla presenza di un racconto o di un'intrusione psicologica.
Vi manca la costruzione in senso classico: non esistono centro
e particolari, nucleo e periferia, ma l'anima del poema è per
tutto, nella trama continua delle sensazioni che si fanno
musica, delle parole che diventano note musicali.
Il canto comincia e dilegua senza lo stacco delle costruzioni
classiche: note in principio:
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane, ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie lontane,
note in fine:
E piove sui nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
sui freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse che oggi t'illude,
o Ermione.
Ma, poiché è grande poesia, la traina musicale è costretta da
una necessità non minore di quella che vive nella conclusa
armonia classica.
Poetica nuova: eppure nei confronti dei poeti nuovi e del
decadentismo più sottile, manca in questa poetica un valore di
suggestione. Ché non c'è suggestione di mondi metafisici,
conoscenza di un al di là, ma musica di parole-sensazioni. E
vi manca quel certo spirito critico, che è essenziale nella
poetica di un Valéry o di un Rilke. |